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Cinque lettere

di Giorgio Bongiovanni

Intoccabili. Non è la classica “storia della mafia” questa esatta ricostruzione ad opera di Travaglio e Lodato. E’ più una lettura critica di un secolo di lotte tra mafia e antimafia scritta con il cipiglio agguerrito ora di una requisitoria ora di un’arringa difensiva corroborata scrupolosamente da documenti processuali. Il grande imputato è senza dubbio lo Stato nella sua parte molle, connivente, concussa, vigliacca, distratta, debole, corrotta che consente alla mafia, a Cosa Nostra di proliferare e di sopravvivere sempre e comunque a tutte le stagioni. Uno Stato che ha esposto e abbandonato i suoi uomini migliori per cent’anni, di solitudini appunto, come efficacemente cita il titolo del primo capitolo.
Cinque lettere, dalla negazione dei notabili e dei politici garanti del buon nome della Sicilia, alla legittimazione della m-a-f-i-a come “braccio violento del potere” che agisce ogni qualvolta gli equilibri vanno in stallo e necessitano di essere ristabiliti e rinegoziati, quando per esempio uno o più elementi eterogenei al sistema dà segni di rigetto e rischia di comprometterne la salute.
Da cent’anni il delitto Notarbartolo, Portella della Ginestra, l’omicidio di Pier Santi Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, Basile, Terranova, Impastato, Fava, Chinnici, Falcone, Borsellino e un’interminabile lista che i due giornalisti sgranano come macabro rosario.
Storie di uomini e donne, diventati eroi semplicemente per aver svolto il proprio lavoro con abnegazione e responsabilità noncuranti del rischio, della paura e dell’isolamento, andati più o meno consapevolmente incontro alla morte senza esitare.
Il cuore del libro è senza dubbio l’accorata, e da noi totalmente condivisa, difesa del lavoro svolto, negli anni immediatamente successivi alle stragi del ‘92 e ‘93, dalla Procura di Palermo guidata da Gian Carlo Caselli il quale ha scontato e continua a scontare l’imperdonabile colpa di essere ancora vivo. La prassi adottata dal sistema di potere infatti contempla prima di tutto il ricorso all’attacco sistematico, alla calunnia, alla colpevolizzazione, alla sovraesposizione. E questo è uno dei tanti aspetti che accomuna Caselli a Falcone e Borsellino dai quali non ha ereditato solo la vile aggressione, ma anche un metodo di lotta alla mafia che ha avuto il coraggio di seguire fino in fondo. In realtà, precisano giustamente i due giornalisti, un metodo che Caselli conosceva benissimo per averlo adoperato ai tempi del primo pool antiterrorismo, essendone stato uno dei fondatori.
Assieme ad aggiunti e sostituti, altrettanto coraggiosi e disponibili a rischiare la propria incolumità pur di onorare la memoria dei due e dei molti altri magistrati assassinati dalla violenza di Cosa Nostra, Caselli dà inizio all’epoca d’oro della lotta alla mafia. Vengono arrestati quasi tutti gli esecutori materiali delle stragi, a partire dal capo Salvatore Riina che viene catturato proprio il giorno dell’insediamento del procuratore, vengono letteralmente decapitati i mandamenti e mafiosi di grosso calibro cominciano a pentirsi e a svelare anche i segreti più reconditi della Cupola. Confesseranno persino di aver pensato che era giunta la fine di Cosa Nostra. E così in effetti sembrava. Mai prima di quel momento la magistratura era stata così sostenuta da leggi adeguate, fondi necessari, appoggio incondizionato e soprattutto dalla partecipazione attiva della società civile. Sembrava che le stragi con quell’ immenso tributo di sangue avessero risvegliato una volta per tutte le coscienze degli italiani che finalmente avevano capito la dimensione nazionale del fenomeno mafioso e insieme volevano combatterla.
Un’illusione. Poiché non appena Caselli e i suoi pm hanno cominciato a toccare il centro nevralgico dell’associazione criminale, vale a dire i rapporti collusivi con la politica, l’imprenditoria, le istituzioni, cioè i vari colletti bianchi compresi quello talare e quello sotto la toga, il vento ha ricominciato a soffiare al traverso.
Assassini, terroristi, farabutti, brigatisti, faziosi, venduti, menti distorte, mafiosi, dissennati, malati di mente… sono solo alcuni degli aggettivi collezionati dai magistrati che hanno avuto l’ardire di far rinviare a processo i potenti, gli intoccabili: Andreotti, Mannino, Carnevale, Contrada, D’Antone, Musotto e Dell’Utri, per citare solo i più noti.
Travaglio e Lodato riportano passo passo, e questo è il grande merito del libro, i vari iter processuali che sebbene si siano conclusi, nella maggior parte dei casi, con un’assoluzione per insufficienza di prove, dimostrano la validità dell’impianto accusatorio e soprattutto che i magistrati altro non hanno fatto che il proprio dovere. Fermo restando che, al contrario di quanto la stampa sempre più asservita e compiacente ha falsamente affermato, in tutte le motivazioni delle sentenze c’è abbastanza di cui un funzionario dello Stato, qualsiasi ruolo ricopra, abbia di che vergognarsi. Primo su tutti, proprio perché il più scandalosamente santificato, il senatore Andreotti i cui rapporti con la mafia di Stefano Bontade, quella che uccise il segretario democristiano in Sicilia, Pier Santi Mattarella, risultano provati almeno fino agli anni Ottanta.
Non è andata altrettanto bene al Senatore Marcello Dell’Utri condannato in primo grado a nove anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Nemmeno lui, dall’alto della sua influenza di braccio destro politico del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, con tanto di stuolo di melliflui libellisti al seguito e una vera e propria flotta di avvocati di grido ha potuto smantellare l’ipotesi accusatoria dei pubblici ministeri basata su decine e decine di prove granitiche: intercettazioni ambientali e telefoniche, fotografie, filmati, testimonianze e dichiarazioni riscontrate dei pentiti.
In questo caso la grancassa mediatica dopo il solito, squallido e anche un po’ patetico ricorso al teorema del complotto e della povera vittima ha pensato bene di riporre nell’armadio delle grandi occasioni tamburi, tamburelli e trombette in attesa di tempi migliori. In silenzio il Senatore ha proseguito il suo lavoro di coordinatore di Forza Italia come se nulla fosse accaduto.
Un po’ come fa la mafia con la strategia della sommersione adottata da Bernardo Provenzano in questi anni del dopo stragi: senza scruscio si fanno “i meglio affari”, non si arrecano fastidi e si limitano al minimo i danni. Una politica che a quanto pare, paga.
Gian Carlo Caselli ha lasciato la procura di Palermo nell’estate del 1999 senza tuttavia ottenere il risultato sperato di far placare la tempesta di polemiche che non consentiva al suo ufficio di lavorare con serenità. Di fatto non sono mai cessati gli insulti, le accuse e i colpi bassi a cui il Procuratore e i suoi colleghi, ironicamente ribattezzati “i caselliani”, sono stati costretti a rispondere sovraesponendosi per difendersi dalle calunnie e cercare di ristabilire, per quanto possibile, la verità.
Questa incredibile sistematica azione persecutoria ha raggiunto la sua apoteosi proprio in questi giorni. Tanto terrore suscitano l’integrità morale e professionale di Caselli che si è giunti persino a tentare di far approvare al Senato e alla Camera un apposito emendamento per far sì che il magistrato non possa concorrere al posto di Procuratore Nazionale Antimafia in sostituzione di Piero Luigi Vigna il cui mandato in scadenza è stato inconcepibilmente prorogato a tal proposito. (In caso la norma venisse accolta ci auguriamo che il Presidente della Repubblica si rifiuti nuovamente di firmarla). E non si deve nemmeno far la fatica di ricorrere alla dietrologia in questo caso, perché i teorici anticaselli e anticaselliani non hanno neppure tentato di nascondere le loro intenzioni.
“Gian Carlo Caselli alla super procura nazionale antimafia?”- ha dichiarato tronfio il senatore Bobbio - “certo che il mio emendamento serve ad escludere questa ipotesi, lui non merita quell’incarico”.
Ad aspirare allo stesso ufficio anche l’attuale procuratore di Palermo Piero Grasso. Strano destino quello di questi due uomini. Entrambi amici di Falcone e Borsellino, si trovano oggi asserragliati su due posizioni opposte e non tanto per il posto di superprocuratore, ma poiché entrambi riferimento di due schieramenti di ottimi magistrati antimafia divisi da una voragine metodologica che mina le fondamenta stesse del palazzo di Giustizia.
Sul punto noi di ANTIMAFIADuemila ci siamo lungamente espressi con una estesa lettera aperta (vedi N°3 settembre 2003) al procuratore Grasso nella quale abbiamo avuto modo di spiegare con franchezza il nostro disaccordo su alcune scelte da lui operate nella gestione dell’ufficio. Ovviamente si tratta della nostra semplice opinione di giornalisti, seppur specializzati nella tematica in questione.
Travaglio e Lodato nel capitolo intitolato La normalizzazione accusano il Procuratore senza mezzi termini, e a dire il vero con qualche forzatura (la velata allusione ad un possibile collegamento tra Dell’Utri e Grasso poiché entrambi giocavano nella squadra di calcio della Bacigalupo da ragazzi), di aver appiattito il lavoro dell’ufficio optando di fatto per un’antimafia di basso profilo incentrata meramente sulla repressione dell’ala militare di Cosa Nostra, tralasciando invece di colpire l’organizzazione nei suoi gangli vitali cioè sul versante delle collusioni con la politica e più in generale dei colletti bianchi.
Facendosi scudo della nota quanto assurda circolare “degli otto anni” che fissa un termine di scadenza alla permanenza dei magistrati all’interno della Direzione Distrettuale Antimafia, secondo i due giornalisti, Grasso avrebbe “epurato” e quindi estromesso volutamente dal pool quei procuratori per così dire oltranzisti della metodologia caselliana dell’attacco diretto al potere contiguo a Cosa Nostra: Roberto Scarpinato, Guido Lo Forte, Gioacchino
 Natoli, Antonio Ingroia (tutti titolari dei maggiori processi dell’era precedente) ed altri... A sostegno di questa tesi gli autori prendono ad esempio la conduzione dell’indagine che vede coinvolto il Presidente della Regione Salvatore Cuffaro, l’unica in questi anni sul fronte mafia-politica. E questo è già un dato, puntualmente sottolineano.
Nell’ambito delle inchieste “Ghiaccio” e “Ghiaccio 2” sono emersi inquietanti elementi che hanno fatto scaturire l’ormai noto procedimento nominato “Talpe in Procura” in cui il governatore, inizialmente iscritto nel registro degli indagati per concorso esterno in associazione mafiosa, è stato  rinviato a giudizio solo per favoreggiamento a Cosa Nostra. La scelta del capo di imputazione stessa aveva creato forte disaccordo tra i pubblici ministeri tanto che il sostituto Gaetano Paci non aveva acconsentito ad apporre la sua firma al documento di richiesta. La situazione è andata ulteriormente inasprendosi quando il Procuratore Grasso ha deciso di togliere la delega per le indagini a Paci poiché, secondo lui, la sua dissociazione poteva rappresentare un ostacolo per il prosieguo del lavoro. Una presa di posizione molto dura, senza precedente alcuno, che ha lasciato interdetto il magistrato e non solo.
I due giornalisti puntano il dito anche sulla gestione del collaboratore di giustizia Nino Giuffré cui si sarebbero potute chiedere più informazioni sulle relazioni eccellenti del capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, di cui era braccio destro, piuttosto che sui delitti e sugli avvicendamenti interni ai mandamenti seppur certamente importanti. E’ forte anche la contestazione per  l’archiviazione dell’indagine sui cosiddetti “sistemi criminali”, ossia su quell’ “ibrido connubio” tra mafiosi, ‘ndranghetisti, esponenti del neofascismo e della massoneria deviata che vedeva nel mirino degli investigatori personaggi del calibro di Licio Gelli, Stefano delle Chiaie, Riina, Bagarella, i fratelli Graviano, Nitto Santapaola, l’avvocato Giovanni Di Stefano (vicino al criminale di guerra serbo, il gen. Arkan), il commercialista di Riina, Pino Mandalà per i quali erano stati ipotizzati reati che andavano dal concorso esterno in associazione mafiosa all’associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico. Un quadro a tinte a dir poco fosche nel quale potrebbero inserirsi anche gli indizi per risalire ai mandanti esterni delle stragi oltre agli ambienti della politica e della finanza.
Nel libro sono riportate anche le riunioni della DDA dove si sono vivacemente dibattute le tante questioni di discordia, come la mancata circolazione delle informazioni, fulcro del lavoro di squadra del pool. Che purtroppo c’è stata in violazione di quel principio voluto proprio da Falcone e Borsellino che prevede, in virtù della particolare natura del delicato compito di contrasto alla mafia, la massima condivisione degli elementi investigativi al fine di perseguire migliori risultati.
Senza voler entrare nel merito dei contenuti delle altre riunioni sulla cui veridicità e completezza abbiamo già raccolto pareri antitetici preferiamo puntualizzare ancora una volta la nostra posizione.
Seppur non condividendo la metodologia adottata dal Procuratore Grasso nella direzione del suo ufficio continuiamo a credere nella sua buona fede. Non pensiamo che il procuratore Grasso sia uno “specialista delle carte a posto”, come non riteniamo che abbia “nascosto le prove nei cassetti”, tuttavia dobbiamo confessare di essere rimasti molto sorpresi nell’apprendere della sua candidatura a Procuratore Nazionale Antimafia. Diversamente dal suo amico Giovanni Falcone cui fu impedito di svolgere il proprio lavoro durante la direzione di Giammanco, il Procuratore non è costretto a lasciare Palermo, anzi egli dispone di tutto il potere necessario per poter proseguire la sua azione di contrasto al crimine mafioso. Ci chiediamo quindi per quale motivo voglia spostarsi a Roma.
Inoltre benché riconosciamo a Grasso, ai suoi aggiunti, compreso il procuratore Pignatone sul quale ci eravamo permessi di sollevare legittimi, a nostro avviso, dubbi, e ai suoi sostituti il merito di aver svolto un lavoro ineccepibile dal punto di vista del contrasto alla mafia sia sul versante degli arresti, dei beni confiscati, della ricerca dei latitanti…  ci sentiamo di criticarne l’eccessiva prudenza.
E’ vero che i collegi giudicanti di oggi sono sicuramente molto esigenti e richiedono una mole probatoria inoppugnabile e maestosa per esprimersi sulla colpevolezza di un imputato eccellente, ma se questi non vengono perseguiti, se non si lascia nella storia anche la sola traccia del loro comportamento amorale, non si sarà scalfita che la superficie della punta dell’iceberg che protegge e preserva Cosa Nostra.
Comprendiamo il procuratore Grasso e i suoi collaboratori nella scelta di essere rigorosi, pignoli e prudenti nella disamina delle prove, ma sappiamo benissimo tutti che difficilmente avremo “la pistola fumante” (la fotografia, il filmato o l’audio in cui si vede o si ascolta il mandante esterno chiedere all’esecutore mafioso di compiere la strage) nei delitti di mafia che vedono coinvolti illustri personaggi della politica e dell’alta finanza. Difficilmente avremo la prova schiacciante delle collusioni di un politico di grosso calibro con il capo di Cosa Nostra, oppure della corruzione di un potente finanziere incaricato di riciclare gli enormi proventi dei traffici criminali. Avremo elementi da ricostruire, testimonianze incrociate dei pentiti, quadri storici da ricomporre… certo è molto più rischioso, ma l’ardire è l’unica via per trascinare davanti alla sbarra non solo giudiziaria (affidandoci quindi al libero convincimento del giudice), ma anche etico-morale e storica i potenti, gli intoccabili appunto, quelli che “mandano” e che sono così abili da non sporcarsi mai le mani.
Solo così la lotta alla mafia potrà fare passi avanti, altrimenti dovremo accontentarci di vedere in galera, anche se giustamente, solo gli uomini d’onore, seppur di primo piano, e non i mafiosi. Quelli che nonostante non facciano direttamente parte di Cosa Nostra ne alimentano il potere di “vita” e di “morte”.
E’ completamente assurdo per noi schierarci con Caselli e contro Grasso e viceversa così come ci è stato chiesto da illustri storici dell’antimafia.
Mi torna alla memoria una scena. Quando, pochi anni orsono, durante un convegno organizzato dal grande magistrato Antonino Caponnetto, per tutti noi Nonno Nino, l’avvocato Li Gotti, storico difensore di Tommaso Buscetta e di altri collaboratori di giustizia tra cui Giovanni Brusca, chiese pubblicamente ai due magistrati di abbracciarsi di fronte al pubblico. Un appello che entrambi accolsero immediatamente stringendosi le mani e dimostrando così il loro alto senso dello Stato per il quale hanno dato la vita i loro due amici e colleghi: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

 

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