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Nell’interesse del petrolio

di Giorgio Bongivoanni e Monica Centofante 

La guerra contro l’Iraq è ormai cosa fatta. La vittoria dei repubblicani nelle elezioni di mezzo termine, che conferma popolarità e prestigio al presidente Bush, premia la leadership dimostrata dalla Casa Bianca nella sfida al terrorismo internazionale e due ore dopo il successo elettorale gli Stati Uniti dichiarano di non essere più disposti a negoziare e presentano al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la loro risoluzione per il disarmo iracheno. Da votare per il giorno successivo.
E così dal 18 novembre gli ispettori Onu sono in Irak. Una squadra composta da 24 esperti, dal direttore dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica (Aiea) Mohammed el Baradei e dal capo della Commissione delle Nazioni Unite di controllo verifica e ispezione (Unmovic) Hans Blix. Proprio quel Blix che gli iracheni avevano chiesto che non fosse inviato in Iraq . <>. Lo racconta padre Jean-Marie Benjamin, presidente del “Benjamin Committee for Iraq”, membro della “Société des gens de Lettres de France” e già funzionario dell’Onu. <.>> E le sue accuse contro l’amministrazione americana Scott Ritter le ripete oggi al Corriere della Sera. <>, dice, la più grande bugia di Bush è <>. Queste <>, <>.
Ma questo è il prezzo della guerra.
Una guerra contrastata dall’opinione pubblica internazionale, quella americana compresa, tanto che uno dei più recenti sondaggi della Cnn e di Usa Today ha rilevato che solo il 53% degli interpellati è favorevole all’invio di truppe in Iraq a fronte del 73% del novembre dello scorso anno. E a quanti sbandierano il risultato delle elezioni di medio termine come avallo alla politica dell’attuale amministrazione americana occorre ricordare che la maggioranza dei votanti non si è presentata alle urne e che a vincere, per dirla con Giulietto Chiesa, sono stati “soprattutto quelli che pensano che il tenore di vita del popolo americano, cioè il loro, quello della minoranza dei votanti, <> (come disse Ronald Reagan) e non dovrà esserlo, né ora, né mai”.
E il tenore di vita del popolo americano è oggi fortemente compromesso.
Il terzo trimestre dell’anno si è chiuso con le più ingenti perdite mai registrate dal 1987: il 16% sia per l’indice Dow Jones sia per quello delle 500 società della Standard & Poor’s. Dai tecnologici agli assicurativi, dai bancari ai manifatturieri non c’è settore in cui i titoli non siano in perdita, tanto che in un giorno solo, l’ultimo di settembre, sono andati in fumo valori pari a 220 miliardi di euro. Proprio quando il ministro del Tesoro Paul O’Neill aveva profetizzato una crescita fra il 3 e il 3,5% entro il 2003. Ma intanto i risparmiatori hanno continuato a fuggire dal mercato americano e l’indice dell’Associazione dei manager di Chicago, che misura l’attività manifatturiera, è  sceso a settembre da quasi 55 punti a 48,1. I consumi, inoltre, sono saliti solo dello 0,3%, segnale che i consumatori, indebitati, potrebbero ridurre le spese.
Gli economisti, in sostanza, non si sentono più di escludere che gli Stati Uniti possano ricadere nella pericolosa recessione da cui sembravano essere usciti all’inizio dell’anno. Una recessione che , aveva già osservato Greenspan in concomitanza con un allarme lanciato dall’Ocse: <>. E per uscire da una crisi come quella americana e riuscire a mantenere il tenore di vita decantato da Reagan la cosa migliore, forse, è proprio organizzare una guerra.
< Il concetto della "buca per terra" è identico a quello del carro armato, del missile, dell'aereo che vengono distrutti: tu fai una cosa che viene distrutta, e più produci più distruggi, più distruggi più produci>>. E nel caso di attacco all’Iraq <>.
Ci sperano quindi le borse statunitensi - dove le quotazioni del greggio salgono ad ogni presa di posizione bellicosa di Bush e dei suoi portavoce – e chi già guarda al futuro delle risorse energetiche. Secondo alcune stime del dipartimento dell’Energia, nel 2020 gli Stati Uniti avranno bisogno d’importare 17 milioni di barili di petrolio al giorno, sei milioni in più rispetto a oggi, e non esisterebbe provincia petrolifera più attraente dell’Iraq con i suoi 112 miliardi di barili come riserva stimata (1).
In un’intervista rilasciata a Fulvio Grimaldi e pubblicata su Liberazione, il vice premier iracheno Tariq Aziz ha dichiarato che si stanno <>. <>.
E che il controllo e la protezione del petrolio mediorientale sia sempre stato un fatto significativo nella politica di sicurezza degli Stati Uniti è storicamente provato. “Nel 1980 il presidente Jimmy Carter rese esplicito ciò che a lungo era stato affermato informalmente: che ogni tentativo di ostacolare il flusso di petrolio dal Golfo Persico sarebbe stato considerato un ‘attacco agli interessi vitali degli Stati Uniti’ e, come tale, ‘respinto con ogni mezzo necessario, compresa la forza militare’. Questo principio, ribattezzato dottrina Carter, fu in seguito indicato come il motivo dell’intervento americano nel conflitto del Golfo del 1991 e il conseguente concentramento nella regione di forze statunitensi. Poiché Baghdad resta una minaccia significativa per il Kuwait e l’Arabia Saudita – due dei principali fornitori di petrolio degli Stati Uniti – l’Iraq continua a fungere da potenziale detonatore per la dottrina Carter. Il fatto che Baghdad possieda probabilmente munizioni chimiche o biologiche (non si può sapere con certezza quante siano, visto che dal 1998 non si sono ispezioni delle Nazioni Unite) aumenta la minaccia ma non ne altera la natura fondamentale. In questo senso l’attuale preoccupazione statunitense per l’Iraq e il suo arsenale è legata alla politica americana di proteggere il flusso di petrolio dal Golfo Persico(2)”.
C’è poi un altro aspetto. Nel momento attuale, in cui la domanda di greggio sale di giorno in giorno e la produzione interna degli Usa è in assoluto calo è logico che gli stessi Stati Uniti dipendono sempre più dai maggiori produttori stranieri e quindi da Iraq e Arabia Saudita. La situazione si aggraverà poi nel 2020, quando, secondo recenti calcoli del dipartimento dell’energia, aumenteranno di sei milioni di barili al giorno il loro fabbisogno di petrolio. Parte di questo verrà importato dall’America Latina, dall’Africa, dalla Russia e dal bacino del Mar Caspio, ma la maggior parte dovrà provenire dal Golfo Persico. Arabia Saudita, Iraq, Iran, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti sono infatti, nell’ordine, quelli che possiedono i due terzi delle riserve mondiali dell’oro nero.
E l’America questo lo sa.
Nel “rapporto Cheney” sulla politica energetica risalente al maggio del 2001 si legge che “secondo ogni stima, i produttori di petrolio del Medio Oriente resteranno centrali per la sicurezza petrolifera mondiale” e saranno quindi “un obiettivo primario della politica energetica internazionale degli Stati Uniti”. E l’Iraq, con i suoi vasti giacimenti ancora intatti, è l’unico stato, oltre all’Arabia Saudita, che nei prossimi anni potrà aumentare la propria produzione di milioni di barili al giorno. Detto questo è ovvio pensare che Washington sia decisamente preoccupata “dai rapporti secondo cui Baghdad ha firmato alcuni contratti per lo sfruttamento delle risorse petrolifere con una serie di società non statunitensi – tra cui importanti compagnie russe e cinesi – consegnandogli il potenziale controllo sulle riserve inutilizzate dell’Iraq(3)”.
Tra queste società le europee Eni e TotalFinaElf, la China National Petroleum Company e la russa Lukoil. Solo quest’ultima si è assicurata il 68% dei giacimenti di West Kurna, a 100 km circa a nord ovest di Bassora, con riserve per 20 miliardi di barili. Vagit Alekperov, il presidente della compagnia, senza dirlo con chiarezza, ha lasciato intendere che tali giacimenti farebbero gola agli americani e che in caso di conflitto la Lukoil, della quale il governo russo ha una quota azionaria pari al 14%, rischierebbe di essere scavalcata. Per evitare che ciò accada, ha rivelato Alekperov al Financial Times, il Cremlino sta svolgendo dei negoziati con la Casa Bianca. Visto che Putin, dopo la negativa esperienza della “Jackson Vanik” – la legge che ostacola i commerci russo americani in particolare nel settore hi-tech e che Bush aveva invano promesso di revocare - questa volta vuole tutto nero su bianco. E così il 22 ottobre gli inquilini di Casa Bianca e Cremlino si incontrano a San Pietroburgo dove stringono un gentleman’s agreement, un accordo tra gentiluomini, sulla divisione delle risorse nel dopo-Saddam in cambio del via libera russo all’eventuale operazione militare contro Baghdad. Accordo stipulato, secondo quanto riporta il Washington Post, in seguito alle garanzie date dagli americani per quanto riguarda i contratti delle compagnie petrolifere russe in Iraq, la possibilità di ottenere il pagamento dei debiti iracheni (circa 12 miliardi di dollari) e la garanzia di un mantenimento del petrolio intorno ai 21 dollari al barile.
Per convincere ancora di più i russi della necessità di appoggiare una guerra contro il terrorismo, inoltre, gli americani non si sono fatti sfuggire l’occasione dell’attentato ceceno al teatro Dubrovka trasformandolo in una sorta di 11 settembre russo. Nonostante siano tanti gli interrogativi che si celano dietro l’operazione di salvataggio degli ostaggi (tanto che la Ntv russa ha dichiarato che le immagini trasmesse in merito all’accaduto non erano vere ma erano dei servizi segreti) come tanti sono gli scempi compiuti dall’esercito russo in Cecenia, Stati Uniti in primis e Comunità Internazionale poi, sembrano d’accordo a chiudere gli occhi al fine di ottenere la partecipazione della Russia nella guerra permanente. Partecipazione che oggi, dopo l’attacco terroristico, sembra essere più accettata dal popolo dell’ex Unione Sovietica.
Ma allora, visto da questo lato, il conflitto umanitario non appare diverso da una lotta all’ultimo sangue per l’accaparramento delle risorse petrolifere e per l’affermazione del dominio statunitense sul resto del pianeta. Significativo, indubbiamente, il fatto che i primi paesi nel mirino dei padroni del mondo siano quelli in cui abbondano le risorse indispensabili alla sopravvivenza di qualsiasi essere umano e che ormai, come è recentemente emerso dal vertice di Johannesburg, sembrano non essere più sufficienti per tutti.
Un discorso già fatto per la guerra in Afghanistan, zona di passaggio di importanti oleodotti e gasdotti e per la controversa situazione di crisi nella quale versa il Sud America.
Anche qui la politica statunitense ha giocato un ruolo decisamente determinante ed è noto a tutti che in America Latina vi è il più importante patrimonio genetico dell’umanità.
In un commento su l’Unità Sigmund Ginzberg si chiede se gli americani (e con loro tutti i Paesi dell’Impero ndr.) non abbiano in mente una sorta di patto di Yalta, “una nuova spartizione di equilibri e interessi, un nuovo ordine petrolifero mondiale”.
Forse si tratta si qualcosa di molto più grande: la sicurezza di un futuro in un mondo che il futuro non può più garantirlo a tutti.

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