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Colpevole!

di Giorgio Bongiovanni 

Una condanna logica e matematica.
Basata su prove tanto schiaccianti che un’assoluzione avrebbe rappresentato una vera e propria sconfitta per la giustizia italiana.
La sentenza emessa lo scorso 11 dicembre dalla seconda sezione penale del Tribunale di Palermo presieduta da Leonardo Guarnotta, a latere Giuseppe Sgadari e Gabriella Di Marco, segna una tappa più che importante nella storia d’Italia.
E rende giustizia al lavoro dei magistrati, mettendo finalmente la parola fine alla sequela di voci infamanti e diffamatorie che nel corso di sei anni e 211 udienze dibattimentali hanno gridato alle <<toghe rosse>> e ai <<pentiti a orologeria>>.
 Marcello Dell’Utri, senatore di Forza Italia, da pochi giorni nominato vice del partito dal Presidente Silvio Berlusconi, è stato condannato in primo grado a 9 anni di reclusione per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Colpevole di aver agevolato e rafforzato, per oltre trent’anni, la mafia delle stragi e degli omicidi politici. E di essere stato ambasciatore dell’organizzazione criminale ai più alti vertici dell’imprenditoria e della politica italiana.
 Insieme a lui, ma paradossalmente ad una pena minore (7 anni) ha subito una condanna per associazione mafiosa Gaetano Cinà, uomo d’onore “posato” della “famiglia” di Malaspina.
<<Questa sentenza – è stato il commento a caldo di Antonio Ingroia pm al processo insieme a Domenico Gozzo e Mauro Terranova – spazza via gli insulti ricevuti in questi anni>>. E <<conferma il materiale probatorio>>.
Ad inchiodare il senatore, infatti, una mole di prove tanto imponente che nel corso della lunga requisitoria (16 udienze) i pm si sono trovati costretti a tralasciarne molte, <<per crisi di abbondanza>>.
Tra queste: intercettazioni antiche e recenti, analisi di traffici telefonici, indagini di tipo tradizionale, acquisizioni documentali, consulenze finanziarie, risultanze filmate e fotografiche, dichiarazioni di testimoni e pentiti e, in taluni casi, ammissioni dello stesso Dell’Utri.
Così tante, aveva dichiarato Antonio Ingroia, che si potrebbe persino chiedere <<la configurazione del reato di partecipazione in associazione mafiosa>>.
  A dispetto di questo, e proprio durante la lunga camera di Consiglio, il presidente Pierferdinando Casini aveva telefonato all’imputato per esprimere la propria solidarietà e la propria incredulità. Affidando poi i contenuti di quella conversazione ad un comunicato ufficiale.
Parole delle quali non hanno tenuto conto la professionalità e l’intelligenza del giudice Guarnotta, mente storica della lotta alla mafia, che, come membro del pool di Falcone e Borsellino, aveva in passato contribuito a rendere possibile il maxiprocesso, pietra tombale sul mito dell’impunità dei mafiosi.
Oggi, grazie a questa nuova sentenza, seppur solo di primo grado, un’altra pietra tombale è stata posata. Quella dell’impunità dei potenti che con i mafiosi hanno trescato.
  “I have a dream”, aveva detto Antonio Ingroia in conclusione della sua requisitoria: <<Quello che anche la legge penale venga applicata secondo il principio di uguaglianza, che tutti i cittadini siano uguali davanti alla legge penale>>.

Quel sogno, almeno fino a nuova sentenza, è ora realtà.

 

 

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