''Gli stessi di Borsellino''. L'attentato a Nino Di Matteo
Nella scorsa parte avevamo messo in evidenza una serie di elementi e spunti investigativi che, per capire perché furono uccisi nel 1992 Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, meriterebbero un approfondimento. Speriamo la Procura di Caltanissetta risponda.
In realtà per comprendere le stragi bisognerebbe andare anche oltre Capaci e via d'Amelio. Lo aveva scritto in maniera chiara la Gip di Caltanissetta Graziella Luparello che aveva negato l'archiviazione delle indagini sui mandanti esterni indicando alla Dda di Caltanissetta punti precisi che dovevano essere sviluppati.
In quell'atto si chiedeva di assumere elementi sulla morte di Nino Gioé e sul ruolo di Paolo Bellini.
Il primo, uno dei responsabili della strage di Capaci morto "suicida" (o sarebbe meglio dire "suicidato") tra il 28 e il 29 luglio 1993, il Gip parla del contenuto dell'ultima lettera in cui fa riferimento ad "infamità" che avrebbe riferito. “Non risultano, a oggi, verbali ufficiali delle dichiarazioni di Gioè – scriveva al tempo la gip - ma è possibile che quelle infamità fossero contenute in atti rimasti segreti, a seguito di colloqui informali del detenuto con i Servizi (sulla base del noto Protocollo Farfalla, che vincolava il Dap al segreto)”.
Quindi evidenziava la possibilità che Gioè avesse “reso dichiarazioni sul conto di Bellini ad appartenenti infedeli dello Stato… e che questi, prima che il detenuto potesse entrare in contatto con i magistrati, ne avessero deciso l’eliminazione”.
E ancora si chiedeva di approfondire sull'esistenza di un “nucleo operativo trasversale occulto” della Questura di Palermo, che potrebbe aver avuto un ruolo nella morte del poliziotto Nino Agostino e del collaboratore del Sisde, Emanuele Piazza, come nelle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Altro spunto di lavoro la questione, di cui ha parlato in una intervista l’avvocato Fabio Repici, parte civile per conto della famiglia Borsellino, relativa a una intercettazione di una conversazione avvenuta tra poliziotti della ‘squadra Contrada’, da cui si ricaverebbe che Concutelli (che uccise a Roma nel 1976 il giudice Vittorio Occorsio che indagava sull’eversione di estrema destra) si addestrava al tiro in un poligono frequentato anche da poliziotti e mafiosi.
Ancora la Gip chiedeva di investigare sulla "presenza di un partito politico (riferimento a Forza Italia, ndr) che potrebbe aver concorso a definire la strategia della tensione, allo scopo di legarsi, in un reciproco do ut des, a Cosa Nostra e attingere al bacino elettorale che era appartenuto a quella Dc con cui Riina aveva chiuso ogni finestra di dialogo”.
E poi ancora la cosiddetta “pista nera”, basata su possibili collusioni tra la mafia e destra eversiva.
Nel documento in cui dispone le nuove indagini guardando a quanto emerso nei processi sulla strage di Bologna (sulla strage alla stazione del 1980) e quello sulla 'Ndrangheta stragista per cercare di verificare se vi fu un "ruolo assolto nelle stragi da esponenti delle istituzioni”.
Graziella Luparello, Gip di Caltanissetta © Emanuele Di Stefano
A proposito della strage di Bologna si fa riferimento anche alla recente formale desecretazione di atti. “Scorrendo la sentenza di primo grado emessa dalla Corte di Assise di Bologna a carico di Gilberto Cavallini – scriveva la Luparello - emergono degli elementi che possono orientare l'osservatore esterno a sospettare che le ragioni della secretazione potessero essere connesse alla ordinaria gravitazione degli esecutori della strage, ossia come detto gli esponenti della destra eversiva, nell'ambito della loggia massonica segreta P2, facente capo al "Maestro Venerabile" Licio Gelli. Loggia massonica ad indirizzo fascista che, tra l'altro, prevedeva tra i capisaldi del suo programma (denominato "Piano di rinascita democratica"), la separazione delle carriere dei magistrati, e alla quale appartenevano i vertici delle forze dell'ordine e dei servizi segreti, deputati e ministri della Repubblica (secondo il Col. Massimo Giraudo, anche il suo collega Mario Mori aveva manifestato l'intenzione di iscriversi nella P2, tanto da proporlo allo stesso Giraudo)”.
Un dato, quello dell'interesse di Mario Mori per la P2, che era emerso proprio nel corso del processo sulla trattativa Stato-mafia.
La vicenda raccontata da Giraudo riguardava le dichiarazioni di un ex ufficiale del Sid, Mauro Venturi, che negli anni '70 lavorò a stretto contatto con Mori.
Nello specifico Venturi, ascoltato dai magistrati palermitani tra il febbraio e l'aprile 2014, raccontò questo episodio: “Io ero a capo della segreteria raggruppamento centri di controspionaggio Roma: fui chiamato da Federico Marzollo, che nel 1972 portò anche Mario Mori al Sid.... Mori venne mandato a lavorare nel mio ufficio ma rispondeva soltanto a Marzollo stesso: era il suo pupillo”.
Elementi che dovrebbero interessare la nuova indagine della Procura nissena, ma di cui non si ha alcuna notizia.
Tra i punti da approfondire anche quelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca su quanto da lui reso sempre nelle indagini sui mandanti esterni (che furono poi archiviati) e le parole del boss stragista di Brancaccio Giuseppe Graviano su quei presunti interessi economici con l'ex Presidente del Consiglio.
E poi ancora si indicava la necessità di sentire Antonio D’Andrea, ex segretario della Lega Meridionale, “sull’impegno di Forza Italia a fare approvare normative favorevoli alle organizzazioni criminali, anche sul fronte dei pentiti”.
Cosa è stato fatto di tutto questo? Ci piacerebbe essere smentiti, ma quanto è dato sapere è poco o nulla.
Mario Mori © Imagoeconomica
Punto di partenza
A Caltanissetta ci sono stati magistrati che hanno cercato i mandanti esterni della strage di via d’Amelio e Capaci. E sono stati stoppati.
Altri nel recente passato si sono concentrati su aspetti a nostro avviso secondari.
I primi spunti sui mandanti esterni emersi nel processo Borsellino ter, condotto dai magistrati Nino Di Matteo ed Anna Maria Palma, in cui vennero condannati in via definitiva boss del calibro di Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Michelangelo La Barbera, Cristoforo Cannella, Filippo Graviano, Domenico Ganci, Salvatore Biondo (classe '55) e Salvatore Biondo (classe '56).
E' in quel processo che emerse, con la deposizione del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, l'esistenza della trattativa Stato-Mafia.
Nella sentenza di primo grado la corte scriveva: “Risulta quanto meno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare” una “forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica”. Ricostruzioni basate sui pentiti Pulvirenti, Malvagna, Avola e, non da ultimo, Cancemi, il quale, si legge nella sentenza di primo grado, ha dichiarato come “Riina era solito ripetere che con quelle azioni criminose avrebbero messo in ginocchio lo Stato e mostrato la loro maggiore forza. E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come Borsellino avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa nostra e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia”. Ed è sempre Cancemi ad aver raccontato che Riina era stato “accompagnato per la manina” nell’organizzazione di quelle stragi. Dichiarazioni ripescate dalla Gip nel nuovo filone investigativo.
Sempre nel Borsellino ter il boss di Porta Nuova fece anche i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri affermando che Riina li indicava come soggetti da appoggiare "ora e in futuro" rassicurando gli altri boss della Cupola che la strage Borsellino sarebbe stata alla lunga "un bene per tutta Cosa nostra".
Quegli stessi Dell'Utri e Berlusconi che sono finiti indagati dalla Procura di Firenze (con l'indagine condotta dal procuratore aggiunto Luca Tescaroli, assieme al pm Luca Turco) come mandanti esterni delle stragi del 1993.
Indagini che sono andate avanti anche se Berlusconi, deceduto lo scorso anno, è uscito di scena.
Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri © Imagoeconomica
Di Legami-Sinico, chi ha ragione?
Di Matteo si occupò anche di un'indagine particolarmente spinta sul filone dei Servizi di sicurezza. Nell'ambito delle indagini per concorso in strage aperta nei confronti dell'ex Sisde Bruno Contrada Di Matteo ebbe modo di assumere a verbale le dichiarazioni di alcuni ufficiali dei carabinieri e della polizia.
A ricostruire la vicenda nella sua testimonianza al processo sul depistaggio di via d'Amelio fu proprio il pm Nino Di Matteo.
“Fu aperta una indagine molto spinta sui Servizi Segreti - aveva ricostruito il magistrato - Fui io a riaprire le indagini su di lui sulla base delle dichiarazioni del pentito Elmo che ci aveva detto di averlo visto allontanarsi dal teatro dell’attentato con una borsa, o dei documenti in mano. A quel punto lessi tutto il vecchio fascicolo, acquisii le sue agende”.
“Vedendo quegli atti mi accorsi che c’era stato un ufficiale del Ros, Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l’esplosione aveva constatato la presenza di Contrada. E raccontava anche di una relazione di servizio che attestava la presenza di Contrada in via d’Amelio e che poi sarebbe stata strappata in Questura - spiegò ancora -. Quel che mi fece trasalire è che quando fu sentito dalla collega Boccassini, nel 1992, mise a verbale quella circostanza dicendo di averlo saputo da un suo amico carissimo, non un confidente, di cui voleva tutelare l’identità. Andai a interrogarlo e ribadì le medesime parole. Quando io stavo per chiedere il rinvio a giudizio del carabiniere lui venne in Procura e depositò una memoria della quale avrebbe parlato con il colonnello Mori, facendo il nome della sua fonte: il funzionario di polizia Roberto Di Legami. Ricordo anche il momento dei confronti che fu drammatico. Di Legami negò tutto, fu anche rinviato a giudizio perché avevamo due militari contro uno (Sinico e Raffaele Del Sole, ndr). Dell’esito di quel processo appresi successivamente, quando già ero a Palermo e seppi che il funzionario fu assolto”.
La presunta confidenza di Di Legami a Sinico raccontava anche di una relazione di servizio che attestava la presenza di Contrada in via d’Amelio. Questo documento sarebbe però stato distrutto.
Dal momento che Di Legami è stato dimostrato nei processi che non c'entra nulla, perché lo stesso è stato tirato in ballo?
Furono gli uomini dell'arma ad aver dichiarato il falso? Se sì, con quale scopo?
In questi anni la Procura di Caltanissetta ha mai scandagliato tale ipotesi?
Mentre si seguono fantomatiche piste e nuovi depistaggi vengono posti in essere, per comprendere quale sia la giusta direzione da prendere per trovare la verità su ciò che è avvenuto nel corso della nostra storia si deve guardare ai fatti, oltre le questioni giudiziarie.
Tribunale di Palermo. Deposizione in aula di Bruno Contrada nel processo che vedeva l’ex numero tre del Sisde imputato per associazione mafiosa © José Luis Ledesma
E la sensazione, tanto allarmante quanto agghiacciante, è che siamo di fronte ad una storia che si ripete.
Una storia che ha visto magistrati, funzionari di polizia, carabinieri, giornalisti, politici, preti, imprenditori e semplici cittadini che con coraggio affrontavano la mafia ed il sistema criminale. Tutti uccisi appena venivano colpevolmente lasciati soli nella loro battaglia.
Grazie alle rivelazioni di svariati collaboratori di giustizia sappiamo che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per la mafia erano dei condannati a morte sin dagli anni Ottanta. Per il loro lavoro erano perseguitati delegittimati sui giornali, isolati e denigrati dalle istituzioni, dalla politica e da una certa parte della magistratura. Tuttavia gli attentati nei loro confronti vennero eseguiti solo in un preciso momento storico in cui, dopo il crollo del muro di Berlino, era necessario un cambiamento anche sul piano nazionale.
Oggi si dice che le mafie non uccidono più, che non commettono più grandi delitti, ma si dimentica che nel recentissimo passato sono state emesse condanne a morte contro quei magistrati che si impegnano senza sosta nella ricerca della verità.
Uno di questi è proprio il magistrato Nino Di Matteo, oggi sostituto procuratore nazionale antimafia.
Nel corso della sua storia ha istruito processi come quello dell’omicidio del giudice Saetta e di suo figlio (ottenendo il primo ergastolo di una lunga serie proprio per Totò Riina), e poi ancora quello sulla morte del giudice istruttore Rocco Chinnici, padre dello storico pool antimafia di Palermo. Sempre a Caltanissetta ottenne le condanne di tutti i capi della Commissione provinciale e regionale finiti sotto accusa per la strage di via d'Amelio.
Quindi ha istruito il processo a carico di Ignazio D’Antone, l’ex capo della Criminalpol di Palermo, accusato e condannato per aver favorito la latitanza di alcuni boss del calibro di Mimmo Spadaro e Cosimo Vernengo.
Quindi si è impegnato in una forte azione di contrasto alle spietate cosche gelesi.
Vanno ricordate anche le indagini sul versante politico con l’inchiesta denominata “Ghiaccio” ha invece individuato la profonda commistione tra mafia e politica al tempo della latitanza di Provenzano. Nell’ambito di questa inchiesta i processi istruiti da Di Matteo hanno visto sfilare sul banco degli imputati l'ex assessore alla Sanità del comune di Palermo Mimmo Miceli, il Re Mida dell'oncologia siciliana Michele Aiello, i carabinieri Giorgio Riolo, Giuseppe Ciuro, Antonio Borzacchelli e soprattutto il presidente della regione Siciliana Totò Cuffaro.
L’inchiesta “Talpe alla Dda” scaturita da “Ghiaccio” aveva infatti rivelato un sistema di monitoraggio delle inchieste della procura al fine di proteggere gli uomini di Provenzano e soprattutto i suoi affari. Anche per l’ex presidente Cuffaro era stato individuato un ruolo di favoreggiamento e per questo fu condannato ad una pena definitiva (già scontata) a sette anni di reclusione.
Dall’operazione “Gotha” invece è scaturito il processo a Giovanni Mercadante, il primario di radiologia del “Maurizio Ascoli” di Palermo indicato dal collaboratore di giustizia Antonino Giuffré come “una creatura di Provenzano”. Passando dalle indagini sulla mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso, nel 1995, fino ad arrivare all'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, l'impegno dei magistrati è sempre stato quello di cercare la verità sui cosiddetti mandanti esterni delle stragi.
Una ricerca che, ovviamente, lo ha posto al centro del mirino del sistema criminale.
Noi non dimentichiamo che tra il 2012 ed il 2013 Di Matteo è stato condannato a morte dal capo dei capi di Cosa nostra, Totò Riina e da Matteo Messina Denaro.
Un progetto di morte che si lega al contesto stragista di Capaci e via d'Amelio.
Vediamo come.
Il capo dei capi di Cosa Nostra, Salvatore "Totò" Riina © Shobha
“Gli stessi di Borsellino”
2Anche in questo caso sono i collaboratori di giustizia a spiegare il motivo.
Nel 2014 il boss dell'Acquasanta Vito Galatolo, figlio di Vincenzo Galatolo, spiegò che a fine 2012 fu Matteo Messina Denaro a chiedere di organizzare un attentato per conto di altri soggetti (“Gli stessi di Borsellino”), perché si era "spinto troppo oltre".
Ai denigratori di turno, che hanno spesso sminuito la portata di quelle dichiarazioni, basta ricordare le considerazioni della Corte d'assise d'appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza che ha visto la condanna di Nino Madonia come mandante dell'omicidio del poliziotto Nino Agostino.
La Corte si sofferma in termini ampiamente positivi sull’attendibilità del pentito e proprio su quell'attentato che, come scritto nella richiesta di archiviazione dell'indagine, resta “certamente operativo per gli uomini di Cosa nostra”.
Secondo la valutazione dei giudici della Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, “non è una smentita la conclusione delle indagini istruite dalla DDA di Caltanissetta in ordine al progetto di attentato ai danni di un magistrato della DDA di Palermo, impegnato all’epoca nelle indagini e poi nel processo sulla 'Trattativa Stato-mafia'”. Infatti “l’archiviazione del relativo procedimento è stata decretata, con provvedimento del GIP del Tribunale di Caltanisetta in data 21 marzo 2017, per non essere stati acquisiti riscontri alla pur dettagliata ricostruzione offerta dal collaboratore, e non già perché siano emersi elementi che la smentissero”.
Ricorda quindi la Corte che a Galatolo “dopo essere stato scarcerato, nel 2012 gli venne offerta da Girolamo Biondino, ma per volere di Matteo Messina Denaro - l’investitura a capo del mandamento di Resuttana, unitamente però all’incarico di cooperare all’organizzazione e all’esecuzione di un attentato ai danni di un noto magistrato della DDA di Palermo (per l'appunto Nino Di Matteo, ndr). Attentato per il quale era stato reperito anche l’esplosivo necessario e che, con tutta probabilità, proprio il suo 'pentimento' ha consentito di sventare”.
Nello specifico Galatolo aveva raccontato dell'acquisto di duecento chili di tritolo che le famiglie palermitane avevano fatto provenire dalla Calabria. Non solo. Aggiunse anche un importante dettaglio: Messina Denaro, nella lettera inviata ai boss palermitani, garantiva che "per l'attentato a Di Matteo non era come negli anni '90, si era coperti".
Quella doppia condanna a morte da parte di Riina dal carcere e di Messina Denaro dall'esterno (al tempo ancora era latitante, ndr) era avallata dal silenzio-assenso degli altri storici capimafia della Cupola. Dal carcere non giunsero reclami da parte dei vari Biondino, Madonia, Graviano, Aglieri, Santapaola e così via.
Sono quelli gli anni in cui venivano condotte le indagini che poi confluirono nel processo trattativa Stato-mafia.
E sulla Procura di Palermo si erano concentrate fortissime tensioni istituzionali con il conflitto di attribuzione tra la Procura di Palermo ed il Capo dello Stato Giorgio Napolitano, la cui voce finì registrata nelle intercettazioni (poi distrutte) che ebbe con l'allora indagato Nicola Mancino, ex ministro degli Interni.
Matteo Messina Denaro
A riscontro delle dichiarazioni di Galatolo giunsero anche le rivelazioni di altri collaboratori di giustizia.
Vale la pena di ricordare le dichiarazioni di Francesco Chiarello, ex boss del Borgo Vecchio, che disse di aver saputo che l'esplosivo era stato “trasferito in un altro nascondiglio sicuro”, a cui si aggiunsero, in una vera e propria escalation di tensione, le testimonianze dell'ex boss Carmelo D'Amico, e gli elementi acquisiti con l’arresto dell’avvocato Marcello Marcatajo, oggi deceduto.
Tutti fatti che, come abbiamo più volte scritto, evidenziavano la concretezza di quel progetto di morte.
Addirittura, tra i possibili luoghi in cui effettuare il delitto si era pensato al Palazzo di Giustizia di Palermo, i pressi dell'abitazione del magistrato o a Roma, con l'uso di armi convenzionali.
Sul punto proprio Galatolo aveva svelato un altro progetto di morte alternativo che avrebbe coinvolto Salvatore Cucuzza, ex capomandamento di Porta Nuova arrestato nel 1996.
L’ex boss, deceduto a giugno 2014, avrebbe dovuto attirare Di Matteo a Roma, in una trappola, chiedendo di essere sentito dal pm palermitano riguardo ad alcune rivelazioni sulla trattativa Stato-mafia. E nella capitale il magistrato sarebbe stato ucciso a colpi di kalashnikov o con un bazooka. Un’eventualità che, però, sarebbe stata poi scartata.
Gli arresti che furono compiuti negli anni dei vari D'Ambrogio, Biondino, Galatolo e Graziano (tutti soggetti che parteciparono alle riunioni del dicembre 2012 in cui arrivò l'ordine con le missive di Matteo Messina Denaro) hanno sicuramente portato ad un rallentamento nell'esecuzione dell'attentato, ma ciò che è avvenuto in quegli anni, e in quelli successivi, spiega il perché, e soprattutto chi, si vuole uccidere il magistrato Nino Di Matteo.
Basta ricordare le criptiche (e mai chiarite) parole del boss Graziano, colui che aveva il compito di conservare il tritolo, dette al momento dell’arresto disse in riferimento all’esplosivo disse: “Dovete cercarlo nei piani alti”.
Non si deve poi dimenticare l'anonimo giunto sulla scrivania dell'allora sostituto procuratore di Palermo, il 26 marzo 2013, nel quale si avvisava che “Amici romani di Matteo (Messina Denaro, ndr) avevano deciso di eliminare il pm Nino Di Matteo in questo momento di confusione istituzionale, per fermare questa deriva di ingovernabilità”.
L’autore sosteneva di essere affiliato alla famiglia mafiosa di Alcamo.
Il sostituto procuratore Nino Di Matteo, consigliere togato del Csm nel 2022, relatore al convegno presso l’Università di Giurisprudenza di Catanzaro intitolato “Ergastolo ostativo. Il problema e le implicazioni costituzionali” © Davide de Bari
Massima allerta
Anche negli anni successivi l'allerta su Di Matteo è stata sempre alta.
Addirittura, nell'ambito di un'indagine sulle famiglie palermitane, nel 2016 venne intercettato un mafioso che, litigando con la moglie, si lamentava dell'imprudenza della suocera che aveva accompagnato la figlia al Tc2, il circolo tennis in via San Lorenzo.
Ed in questo dialogo l'uomo avrebbe spiegato a chiare note che la bambina non doveva andare lì perché frequentato da Di Matteo e “a quello lo devono ammazzare”.
Parole che confermavano, di fatto, il racconto di alcuni ragazzini che nel 2015 avevano segnalato la presenza di uomini armati davanti all'ingresso secondario del circolo tennis di San Lorenzo.
Proprio l'attentato a Nino Di Matteo, progettato e chiesto nel clou dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, dimostra come proprio quel processo e quelle indagini facessero paura, non alla mafia, ma a quei poteri che non volevano che quella verità su patti ed accordi stretti negli anni Novanta, venissero disvelati.
“Gli stessi (mandanti) di Borsellino” volevano la morte di Di Matteo. Il che vuol dire che anche nel luglio 1992 la morte del giudice non era solo un affare interno di Cosa nostra.
Forse, dunque, al contrario di quel che dicono certi professori e benpensanti, il processo trattativa non era affatto una “boiata pazzesca”, né furono seguite “piste inesistenti” come sostenuto da Fiammetta Borsellino e dall'avvocato Trizzino.
Altrimenti non si spiegherebbe anche una condanna a morte così plateale e “bilaterale” avvenuta per bocca di Riina e Messina Denaro.
Tutt'oggi Di Matteo è il magistrato più scortato d'Italia anche perché la Procura di Caltanissetta, che indagò su quel progetto di morte, nella richiesta di archiviazione mise nero su bianco che è “ancora esecutivo”.
Grazie a Dio l'esecuzione del delitto, così come è avvenuto anche per altri magistrati minacciati di morte come Nicola Gratteri, Giuseppe Lombardo, Giancarlo Caselli, Sebastiano Ardita, Luca Tescaroli, Roberto Scarpinato (ed altri), non ha avuto luogo.
In questo momento di cambiamento, accelerato anche dalla morte di Matteo Messina Denaro, uccidere, forse, non è più conveniente per Cosa nostra, ma questo, lo ribadiamo con forza, non significa che la strategia stragista sia definitivamente estinta.
I boss protagonisti di quella stagione terribile, come i fratelli Graviano, non hanno gettato ancora la spugna. Dal carcere inviano messaggi all'esterno chiedendo che i patti siano rispettati.
Aspettano. Come tanti altri.
Le morti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, come dimostrano le modalità di esecuzione, le sottrazioni di prove e i depistaggi, non sono questioni di mafia, ma di Stato-Mafia.
Paolo Borsellino e Giovanni Falcone © Franco Zecchin
Cambio di rotta
E' un fatto che la trattativa continua anche dopo la morte di Paolo Borsellino, con Cosa nostra che alza il tiro colpendo (su input di chi?) il patrimonio artistico a Firenze, Roma e Milano.
E' un fatto che vi fu un cambio di rotta dopo le perlustrazioni, che furono fatte, anche per la realizzazione di un partito proprio (Sicilia Libera).
Il collaboratore di giustizia Antonino Giuffré, che Bernardo Provenzano, contravvenendo al suo abituale e cautelativo riserbo, non temette di esporsi personalmente nell’indicare a tutti gli uomini d’onore il nuovo partito di riferimento: Forza Italia.
Sappiamo che il processo trattativa si è concluso con le assoluzioni degli imputati istituzionali, ma i fatti restano.
Il gioco grande
E' un dato di fatto che tutta l’ala oltranzista di Cosa nostra, piano piano, progressivamente, esce di scena. Non Binnu Provenzano che regnerà indisturbato fino all'aprile 2006, accuratamente protetto da qualsiasi tentativo di cattura.
Ancora una volta è stato Giuffré ad aver spiegato nei fatti ciò che avvenne. “C’era una divinità che dovevano essere offerti dei sacrifici umani”. Una metafora efficace con cui indica nel “sacrificio più grande” il tradimento di Riina, concepibile soltanto però per un fine più grande: la Cosa Nuova, inabissata e silente. Quasi Invisibile.
Per quante e plausibili trattative si siano accavallate tra il gennaio del 1992 e quello del 1994 è evidente che rientrano tutte in un unico progetto.
Ecco il “gioco grande” di cui parlava Giovanni Falcone.
Trentadue anni dopo Capaci e via d'Amelio si riparte da qui.
Da questi fatti.
Con tutto il rispetto per le indagini che vengono svolte oggi, non si possono avere ulteriori indugi.
Il procuratore capo di Prato, Luca Tescaroli © Imagoeconomica
Nuovo capitolo
La Procura di Firenze (con il coordinamento del procuratore aggiunto Luca Tescaroli e il pm Turco) dopo aver ricevuto da Palermo le intercettazioni dei colloqui in cui il capomafia Giuseppe Graviano – considerato lo stratega militare degli attentati compiuti in quell’anno a Firenze, Roma e Milano e condannato all’ergastolo per le stragi del ’92 e del ’93 – raccontava al compagno di detenzione nel carcere di Ascoli Piceno il coinvolgimento di Berlusconi nella strategia delle bombe non ha tentennato nel riaprire le indagini su Berlusconi (oggi deceduto) e Dell'Utri.
“Novantadue già voleva scendere… e voleva tutto”; “Berlusca… mi ha chiesto questa cortesia… Ero convinto che Berlusconi vinceva le elezioni… in Sicilia… In mezzo la strada era Berlusca… lui voleva scendere… però in quel periodo c’erano i vecchi… lui mi ha detto: ci vorrebbe una bella cosa…”; “Nel ’94 lui si è ubriacato perché lui dice ma io non posso dividere quello che ho con chi mi ha aiutato… Pigliò le distanze e fatto il traditore”; “Venticinque anni fa mi sono seduto con te… Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successa una disgrazia, tu cominci a pugnalarmi… Ma vagli a dire com’è che sei al governo, che hai fatto cose vergognose, ingiuste…”; “Io ti ho aspettato fino adesso e tu mi stai facendo morire in galera”. Parole e accuse che, seppur in forma diversa, Graviano ha lasciato intendere anche rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo nel corso del processo 'Ndrangheta stragista.
Alla luce di tutti questi elementi Caltanissetta cosa farà? Resterà ancora a guardare? Continuerà a seguire solo la pista di mafia-appalti (la preferita dei figli di Borsellino, dell'avvocato Trizzino e degli ufficiali del Ros) che, come abbiamo visto, non può essere considerata come causa scatenante di quell'accelerazione che ha portato alla morte Paolo Borsellino appena 57 giorni dopo Giovanni Falcone?
Dobbiamo credere che indagini come quelle su mandanti e concorrenti esterni per la procura di Caltanissetta sono “vuoti a perdere”?
Vogliamo sperare che non sia così.
Così fosse dalla verità non ci sarebbe solo un allontanamento, ma verrebbe posta su di essa una pietra tombale. E questo, da cittadini che chiedono giustizia, non lo possiamo permettere.
(CONTINUA)
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