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Assoluzione Piena per il pentito Calcara
La sentenza del giudice Almerighi: il suo racconto è verosimile

di Giorgio Bongiovanni 

Non ha mentito Vincenzo Calcara. Per quanto il suo racconto sia incredibile ed inquietante sussistono elementi per ritenerlo verosimile e soprattutto vi è la certezza che il suo dire non abbia calunniato alcuno.
Questa in sintesi la motivazione della sentenza emessa dal tribunale di Roma presieduto dal giudice Mario Almerighi che ha assolto con formula piena, «il fatto non sussiste», il collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara dall’accusa di calunnia aggravata.
A sporgere denuncia un ex maresciallo dei carabinieri, Giorgio Donato, coinvolto dal Calcara nella ricostruzione di un viaggio da Castelvetrano a Roma all’incrocio degli affari tra mafia, massoneria, politica e Vaticano.
Uomo d’onore riservato alle dirette dipendenze di Tonino Vaccarino, presunto consigliere della famiglia di Castelvetrano, città di cui è anche sindaco, e del boss Francesco Messina Denaro, allora capo assoluto della provincia di Trapani, Calcara è un killer di professione. La sua «bravura» tale da venire scelto per incarichi di massima delicatezza, come l’eventuale omicidio del dottor Paolo Borsellino, allora Procuratore di Marsala, o la scorta a due valigie da dieci miliardi.
Tra i mesi di aprile e maggio del 1981 mentre si trovava a Milano dove, su disposizione della propria famiglia, era impiegato presso l’aeroporto di Linate al fine di agevolare il traffico di droga proveniente dalla Turchia e diretto negli Stati Uniti via Sicilia, gli venne ordinato di far rientro al suo paese natale poiché c’era un «lavoretto» da svolgere.
Una volta a Castelvetrano si era recato a casa di Francesco Messina Denaro nella quale erano riuniti diversi uomini d’onore di spicco a lui noti: Vincenzo Culicchia, deputato al consiglio regionale in Sicilia, Stefano Accardo detto «cannata», Vincenzo Furnari, Enzo Leone, componente del Consiglio Regionale della Sicilia, Antonino Marotta e il suo padrino Tonino Vaccarino.
Su un tavolo all’interno dell’abitazione due grosse valigie, una delle quali ancora aperta. Conteneva un enorme quantità di biglietti da cento mila lire.
Caricate le valige, tutti i presenti, ad eccezione di Messina Denaro, si diressero all’aeroporto di Punta Raisi dove, grazie all’ausilio di uomini già predisposti, imbarcarono il voluminoso e prezioso carico sottobordo.
Allo stesso modo ne ripresero possesso una volta giunti a Fiumicino. Ad attenderli un corteo di lusso. Tre auto scure di grossa cilindrata, Monsignor Paul Marcinkus, direttore dello IOR, la banca vaticana, un altro cardinale e il notaio Francesco Albano.
Tutti gli uomini di spicco salirono su due delle tre auto con le valigie, mentre Calcara e altri sulla terza autovettura. L’appuntamento era presso l’abitazione del notaio Albano situata sulla via Cassia.
Il pentito, travestito da carabiniere e il maresciallo Giorgio Donato, che aveva percorso tutto il tragitto da Milano con lui, rimasero di guardia davanti all’entrata dell’edificio fino a quando non ricevettero la comunicazione che tutto era a posto e quindi potevano andarsene.
In compagnia del militare il Calcara fece ritorno a Paderno Dugnano, alle porte del capoluogo lombardo, dove si trovava in stato di sorvegliato speciale dopo un periodo di detenzione. Il responsabile incaricato di controllare i suoi movimenti era proprio il maresciallo Donato. Che, nonostante l’atto di querela, non è riuscito a provare che il pentito abbia mentito circa la sua implicazione.
Ripercorriamo quindi la storia passo per passo.
Dopo un’assoluzione in primo grado per omicidio Calcara venne condannato in appello e quindi sottoposto a sorveglianza speciale ma non troppo, tanto da consentirgli di continuare tranquillamente a condurre affari per la «famiglia». Non riuscì tuttavia a riprendere la sua occupazione al patronato ENCAL, preziosa eredità lasciatagli dal suo mentore Alberto Casesi che lo iniziò alla via del crimine di rispetto. Il suo impiego consisteva nel gestire, in maniera illecita, pensioni di invalidità; posizione assai utile per guadagnare il consenso della gente.
Siamo agli esordi dei favolosi anni Ottanta. In quel periodo Cosa Nostra era per lo più dedicata alla grossa gestione del traffico di stupefacenti e accumulava miliardi. Proprio per far fronte alle «esigenze» della famiglia il Vaccarino lo invia a Milano dove, su suo interessamento, oltre a quello del Messina Denaro in persona, viene assunto alla Dufrital, una società di servizi doganali che operava all’aeroporto di Linate. Munito di tesserino e divisa Calcara non ha nessuna difficoltà nel far transitare ingenti quantitativi di droga e reperti archeologici. Questi in particolare interessavano il Messina Denaro e costituivano preziosa merce di scambio con i responsabili della Dufrital tali Montecucco e Pirovano che erano in stretto contatto anche con il Vaccarino e con Michele Lucchese.
Quest’ultimo era uomo d’onore e referente della famiglia sul posto. Si era infatti messo immediatamente a disposizione per trovare la sistemazione ideale al Calcara e oltre a fornirgli supporto logistico lo aveva messo in contatto con il maresciallo Donato, suo amico, che avrebbe dovuto esercitare sul pentito quel servizio di sorveglianza speciale.
Di fatto - racconta il Calcara - nessuno lo controllò mai. La domenica si recava in caserma a Paderno Dugnano per apporre la firma di presenza e la sera si attardava a giocare a carte con il maresciallo e il mafioso.
Fu Lucchese, che agiva su mandato del Vaccarino, ad organizzare la partenza dei due da Milano. Benché - spiega il collaboratore - il suo ruolo di soldato non gli consentiva di fare nessuna domanda il Lucchese gli spiegò che quel denaro che aveva visto ammontava circa alla cifra di dieci miliardi, soldi della «famiglia» che dovevano essere investiti, quindi riciclati, in Sud America e ai Caraibi, tramite il notaio Albano, il vescovo Marcinkus e la Banca Vaticana.
Sottoposto all’esame di accusa e difesa nel corso del dibattimento il Calcara ha potuto aggiungere particolari dettagliati e notevoli riscontri.
Ricordava per esempio che una volta sceso dall’aereo a Milano l’onorevole Culicchia aveva salutato l’alto prelato con una «bella stretta di mano», mentre Vaccarino, con molta più reverenza, gli aveva baciato l’anello.
Riferiva poi di avere saputo sempre dal solito Lucchese che il notaio Albano faceva parte dell’ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro così come Marcinkus e per questo si conoscevano bene, rammentava inoltre di averlo visto antecedentemente a quel momento sempre in aeroporto (insieme al Lucchese) poiché questi si stava dirigendo o stava tornando da un paese dell’est, aveva infatti la moglie straniera e una figlia adottiva.
Il maresciallo Giorgio Donato ha cercato di smentire le dichiarazioni del Calcara non riuscendo però a produrre elementi concreti a sua discolpa.
In un primo momento infatti aveva sostenuto di aver visto Vincenzo Calcara solo ed esclusivamente il primo giorno che questi si era presentato al comando dei carabinieri di Paderno Dugnano per rispettare l’obbligo di sorveglianza per poi non saperne più nulla. In sede dibattimentale aveva poi spiegato ai giudici di aver controllato i suoi spostamenti nei brogliacci che regolano le presenze dei militari in caserma e quindi affermava di non essersi mai assentato nei primi sei mesi dell’anno 1981.
Ammetteva di conoscere il Lucchese che aveva incontrato nel 1966 quando era in servizio nelle zone terremotate poiché con i commilitoni ci si recava a Selinute e a Castelvetrano per usufruire del giorno di riposo. In quelle occasioni gli erano stati presentati anche il Vaccarino e il «Cannata».
A sua difesa aveva sottolineato che costoro in quel periodo erano da considerarsi unicamente imprenditori e uomini politici diventati mafiosi solo in seguito alle dichiarazioni del Calcara.
Gli investigatori impegnati nella verifica di tale ricostruzione hanno messo in luce innumerevoli contraddizioni. A partire proprio da quei documenti addotti dal querelante.
Risulta infatti che nel periodo dell’anno 1981 citato dal collaboratore il Maresciallo abbia fatto richiesta di licenza straordinaria per i giorni dall’11 al 22 aprile, in occasione delle festività pasquali e il 10,11,12 maggio.
Le indagini però hanno rivelato ulteriori risvolti. Sentiti dalla Corte il Brigadiere Notaristefano e il Brigadiere Pasca, allora sottoposti del Donato, hanno sostanzialmente confermato quanto sostenuto dal Calcara: «il Maresciallo Donato faceva in caserma ciò che voleva».
Per prima cosa infatti il Notaristefano ha raccontato: «Non ricordo se tra novembre e dicembre del 94 DONATO sia venuto in caserma a controllare i brogliacci. In ogni caso avrebbe dovuto essere autorizzato superiormente». Invece tale era la sua autorità che benché fuori dall’Arma (si è congedato nel 1984 ndr.) si era introdotto nel suo ex ufficio e noncurante delle procedure aveva approfittato dell’acquiescenza dei suoi ex sottoposti per disporre dell’archivio di servizio a suo piacimento.
Secche sul punto le considerazioni del giudice Almerighi: «Se questo era il rapporto tra il maresciallo GIORGIO e i suoi dipendenti, quando ormai era un semplice cittadino non facente più parte dell’Arma, a maggior ragione tale era il rapporto quando egli era il Comandante della Stazione».
A riprova il racconto del Notaristefano che, contraddicendo il suo ex superiore, affermava che in occasione di quelle vacanze pasquali il Donato non aveva lasciato nessun recapito di riferimento contrariamente a quando sostenuto pubblicamente dall’ex Maresciallo. Questi, invece, spiegando la sua assenza con le consuete vacanze trascorse a Bitonto presso la sua famiglia aveva assicurato di aver comunicato i riferimenti per farsi rintracciare. Si è ulteriormente scoperto che il «memoriale» che registrava gli incarichi all’interno della caserma era compilato in «modo approssimativo e a volte infedele». Per quanto attiene la presente questione la Corte riporta uno stralcio dell’udienza del Brigadiere Notaristefano al quale venne sottoposto un registro da lui compilato. «Il 22 aprile alle ore 24: Mar. Donato fa rientro dalla licenza ordinaria di giorni 10». Notaristefano: «sì la calligrafia è la mia ed anche la firma». «Lei doveva riempire il memoriale per il giorno 23. Anche la calligrafia sotto il giorno 23 è la sua? Sì. Mi dica se risulta presente il Donato. No, non c’è la sua presenza. Quindi Notaristefano attesta che il maresciallo Donato è rientrato il 22.04 ma non lo inserisce come presente il 23. Infine, Notaristefano è costretto ad ammettere che quel giorno (il 23) il maresciallo Giorgio Donato era assente ingiustificato». Se ne deduce, scrive ancora il giudice, che al Maresciallo in questione era possibile andare in permesso senza precisare alcunché.
Ancora più incredibile però la spiegazione del Donato circa i suoi rapporti con lo Stefano Accardo detto «Cannata».
Sebbene consapevole fin dall’inizio che costui era stato indagato per ben 18 omicidi, e poi prosciolto, non aveva esitato, anni dopo la loro conoscenza quando già non era più in servizio, a procurargli, su richiesta del Lucchese, due giubbotti antiproiettile pagandoli di tasca propria la cifra di £ 750.000.
«L’episodio, conclude la sentenza, costituisce spia eloquente della portata capziosamente riduttiva delle proprie dichiarazioni, apparendo conciliabile soltanto con una più intensa relazione interpersonale che un ex sottufficiale dell’Arma si adoperi per dotare un soggetto accusato di 18 omicidi di uno strumento di difesa da probabili ulteriori attentati. Giorgio Donato è dunque personaggio dai contenuti affatto compatibili con il profilo che ne disegna Calcara».                                                        
Il documento ovviamente non si addentra nell’esame della veridicità intrinseca di quanto riferito dal collaboratore, ma si sofferma nell’accertarne la verosimiglianza.
Chi in effetti - si domanda il giudice - all’interno della famiglia di Castelvetrano poteva essere impiegato in una operazione di tale delicatezza se non i «soggetti più importanti e affidabili della «famiglia» anche sotto il profilo politico, quali il Culicchia e il Leone, due deputati regionali, il Vaccarino già sindaco di Castelvetrano? Chi altro vi poteva partecipare se non altri tre personaggi di spicco della «famiglia», quali il Morotta, il Furnari  e l’Accardo!?» Lo stesso tipo di considerazione può avanzarsi per quella che potrebbe essere indicata come «l’altra parte». Per il vescovo Marcinkus sarebbe stato certamente ancora più difficile trovare un complice idoneo all’espletamento di un compito simile.
La particolare delicatezza della transazione poi richiedeva certamente la presenza di un intermediario, «una persona del mestiere che potesse garantire entrambe le parti». La presenza del notaio all’aeroporto era quindi, in questo senso, necessaria per accompagnare persone e soldi nella sua villa di campagna, luogo riservato e evidentemente sconosciuto agli altri.
Calcara riferisce, in coerenza con il suo grado di soldato, di non conoscere il contenuto del colloquio anche se l’oggetto non poteva essere che quello di raggiungere un accordo tra le parti sulle modalità e le garanzie del riciclaggio.
Anche la scelta delle auto e le modalità di trasporto sono senza dubbio plausibili. Le vetture con a bordo gli alti esponenti politici e religiosi e soprattutto le valigie con i dieci miliardi avevano targa straniera, verosimilmente del Vaticano e quindi, coperte da immunità, l’altra con targa di Roma era occupata da chi, armato, doveva fare la scorta. Va ricordato che in quell’occasione Calcara era abbigliato come un carabiniere con tanto di tesserino, mentre il vero carabiniere, il Donato, era in una delle due auto occupate dalle autorità.
Per quanto poi riguarda le modalità di imbarco e sbarco risultano impiegati presso aeroporto di Punta Raisi i fratelli Cintorino Antonio e Adolfo di Cinisi, sul primo dei quali risulta un rapporto dei carabinieri per fatti di associazione mafiosa e rapina aggravata in concorso con il ben più noto Giuseppe Fidanzati la cui famiglia era in rapporto con l’Accardo Stefano «Cannata».
Al fine di riscontrare ulteriormente l’attendibilità intrinseca del Calcara la Corte ha acquisito agli atti sentenze in cui, ad esempio, viene confermata la «mafiosità» dei molti personaggi citati dal pentito come il Messina Denaro Francesco, il Furnari Saverio, Marotta Antonino e Accardo Stefano, ucciso poi a Partanna nel luglio del 1989.
Un discorso separato merita invero il Vaccarino condannato in primo grado per associazione mafiosa e poi assolto anche se permanevano le sentenze di colpevolezza per aver partecipato a quella organizzazione dedita al traffico internazionale di stupefacenti.
Di rilievo a questo proposito il rinvenimento di una fotografia nella casa del Vaccarino che lo ritrae seduto al centro tra Accardo Stefano e Lucchese Michele e la testimonianza che i tre furono visti assieme nell’estate del 1982 in S. Marinella di Selinute. Elemento che va ad incastrarsi anche con la deposizione del maresciallo Donato.
«Può dunque concludersi –prosegue il giudice - che l’episodio narrato dal Calcara, lungi dall’apparire seccamente smentito in processo, è invece assistito da elementi che ne ritagliano una qualche verosimiglianza storica. [...] L’intero resoconto del Calcara non evidenzia rancori né tradisce propositi di vendetta. Il passaggio frequente nei «dicta» d’esame e di confronto per narrazioni di circostanza inconsuete e talora superflue, le spontanee correzioni e le franche ammissioni di non ricordare sono tutti indicatori opposti alla menzogna e costituiscono dati di vantaggio dell’intrinseca attendibilità del dichiarante».
Un attestato di piena affidabilità attribuito al collaboratore anche dopo che questi, in un secondo momento, aggiunse al suo racconto un particolare che inquadra l’intera narrazione sotto una nuova luce.
Calcara ha infatti riferito che mentre si trovava «di guardia» con il Maresciallo Donato sotto l’abitazione del notaio Albano vide sopraggiungere anche Roberto Calvi che conosceva di vista per averlo incontrato presso aeroporto di Milano intorno al febbraio 1981. «Ricordo che Lucchese, quando gli feci osservare che a Roma avevo riconosciuto la stessa persona che poco prima avevo visto aeroporto di Milano, mi disse ‘Ah, tu fisionomista sei?’».
Questa e altre dichiarazioni del Calcara sono ora al vaglio degli inquirenti che si stanno occupando del nuovo processo per l’omicidio del banchiere milanese finalmente accertato dopo vent’anni di perizie e probabili depistaggi.
Sicuramente la sede più competente per stabilire se il racconto del Calcara sia solo verosimile o anche veritiero.


*Calcara. Annullata con rinvio la sentenza di assoluzione

7 febbraio 2008
E' stata annullata con rinvio la sentenza d'appello che l'11 gennaio del 2005 aveva assolto (confermando il primo grado) il pentito Vincenzo Calcara dall'accusa di calunnia aggravata nei confronti di Giorgio Donato. Ex maresciallo dei Carabinieri, coinvolto dal collaboratore di giustizia nella ricostruzione di un viaggio da Castelvetrano a Roma all’incrocio di affari tra mafia, massoneria, politica e Vaticano (vedi articolo sopra).
In seguito alle accuse confermate dai giudici, il Giorgio - già condannato in via definitiva per i suoi rapporti con personaggi collegati a Cosa Nostra di Castelvetrano e in particolare con il noto mafioso Lucchese – era ricorso in Cassazione “ai soli fini della responsabilità civile”. Come si legge nella sentenza della Suprema Corte del 17 gennaio 2007, depositata in cancelleria il 7 febbraio 2008. E tramite i propri legali aveva sottolineato come “la Corte d'Appello non abbia affatto tentato di accertare se quell'episodio criminoso narrato dal Calcara (…) si fosse o meno verificato, come era suo particolare obbligo”.
Dando ragione al ricorrente la sesta sezione penale della Corte di Cassazione, presieduta da Giovanni De Roberto, ha quindi sottolineato che “sarebbe stato preciso obbligo della Corte di merito quello di valutare, in via del tutto preliminare e autonoma ai fini dell'accertamento del reato di calunnia, la esistenza e la veridicità (o falsità) dei fatti dedotti dal Calcara, che avrebbero costituito reato nella loro oggettività”. E in sostanza si sarebbe “limitata a uno sterile (ai fini che interessano) esame della personalità del calunniatore e del calunniato senza affrontare il decisivo aspetto del processo sopra evidenziato”.
Per questi motivi la Corte di Cassazione ha ritenuto opportuno annullare l'impugnata sentenza rinviandola ai giudici di secondo grado, chiamati ora ad esaminare le molteplici deduzioni del ricorrente. Esame ancora in corso.
G.B.

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