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Stragi, indagini e vuoti a perdere

Passano i giorni e si avvicina una nuova commemorazione della strage di via d'Amelio.

La notizia di queste settimane è la nuova indagine della Procura di Caltanissetta nei confronti del giudice Gioacchino Natoli, membro del pool antimafia di Palermo ed oggi in pensione, e del generale di corpo d’armata Stefano Screpanti, sostanzialmente accusati di aver cercato di insabbiare un filone della cosiddetta inchiesta mafia-appalti che riguardava alcuni mafiosi sospettati di avere rapporti con i vertici del gruppo Gardini.

Un'azione che sarebbe stata condotta, secondo l'accusa, su “istigazione” dell’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco, morto ormai da tempo.

Sul caso sono in corso tutti gli approfondimenti. Sono state risentite le bobine delle intercettazioni che, contrariamente a quanto sostenne l'avvocato Fabio Trizzino, non erano mai state distrutte.

E' stato già interrogato Natoli, accusato anche di calunnia, che si è avvalso della facoltà di non rispondere e riservandosi di essere riconvocato.

E' nota la sua amicizia con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e siamo certi che saprà fornire ogni chiarimento e sarà scagionato.

Nel frattempo è emerso che la scritta a penna con l'ordine di distruggere anche i brogliacci delle intercettazioni che furono fatte durante le indagini non combacia con le calligrafie del magistrato, né di Damiano Galati, al tempo dirigente dell’ufficio intercettazioni.

Elementi che fanno ritenere che qualcuno sia comunque intervenuto con l'intento di eliminare quelle prove magari su ordine di quel Pietro Giammanco che la Procura nissena indica come “istigatore” di un “disegno criminoso” volto a insabbiare l'inchiesta.

Capire cosa è accaduto può anche essere legittimo, ma lo abbiamo detto più volte e chiaro: noi crediamo che questo approfondimento unico sull'inchiesta mafia-appalti, che procede parallelamente ai lavori della Commissione parlamentare antimafia, non sia altro che una “muleta” agitata per distrarre da quelle indagini su mandanti e concorrenti esterni che permetterebbero di far piena luce sul perché Falcone prima e Borsellino poi sono stati uccisi in quella terribile estate del 1992 assieme a Francesca Morvillo e gli uomini e donne delle scorte (Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina).


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Pietro Giammanco e Paolo Borsellino © Shobha


Da giornalisti che da anni si occupano di queste tematiche ci sorgono spontanee alcune domande e in un certo senso chiediamo risposte alla stessa Procura di Caltanissetta.

Trentadue erano i punti indicati dal Gip di Caltanissetta Graziella Luparello per ulteriori indagini sui mandanti esterni. A che punto siamo arrivati?

Il gip, respingendo la richiesta di archiviazione, sollecitava una nuova attività istruttoria, da completare nell’arco di 6 mesi, tra acquisizioni di documenti e interrogatori, “procedendo se necessario a nuove iscrizioni nel registro degli indagati”.

E tra gli altri veniva chiesto di assumere elementi sull’omicidio di Nino Gioè e sul ruolo di Paolo Bellini; di scandagliare la cosiddetta “pista nera”, basata su possibili collusioni tra la mafia e destra eversiva; e poi ancora si chiedeva di approfondire anche quelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca sulle dichiarazioni da lui rese sempre nelle indagini sui mandanti esterni (che furono poi archiviate proprio a Caltanissetta) e le parole del boss stragista di Brancaccio Giuseppe Graviano al processo 'Ndrangheta stragista su quei presunti interessi economici con l'ex Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.

Elementi chiari e precisi.

In passato ci si è concentrati quasi esclusivamente nelle indagini sulla vestizione del falso pentito Scarantino quando questa è solo un “segmento” del depistaggio sulla strage di via d'Amelio".

Oggi, allo stesso modo, la sensazione è che ci si stia concentrando solo su un altro aspetto, quello che riguarda appunto il filone dell'inchiesta mafia-appalti, dimenticando altri importantissimi elementi di indagine.

Un focus su cui, a quanto abbiamo avuto modo di constatare, ci si concentra anche a livello politico con le indagini della Commissione parlamentare antimafia.


Accelerazione via d'Amelio

Uno dei punti cardine è capire perché Cosa nostra decise di uccidere nell'arco di 57 giorni i due magistrati che in quel momento rappresentavano più di tutti la lotta alla mafia.

In tutti i processi sulle stragi, nelle inchieste e nelle indagini più recenti un punto centrale è sicuramente quello dell'accelerazione per uccidere Borsellino che, è certo, intervenne dopo la strage di Capaci. Un'anomalia di cui hanno parlato svariati collaboratori di giustizia.


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Il collaboratore di giustizia, Salvatore "Totò" Cancemi


Su tutti vale la pena di ricordare quel Totò Cancemi che noi stessi abbiamo avuto modo di intervistare.

Ai giudici, ma anche a noi, aveva più volte riferito di una particolare riunione in cui Riina disse: “La responsabilità è mia”. “Quando ce ne siamo andati con Ganci - proseguiva Cancemi - Ganci mi disse: Questo ci… ci vuole rovinare a tutti, quindi la cosa era… il riferimento era per il dottor Borsellino. (…) Io ho capito che il Riina aveva una premura, come vi devo dire, una cosa… di una cosa veloce, aveva… io avevo intuito questo, che il Riina questa cosa la doveva… la doveva fare al più presto possibile, come se lui aveva qualche impegno preso, qualche cosa che doveva rispondere a qualcuno. (…) Questa cosa la doveva portare subito a compimento, doveva dare questa… questa risposta a qualcuno, questi accordi che lui aveva preso".

La ricerca della verità su quanto avvenuto passa inevitabilmente dal dare risposte su questo punto e nel dare un volto a questo "qualcuno".

Del resto non è un caso che lo stesso Capo dei capi, nelle intercettazioni nel carcere Opera con Lorusso, abbia parlato di un qualcuno che disse di fare la strage "subito subito".

Morto nel 2011, Cancemi, era depositario di diversi segreti.


Capaci di tutto

Se fosse ancora in vita potrebbe sicuramente spiegare cosa intendesse dire Riina quando, intercettato il 6 agosto 2013, riferendosi alla strage di Capaci, disse a Lorusso che su quella strage c'era un segreto che avrebbe fatto finire ogni cosa (Totò Cancemi dice: che dobbiamo inventare che la morte di Falcone? Che ci devi inventare, gli ho detto. Se lo sanno la cosa è finita”).

Noi ci chiediamo perché un capomafia, poi pentito, come Cancemi avesse l'urgenza d’inventarsi qualcosa su Capaci. Cosa non si doveva dire? C’era forse l'ombra inquietante di moventi e mandanti occulti?

Le tracce di mani e manine esterne dietro a “L'Attentatuni” sono molteplici.

Una perizia dell'Fbi fa emergere che sulla scena del crimine c’erano tracce di Semtex, esplosivo di tipo bellico prodotto all’epoca in Repubblica Ceca. C'è l'ipotesi di un “doppio cantiere”, a supporto di quello di Cosa nostra, ma con un’origine non mafiosa.
Abbiamo la testimonianza sulla presenza di un “furgoncino bianco”, forse un Fiat Ducato, circondato da sei persone (sedicenti operai) sul luogo senza che nessuno avesse mai ordinato di fare dei lavori nei dintorni.
E poi ancora c'è il foglietto, ritrovato sul luogo della strage, con il numero di telefono riferito ad un agente dei servizi di sicurezza.


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La strage di Capaci © Shobha


Sappiamo, inoltre, che a premere il telecomando che azionò la bomba non doveva essere l'ex boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca, ma Pietro Rampulla, un mafioso della provincia di Messina, ex fascista vicino a Ordine nuovo ed esperto di esplosivi. Non si presentò per un improvviso “impegno”.

E poi ancora c'è il mistero delle telefonate effettuate in quel giorno da uno dei cellulari clonati in possesso di Cosa nostra, usato da quel Nino Gioè, poi morto a Rebibbia nel 1993, in circostanze tutt'altro che chiare. Erano tutte indirizzate a un’utenza del Minnesota, negli Stati Uniti d’America.

Altre piste vengono fornite dalle impronte di Dna femminile rinvenute sui guanti recuperati suoi luoghi del cratere.

C’era anche una donna nel commando che agì su Capaci?

Qualche anno fa il criminologo Federico Carbone, in un'intervista a Il Giornale, aveva raccontato di aver saputo da una fonte (un generale dell'esercito USA di stanza a Camp Darby, una donna vicina alla Cia), diversi elementi sull'attività di una struttura legata al servizio segreto Usa. In via confidenziale le parlò della morte di Marco Mandolini, il parà della folgore trovato morto il 13 giungo 1995 nei pressi di Livorno, e della strage di Capaci facendo intendere un coinvolgimento.

Ciò significa che le stragi sono state poste in essere su spinta internazionale? Il sospetto è quantomeno lecito.

Sono stati approfonditi questi aspetti nell'indagine che fu aperta e poi archiviata nei confronti dell'ex polizotto Giovanni Peluso con l'accusa di esser stato “compartecipe ed esecutore materiale della strage di Capaci”?

Dietro le stragi che hanno insanguinato il nostro Paese spesso si sono sviluppate convergenze di interessi.

Il collaboratore di giustizia Nino Giuffré ha parlato di “tastate di polso” per portare avanti le stragi, “un sondaggio tra ambienti imprenditoriali e politici vicini a Cosa nostra per valutare la condivisione o meno degli obiettivi”. Sono stati fatti approfondimenti investigativi per capire a cosa si riferisse?

Per capire quale fosse il genere di potere che voleva morti Falcone e Borsellino certamente è utile guardare ai fatti del passato. E a quelle tracce lasciate dagli stessi giudici. Nel 1989, all’indomani dell’attentato fallito all’Addaura, lo stesso Falcone disse in un’intervista a Saverio Lodato: “Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”.

Si è indagato su queste “menti raffinatissime”?


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Sentito al processo sulla morte del poliziotto Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, Lodato fece delle importantissime rivelazioni sul punto: "Falcone vedeva come regista delle 'menti raffinatissime', Bruno Contrada", ex alto funzionario del Sisde ed ex dirigente della Squadra Mobile di Palermo.


Le ombre sui servizi

Sulla figura di Contrada, contro cui nel 2007 fu emessa una sentenza definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa poi dichiarata nel 2017 “ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza di condanna”, non sono mancati in questi anni gli approfondimenti, ma ancora oggi restano diversi interrogativi sul ruolo dei Servizi di sicurezza al tempo delle stragi.

Un'ombra inquietante che si allarga immediatamente dopo la strage di via d'Amelio con l'anomala richiesta del Procuratore capo di Caltanissetta Tinebra fatta proprio a Bruno Contrada affinché il Sisde indagasse sull'attentato.

Un'attività che nelle motivazioni della sentenza Borsellino quater viene definita dai giudici della Corte d'Assise come "decisamente irrituale" in quanto non permessa dalla normativa vigente all'epoca, che viene analizzata anche in altri procedimenti più recenti.

Contrada ha sempre negato un coinvolgimento diretto. Eppure sulla sua agenda, acquisita agli atti dei processi, c’è scritto “colloquio su indagini, stragi Falcone e Borsellino”.

E poi ci sono gli appunti del Centro Sisde di Palermo del 13 agosto e del 10 ottobre 1992. In particolare nel secondo, inviato alla Squadra mobile in maniera riservata, si segnalavano i rapporti di parentela e affinità di taluni componenti della famiglia Scarantino con esponenti delle famiglie mafiose palermitane, i precedenti penali e giudiziari rilevati a carico dello Scarantino Vincenzo e dei suoi più stretti congiunti. Come se si volesse evidenziare proprio la vicinanza a certi ambienti.

Fatto inquietante è che queste azioni venivano messe in atto mentre a Palermo già era stata avviata l'attività investigativa nei confronti di Contrada dopo che Gaspare Mutolo aveva fatto il suo nome ai magistrati, tanto che fu poi arrestato nel dicembre 1992.

Sempre restando nell'ambito della strage di via d'Amelio e la presenza di soggetti esterni a Cosa nostra ricordiamo le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza ha che ha raccontato dell'uomo sconosciuto presente al momento dell'imbottitura dell'esplosivo.

Totò Cancemi, sempre intervistato da noi, ci raccontò che sicuramente ebbero un ruolo nella strage i fratelli Graviano, ma in particolare fece riferimento a Salvatore Biondino, ex autista di Riina e capomandamento di San Lorenzo, aggiungendo che questi era in diretto contatto con i Servizi segreti. Cancemi fece intendere chiaramente che Biondino, all'epoca, aveva le spalle coperte dai servizi segreti dello Stato italiano per l'esecuzione del delitto.


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Tribunale di Palermo. Deposizione in aula di Bruno Contrada nel processo che vedeva l’ex numero tre del Sisde imputato per associazione mafiosa. In foto: Bruno Contrada, il giudice Francesco Ingargiola e il pm Antonio Ingroia (di spalle) © José Luis Ledesma


E poi ancora ci sono le intercettazioni tra il collaboratore Mario Santo Di Matteo e la moglie in cui si parla di “infiltrati della polizia” in seno alla strage.

Quella Polizia che viene tirata in ballo pesantemente nel depistaggio di via d'Amelio, come dimostrato ormai da una sentenza definitiva come il Borsellino quater, e che vede in Arnaldo La Barbera (deceduto e che si è scoperto essere stato anche a libro paga del Sisde) il suo più alto riferimento. La Barbera che in qualche maniera entra anche nella vicenda della sparizione dell'Agenda Rossa di Borsellino.


La Barbera e l'Agenda Rossa

Sappiamo perfettamente che la Procura nissena ha avviato un'indagine sull'ex Questore di Palermo dopo la testimonianza di un soggetto, vicino alla famiglia del “superpoliziotto”, che aveva dichiarato ai pm di Caltanissetta che i familiari di La Barbera potevano essere in possesso dell’agenda di Borsellino (tanto che la moglie e la figlia di Arnaldo La Barbera sono indagate per ricettazione aggravata dal favoreggiamento alla mafia).

E' certo che la borsa venne ritrovata dalla Squadra Mobile sul divano dell'ufficio di La Barbera. Ma la relazione di servizio sul movimento del referto venne redatta soltanto il 21 dicembre 1992, cinque mesi più tardi, su esplicita richiesta di La Barbera. “Sta relazione non so perché non... non la feci al momento, l'ho fatta successivamente e la consegnai al dottor La Barbera personalmente”, ha dichiarato il sovrintendente della Polizia di Stato Francesco Paolo Maggi al pm Domenico Gozzo al processo “Borsellino quater”.

Sull'ex capo della Mobile i giudici sottolineano come all'epoca “ebbe un comportamento veramente inqualificabile: dapprima disse alla vedova Borsellino che la borsa del marito era andata distrutta e incenerita nella deflagrazione, salvo poi restituirgliela diversi mesi dopo, negando in malo modo l’esistenza di agende rosse”.

E' un punto nodale l'Agenda Rossa. Perché è indubbio che essa rappresenta la “scatola nera” del segreto che si nasconde dietro le stragi.

Paolo Borsellino la custodiva quasi ossessivamente. Lì annotava i suoi pensieri e le sue considerazioni anche sulle indagini.

E' celebre il suo ultimo discorso a Casa Professa in cui, di fatto, chiedeva ai pm di Caltanissetta del tempo di essere sentito in quanto era un “testimone” (“avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone”).


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Via d'Amelio, 19 luglio 1992. Giovanni Arcangioli si allontana con in mano la valigetta di Paolo Borsellino


Logica vuole che la sparizione dell'agenda rossa sia strettamente legata ai movimenti che il 19 luglio 1992 fece la borsa del giudice Borsellino ed è un dato di fatto che non furono uomini di Cosa nostra a trafugarla.

Un punto di partenza è sicuramente la foto in cui compare il capitano dei carabinieri (oggi colonnello) Giovanni Arcangioli, in passato finito sotto indagine per il furto dell'agenda rossa e poi assolto per "non aver commesso il fatto".

Venne immortalato e filmato mentre si allontana dal luogo della strage negli istanti successivi all’esplosione dell’autobomba in via d’Amelio. Recandosi verso via dell’Autonomia Siciliana.

Quel fotogramma che lo ritrae con la valigetta di Borsellino è stato scattato tra le 17,20 e le 17,30 di quel tragico 19 luglio venne scoperto nel 2005 quando il nostro vicedirettore, Lorenzo Baldo, segnalò alla Dia l'esistenza della foto.

I giudici della Corte d'assise di Caltanissetta nel processo Borsellino quater dedicarono un intero capitolo alla sparizione dell'agenda rossa evidenziando le "molteplici contraddizioni fra le deposizioni dei vari testi esaminati". Tra questi anche quella dell'allora capitano Giovanni Arcangioli del Nucleo Operativo Provinciale dei Carabinieri di Palermo.

E al contempo la Corte aveva ritenuto "doveroso" disporre la trasmissione al Pubblico ministero dei verbali di tutte le udienze dibattimentali in quanto "possono contenere elementi rilevanti per la difficile ma fondamentale opera di ricerca della verità". 

Sono mai stati fatti ulteriori approfondimenti in tal senso, tenuto conto anche che Arcangioli ha rinunciato alla prescrizione?

Altri interrogativi emergono dalle testimonianze raccolte più recentemente.

A fine 2023 notizie di stampa hanno riferito che un funzionario di polizia, sentito qualche anno prima dai magistrati di Caltanissetta, avrebbe dichiarato di aver ricevuto la borsa di Borsellino dal capitano dei carabinieri Arcangioli per poi portarla in Questura (un passaggio di consegne di cui per oltre trent'anni mai nessuno ha parlato).

Al processo d'appello sul depistaggio di via d'Amelio contro i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo (con l'accusa di calunnia aggravata dall'aver favorito la mafia dichiarata prescritta dalla Corte d'appello di Caltanissetta), il pm Maurizio Bonaccorso aveva parlato di nove verbali resi da cinque poliziotti, due dei quali avrebbero confermato di aver visto la borsa di Borsellino nella stanza dell’ufficio di La Barbera.

Si tratta dell’ex questore Andrea Grassi, finito sotto processo sul sistema Montante, ma assolto in appello, Gabriella Tomasello, Armando Infantino, Giuseppe Lo Presti e Nicolò Giuseppe Manzella.

Secondo quanto è emerso il 19 luglio 1992 sarebbe stato Lo Presti a fermare il capitano Arcangioli. Dopo avergli detto che l'indagine era di competenza della polizia si fece consegnare la borsa per poi passarla al collega Armando Infantino (il quale avrebbe confermato il fatto).

Infantino avrebbe poi dato la borsa all’ispettore Francesco Paolo Maggi, che poi portò la borsa nella stanza del capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera.


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Arnaldo La Barbera, capo della squadra mobile negli anni '80/'90 © Imagoeconomica


Gli altri due funzionari, Grassi e Tomasello, avrebbero riferito di aver visto la borsa di Borsellino nell'ufficio di La Barbera.

Ma è nell'incrocio delle varie testimonianze che si genera il caos.

Il 12 marzo 2019 Infantino ha riferito le seguenti parole: “Mentre mi trovavo in via D’Amelio un mio superiore, di cui non saprei dare indicazioni, mi consegnò una borsa di pelle che presentava delle bruciature, dicendomi di andare a posarla all’interno dell’auto, parcheggiata all’inizio di via D’Amelio. Ricordo che fuori dall’auto vi era il collega Maggi”.

Quando gli venne mostrata una foto di Arcangioli, non lo riconobbe spiegando solo di “averlo visto in tv”.

Successivamente c'è stato un via vai di testimonianze, come già ricordato talune discordanti tra loro, che a trent'anni di distanza dai fatti non possono certo far star sereni.

Come si sta procedendo?

Forse la Procura di Caltanissetta, oltre al giudice Natoli ed il generale Stefano Screpanti, ha iscritto nel registro degli indagati nuovi personaggi nell'ambito delle indagini sulla strage di via d'Amelio?

I fatti emersi fin qui nei processi, pesano come macigni.

Nella relazione di servizio redatta dall'ispettore Francesco Paolo Maggi si legge: "I vigili del Fuoco, prontamente intervenuti, procedevano all'opera di spegnimento dei mezzi. Mentre il dottor. Fassari si preoccupava a dirigere le operazioni di soccorso, lo scrivente si avvicinava all'auto del magistrato dove un Vigile del Fuoco stava spegnendo detta auto e lo stesso dal sedile posteriore del mezzo in questione prelevava una borsa in pelle di colore marrone, parzialmente bruciata, il quale dopo averli gettato dell'acqua per spegnerla, la consegnava al sottoscritto. Immediatamente informava il dr. Fassari della presenza della suddetta borsa, il quale riferiva di trasportarla presso l'ufficio del Dirigente di questa Sq.Mobile, senza peraltro sia lo scrivente che il funzionario accertarsi che cosa conteneva detta borsa che come detto sopra si presentava parzialmente bruciata da un lato e chiusa".

Non vi è alcun riferimento ad un funzionario di polizia da cui avrebbe avuto la borsa. Inoltre si deve evidenziare il dato per cui la borsa, secondo la relazione, presentava delle bruciature.

Ma nelle immagini che vedono ritratto Arcangioli la borsa appariva integra.

Dunque cosa sta accadendo? Come mai oggi c'è questa sovrabbondanza di informazioni, anche contrastanti tra loro?

Siamo di fronte a nuovi depistaggi? Se sì, perché?

Queste sono solo alcune degli interrogativi che ci poniamo.


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Giuseppe De Donno e Mario Mori © Imagoeconomica


Effetti speciali e cortine fumogene

Ad oltre trent'anni dalle stragi il rischio di allontanarsi dalla verità è sempre più grande e nuove cortine fumogene sulla strage di via d'Amelio vengono lanciate continuamente.

Viene messo in atto un gioco al ribasso, come accade con l'operazione delle dichiarazioni del killer Maurizio Avola che nel suo dichiarato tenta di colmare i “misteri” dietro le stragi e stringere il campo sulla sola Cosa nostra.

Ma accade sul fronte politico-istituzionale.

Da tempo la Commissione parlamentare antimafia sta dedicando una serie di audizioni per scandagliare un'unica pista processuale della strage di via d'Amelio ovvero l'interesse di Paolo Borsellino per l'inchiesta “Mafia-appalti”.

Un'operazione di “parcellizzazione ed atomizzazione” che, come avevano denunciato a Siena il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo ed il giornalista Saverio Lodato (autori del libro, “Il patto sporco e il silenzio”) rischia di “allontanare dalla verità”.

Questa strada che viene spinta con forza dagli ufficiali del Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, imputati e poi assolti in Cassazione “per non aver commesso il fatto” nel processo sulla trattativa Stato-mafia.

Una linea che, amaramente, viene percorsa dai figli di Borsellino, tramite l'avvocato Fabio Trizzino (anche genero del giudice).

Lo ripetiamo ancora una volta: l'inchiesta mafia-appalti, seppur di interesse, non è certamente decisiva per spiegare ciò che avvenne nel 1992.

Il filo che lega la Calcestruzzi Spa, il gruppo Ferruzzi-Gardini e la mafia può dare una spiegazione, forse, assieme a ciò che stava emergendo nell'inchiesta Mani-Pulite, sul perché Raul Gardini, trent'anni fa, decise di togliersi la vita. E' noto che avrebbe dovuto essere interrogato da Antonio Di Pietro sulle tangenti ai politici per favorire Enimont, la joint venture tra Montedison ed Eni, ma ciò non basta a segnare un punto di non ritorno.

L'idea generale è quella di porre sotto accusa i magistrati della Procura di Palermo che archiviarono alcuni filoni investigativi.

L'ultima indagine della Procura nissena, giustificata in presenza di notizie di reato da approfondire, ha riacceso gli animi di contestatori e denigratori di quei magistrati che si sono impegnati nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia e sui sistemi-criminali.

Nella narrazione, ripetuta grazie alla grancassa mediatica, vengono mescolati i fatti e (volutamente?) taciuti alcuni punti chiave.


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Gioacchino Natoli e Roberto Scarpinato in uno scatto d'archivio presso l'aula bunker del carcere dell'Ucciardone di Palermo © José Luis Ledesma


L’indagine archiviata da Natoli nel giugno del 1992 si occupava delle infiltrazioni mafiose nelle cave del marmo toscane e (al netto della notizia che al giudice Natoli fu consegnato un rapporto conclusivo d'indagine privato di alcuni riferimenti con notizie di reato) se si esclude il nome dei Buscemi e di Bonura non vi sono collegamenti diretti con il famoso dossier del Ros dei Carabinieri, consegnato alla procura di Palermo il 16 febbraio 1991.

Quel corposo volume, composto soprattutto da intercettazioni telefoniche, è da sempre al centro di veleni e polemiche tra la Procura di Palermo e gli esponenti dell’Arma.

Erroneamente si fa continuamente credere che le indagini su mafia-appalti siano state archiviate in maniera definitiva il 13 luglio 1992 quando è stato dimostrato che ciò non è vero.

L'ex Pg di Palermo, Roberto Scarpinato, ha più volte evidenziato come, dopo l’arresto di sette soggetti indagati tra i quali Angelo Siino, il 13 luglio 1992 era stata richiesta solo l’archiviazione della posizione di alcuni indagati perché a quella data non erano ancora state acquisite prove sufficienti nei loro confronti.

Diversamente era stato fatto lo stralcio della parte più importante della inchiesta che proseguiva e riguardava la gestione di appalti della SIRAP per mille miliardi delle vecchie lire, e che coinvolgeva il livello politico e amministrativo.

Viene sempre taciuto nella prima informativa, depositata dal Ros alla Procura di Palermo il 20 febbraio 1991, a differenza della seconda depositata il 5 settembre 1992, non conteneva nomi di importanti politici come Calogero Mannino, Salvo Lima e Rosario Nicolosi.


L'incontro del 25 giugno

Una data considerata chiave è l'incontro che Borsellino ebbe con De Donno e Mori alla Caserma Carini il 25 giugno 1992 basandosi esclusivamente sulle parole degli ufficiali del Ros, che dissero che si parlò dell'inchiesta mafia-appalti.

Eppure il contenuto di questo incontro, oggi ritenuto decisivo per spiegare l'accelerazione della strage di via d'Amelio, per anni è stato taciuto dagli stessi carabinieri.

E' giusto pensare che quell'incontro potesse riguardare altri temi?

Il tenente Carmelo Canale, ex braccio destro del giudice Borsellino, riferì che quell'incontro sarebbe stato voluto dal magistrato per discutere di altro.


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Calogero Mannino in una foto di repertorio © Shobha


Quando fu chiamato a deporre al processo Borsellino quater, disse che nelle ultime settimane di vita il giudice Borsellino stava cercando di fare luce sull'anonimo, conosciuto come 'Corvo 2', in cui si accennava a una sorta di trattativa che l’ex ministro Calogero Mannino avrebbe avviato con il boss Totò Riina.

Canale raccontò anche che Borsellino chiese di incontrare proprio il 25 giugno del 1992, Giuseppe De Donno, ufficiale del Ros dei carabinieri, perché un collega gli aveva detto che era lui l’autore dell’anonimo in cui si parlava anche di incontri (mai accertati) tra Mannino e Riina avvenuti nella sacrestia di una chiesa.

Al centro delle accuse dei vari Mori, De Donno, Trizzino e compagnia viene posta la Procura di Palermo (utilizzando l'espressione del “nido di vipere” detta dallo stesso Borsellino ai magistrati Russo e Camassa).

E' certo che il Procuratore capo Pietro Giammanco è uno dei massimi responsabili dell'ostracismo e dell'isolamento subito da Giovanni Falcone (prima) e Paolo Borsellino (poi) nel corso degli anni.

Ed è giusto ricordare che quel modus operandi venne fortemente contestato in una lettera firmata da otto componenti della DDA di Palermo (Ignazio De Francisci, Giovanni Ilarda, Antonio Ingroia, Alfredo Morvillo, Antonio Napoli, Teresa Principato, Roberto Scarpinato e Vittorio Teresi) in cui si diceva, in sostanza, che il Procuratore capo Giammanco non poteva restare alla procura della Repubblica. E gli stessi firmatari si esposero con il Csm a tal punto di minacciare le proprie dimissioni.


La trattativa Stato-mafia

Al netto dei depistaggi e delle reticenze che si sono consumate nel corso degli anni, la strage di via d'Amelio è qualcosa di enormemente più complesso rispetto alla questione Scarantino o Mafia-appalti.

Perché si è ucciso Paolo Borsellino? Perché è stata accelerata la sua morte? Questi interrogativi ripetuti come un mantra a cui si dovrebbe dare risposta senza pregiudizi.

Ma non si trova un altro termine per definire la diffidenza investigativa che certi argomenti hanno trovato fino a divenire scomodi.

Da quando è stata pubblicata la motivazione della sentenza della Cassazione sul processo trattativa Stato-mafia è in corso una campagna di delegittimazione e demolizione del lavoro di tutti quei magistrati che hanno avuto l'ardire di alzare il livello delle indagini, alla ricerca dei mandanti esterni delle stragi del 1992-1993 per capire quale fosse il disegno che si cela dietro quel terribile biennio di bombe e sangue. Un disegno che non fu opera della sola mafia.


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Da sinistra: Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Gioacchino Natoli © Shobha


Nella sentenza del Borsellino quater, che viene sbandierata come l'anti-trattativa, si legge che il giudice Borsellino "rappresentava un pesantissimo ostacolo alla realizzazione dei disegni criminali non soltanto dell’associazione mafiosa, ma anche di molteplici settori del mondo sociale, dell’economia e della politica compromessi con 'Cosa Nostra'".

I giudici, che riprendevano le parole scritte dai pm nella memoria conclusiva, affermavano: "Appare incontestabile come la strage di Via d’Amelio, inserita nella complessiva strategia stragista di cui si è ampiamente riferito, oltre a soddisfare un viscerale istinto vendicativo, si proponesse il fine di “spargere terrore” allo scopo di “destare panico nella popolazione”, di creare una situazione di diffuso allarme che piegasse la resistenza delle Istituzioni, così costringendo gli organi dello Stato a sedere da 'vinti' al tavolo della 'trattativa' per accettare le condizioni che il Riina ed i suoi sodali intendevano imporre".

Ecco la trattativa, appunto. O forse bisognerebbe dire le trattative che furono poste in essere in quell'estate del 1992 e che si trasformano presumibilmente in “accordo” con lo stop improvviso alla stagione delle bombe.

Il gioco a ribasso nella ricerca della verità cavalca il fronte mafia-appalti (indicando i nomi di Salvatore Buscemi, Nino Buscemi, e Giuseppe Lipari) abusando delle dichiarazioni di collaboratori di giustizia di peso come Angelo Siino o Giovanni Brusca, dimenticando però che proprio Brusca fu colui che ha parlato del papello e dei soggetti “che si erano fatti sotto” tra le due stragi di Capaci e via d'Amelio.

Quelli non erano neanche i nomi a cui si riferì un altro membro della cupola, Totò Cancemi (deceduto). Quest'ultimo in più processi ha affermato che Riina “è stato preso per la manina per fare le stragi” e che i nomi che gli fece erano quelli di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri.

Proprio quei Berlusconi e Dell'Utri di cui Borsellino parlerà appena due giorni prima la strage di Capaci, nell'intervista rilasciata ai giornalisti Fabrizio Calvi e Jean-Pierre Moscardo di Canal Plus (morto nel 2010), mai trasmessa su quel canale ma poi svelata da L’Espresso nel 1994, ed andata in onda parzialmente sulla Rai nel 2000.

Come già ricordato altre volte in quella video intervista i due giornalisti francesi stavano conducendo un'inchiesta sui rapporti fra Cosa nostra e la politica italiana, i collegamenti presunti all’epoca e poi dimostrati (con una sentenza di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa) fra la mafia palermitana e Marcello Dell’Utri, fondatore di Publitalia e successivamente del partito Forza Italia, e braccio destro di Silvio Berlusconi.

Paolo Borsellino con scrupolo ed equilibrio rispose alle domande a lui rivolte parlando di traffico di droga, di Mangano, della famiglia mafiosa di Porta nuova sempre evidenziando che di quei fascicoli non si stava occupando direttamente ma che da altri dibattimenti emergevano alcuni elementi.


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Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi © Imagoeconomica

L'appunto di Falcone su B.

Tempo fa fu ritrovato un appunto, redatto proprio da Falcone, in cui si legge: “Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni ai Grado e anche a Vittorio Mangano”.

Maurizio Ortolan, ispettore in pensione della polizia, agente di scorta del pentito Mannoia, testimone oculare degli interrogatori che Giovanni Falcone tenne con il collaboratore di giustizia, ha raccontato che quelle parole furono dette già nel 1989.

E salta all'occhio come quei nomi contenuti nell'appunto non siano affatto di poco conto. Grado è uno dei boss palermitani che frequentava Milano negli anni Settanta. Gaetano Cinà è il boss mafioso molto amico di Dell'Utri, considerato il “tramite, l'intermediario di alto livello fra l'organizzazione mafiosa e gli ambienti imprenditoriali del Nord”. Vittorio Mangano è il mafioso assunto da Berlusconi come stalliere nella sua villa di Arcore.

Possiamo pensare che Paolo Borsellino fosse al corrente delle stesse cose che conosceva Giovanni Falcone?

La Procura di Caltanissetta ha mai acquisito il bigliettino e queste testimonianze?

E' plausibile supporre che Borsellino avrebbe messo quantomeno sotto osservazione, se non addirittura indagato, quegli stessi soggetti che negli anni successivi diventarono protagonisti assoluti della politica e della storia del Paese con la discesa in campo di Forza Italia?


Quando Borsellino parlò di trattativa e Subranni punciuto

Un altro aspetto che andrebbe approfondito riguarda i verbali della moglie di Borsellino, Agnese Piraino Leto, a cui il marito parlò della trattativa e del generale Antonio Subranni 'punciuto'. In che termini è presto detto.

Paolo Borsellino aveva intuito tante cose. E scriveva tutto nella sua Agenda Rossa.

E' legittimo credere che al suo interno abbia scritto anche del dialogo tra i carabinieri e Vito Ciancimino. Ad avvisarlo, in un incontro all'aeroporto di Fiumicino il 28 giugno, fu Liliana Ferraro (magistrato che aveva lavorato al fianco di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia), così come da lei stessa riferito vent'anni dopo i fatti, sentita nel processo Trattativa. “Adesso ci penso io” erano state le uniche parole del giudice che, secondo l'ex direttrice dell'ufficio Affari Penali, “non sembrava ancora informato sul punto”.


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La moglie di Paolo Borsellino, Agnese Piraino Leto © Imagoeconomica

Negli ultimi tempi era consapevole di avere poco tempo. Il 18 luglio 1992, il giorno prima di morire alla moglie disse “che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo”.

Proprio Agnese Borsellino, dicevamo, è una testimone chiave per comprendere ciò di cui Paolo Borsellino si stava occupando nei suoi ultimi 57 giorni.

Nella sua ultima intervista al Corriere della Sera aveva affermato che “ci furono due trattative Stato-mafia. E mio marito fu ucciso per la seconda. Quella che doveva cambiare la scena politica italiana”.

Di certi argomenti riferì anche davanti ai magistrati di Caltanissetta, nel 2009, spiegando anche il motivo per cui soltanto dopo tanto tempo decise di mettere a verbale certe dichiarazioni davanti al Procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e al procuratore aggiunto Domenico Gozzo (“Avevo paura, non tanto per me ma avevo paura per i miei figli e poi per i miei nipoti. Adesso però so che è arrivato il momento di riferire anche i particolari più piccoli o apparentemente insignificanti”).

Ai magistrati aggiunse anche altro: “Dopo la strage di Capaci mio marito disse che c'era un dialogo in corso già da molto tempo tra mafia e pezzi deviati dello Stato. Paolo mi disse che materialmente lo avrebbe ucciso la mafia ma i mandanti sarebbero stati altri”. E ancora: “Mio marito mi disse testualmente che 'c'era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato'. Ciò mi disse intorno alla metà di giugno del 1992. In quello stesso periodo mi disse che aveva visto la 'mafia in diretta', parlandomi anche in quel caso di contiguità tra la mafia e pezzi di apparati dello Stato italiano. In quello stesso periodo chiudeva sempre le serrande della stanza da letto di questa casa, temendo di essere visto da Castello Utveggio. Mi diceva: 'Ci possono vedere a casa'”. “Mi disse che il gen. Subranni era 'punciuto' - (punto in un rito di affiliazione a Cosa nostra, ndr) - Mi ricordo che quando me lo disse era sbalordito, ma aggiungo che me lo disse con tono assolutamente certo. Non mi disse chi glielo aveva detto. Mi disse, comunque, che quando glielo avevano detto era stato tanto male da aver avuto conati di vomito. Per lui, infatti, l'Arma dei Carabinieri era intoccabile”.

Non sono questi elementi sufficienti per considerare la trattativa Stato-mafia, di cui Borsellino era consapevole, come uno degli elementi certamente nuovi, intervenuti dopo la strage di Capaci?

Al di là delle sentenze di assoluzione quell'interlocuzione avviata tra gli ufficiali dell'Arma e il sindaco di Palermo Vito Ciancimino è un'iniziativa che, secondo la sentenza definitiva della Corte d'assise di Firenze sulle stragi del 1993, rafforzò il convincimento di Cosa nostra che le stragi pagassero. “L’iniziativa del Ros - si legge nella sentenza di Firenze - (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, un vicecomandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire come una 'trattativa'; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione (trattativa Ciancimino, nda)”.


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L'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino (a destra) © Archivio Letizia Battaglia

La verità di Messina “fuori verbale”

Il processo sulla trattativa Stato-mafia ha offerto importantissimi elementi da cui ripartire per andare avanti nella ricerca della verità sulle stragi.

Un esempio è quanto emerso su ciò che il collaboratore di giustizia Leonardo Messina disse a Paolo Borsellino “fuori verbale”.

Messina (un altro di quei collaboratori utilizzato a piacimento dai sostenitori della pista mafia-appalti), rispondendo alle domande del pm Nino Di Matteo e del Presidente Alfredo Montalto ammise di aver parlato delle riunioni di Enna, della strategia stragista e del progetto politico di Cosa nostra che voleva “farsi Stato”.

Tutte cose di cui riferì alla Commissione parlamentare antimafia il 4 dicembre 1992. In quell'audizione davanti alla Commissione parlamentare Messina aveva spiegato in maniera chiara che "molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa Nostra”. Disse anche che "Cosa Nostra, che è la stessa in Calabria come in Sicilia" era alla ricerca di un "compromesso" con "l'interesse ad arrivare al potere con i propri uomini, che sono la loro espressione: non saranno più sudditi di nessuno. ... Cosa Nostra deve raggiungere l’obiettivo, qualsiasi sia la strada". In un successivo interrogatorio disse anche che "Cosa Nostra e la massoneria, o almeno una parte della massoneria, sono stati sin dagli anni ‘70 un’unica realtà criminale integrata".

Alle domande sempre più insistenti di Di Matteo aggiunse: "Abbiamo parlato di tutto. Anche che nelle riunioni non veniva fatto il suo nome. Gli interrogatori sono una fase. Poi c'è la trascrizione. Io, dato il personaggio che avevo davanti, gli ho parlato delle cose più forti che potevo parlare... delle riunioni, della strategia, della politica. Quello che avevo da dire ne ho parlato con Borsellino anche fuori interrogatorio".

Questi elementi sono stati acquisiti dalla Procura di Caltanissetta?


Lo scontro Arlacchi-De Gennaro

Sempre al processo trattativa è emersa la diversità di racconto nelle testimonianze del sociologo Piero Arlacchi ed il prefetto Gianni De Gennaro.

Quando fu sentito dinanzi ai magistrati di Caltanissetta, nel corso di un interrogatorio datato 11 settembre 2009 il sociologo forniva una dettagliata analisi degli anni prima e dopo le stragi, corroborata dalle parole di Falcone e Borsellino, da lui ricordate nel verbale d'interrogatorio.

Fu in quell'occasione che Arlacchi faceva riferimento al fatto che “trattative fra Stato e mafia ce ne sono sempre state” e “in quegli anni cruciali ce n'erano in piedi più d'una, addirittura tre o quattro”.


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Il sociologo Pino Arlacchi © Imagoeconomica


Quanto alle stragi del '92, Arlacchi si diceva convinto che “Cosa Nostra nell'eseguire le stragi di Capaci e via d'Amelio avesse agito in sinergia con ambienti deviati delle Istituzioni, soprattutto del Sisde” che “aveva come punto di riferimento il dottor Contrada” successivamente condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.

Non solo. Secondo Arlacchi di quegli ambienti istituzionali avrebbe fatto parte anche “qualche gruppo appartenente all'Arma dei Carabinieri, che aveva nell'allora Colonnello Mori il punto di riferimento”, secondo l'opinione del sociologo contraddistinto da “un'azione che definirei poco trasparente”.

Sempre di trattativa continuava a parlare Arlacchi davanti ai pm di Caltanissetta, riferendosi ad alcuni dialoghi avuti all'epoca con Gianni De Gennaro, ex capo della Direzione investigativa antimafia. “Dopo le stragi del 1993 si consolidò presso i vertici della Dia - dichiarava Arlacchi - l'idea che le stragi avevano una valenza politica precisa, e cioè erano finalizzate a costringere lo Stato a venire a patti ed instaurare una trattativa. Sul punto formulammo insieme a De Gennaro delle ipotesi, ritenendo che il gruppo andreottiano, tramite i suoi referenti di cui ho detto - e cioè il gruppo Contrada - fosse uno dei terminali della trattativa”.

Ma anche che “il dottor De Gennaro, già all'epoca, mi parlava di contatti 'ambigui' tra appartenenti a Cosa nostra e Marcello Dell'Utri, che fungeva da anello di congiunzione tra la mafia ed il mondo dell'economia e della politica”, cioè quel nuovo assetto di potere che, con Silvio Berlusconi e il suo braccio destro, ha governato l'Italia per un ventennio. Perché questo aspetto non è stato approfondito a dovere, né da Arlacchi, né dall'ex capo della Dia?

De Gennaro ha sempre smentito le circostanze in cui veniva coinvolto dal sociologo.

Queste questioni, entrate solo marginalmente al processo trattativa Stato-mafia insieme ai contatti anomali di Bruno Contrada, andrebbero approfondite e fanno sorgere altre domande.

Chi, tra Arlacchi e De Gennaro, è il bugiardo? E se qualcuno ha mentito perché non viene portato a giudizio per false informazioni ai pm o calunnia?

La Procura di Caltanissetta ha mai valutato l'ipotesi di chiamare a sommarie informazioni il sociologo Pino Arlacchi?

Nel suo ultimo libro, “Giovanni e Io” (edito da Chiarelettere), Arlacchi parla di vari argomenti alcuni dei quali assolutamente utili per capire perché Giovanni Falcone fu ucciso.

Arlacchi racconta di alcuni dialoghi avuti con il magistrato a Vienna, nell'ottobre '84. Falcone gli raccontò ciò che aveva appreso da Buscetta sul “caso Moro”, sull'omicidio Pecorelli e sull'assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa.

Aveva compreso il ruolo di Giulio Andreotti nella scacchiera del Potere.


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Giulio Andreotti © Shobha


“Egli era il titolare di un potere illecito formidabile, più esteso di quello mafioso, ma non nel senso che era alla testa di una Spectre da romanzi thriller e serie televisive - scrive Arlacchi - Andreotti era il leader di un’alleanza criminale articolata, dove ogni singola parte manteneva la sua autonomia. Una specie di federazione della grande delinquenza che andava dalla loggia massonica P2 alla finanza d’avventura dei Sindona e dei Calvi, alla corruzione politica in grande stile, agli apparati di sicurezza e alla mafia. Una coalizione perversa, dentro la quale la Bestia e i servizi segreti erano i soggetti più temuti, perché detentori di una capacità coercitiva indipendente, che obbligava le altre entità a ricorrere a essi per i compiti più sporchi, per le azioni più estreme, come l’eliminazione fisica dei nemici”. E poi ancora: “Lui non era il capo di Cosa nostra nel senso letterale del termine. Giovanni conveniva con me che non era un Signore del Male che disponeva dei boss come se fossero burattini. Tra i due poteri esisteva una dialettica che noi potevamo sfruttare a nostro vantaggio. Cosa nostra era gelosa della sua sovranità: la faceva rispettare da chiunque, anche dal massimo esponente di una sovranità parallela”.

Arlacchi, ovviamente, nel volume parla di ricordi ed afferma di non aver tenuto un diario. Tuttavia i virgolettati, così puntuali, fanno capire che lo stesso possa essere in possesso di documentazioni importanti sul punto. Perché dunque non sentirlo in via ufficiale?

Arlacchi parla anche di quelli che potrebbero essere i veri mandanti esterni delle stragi raccontando delle considerazioni che Falcone aveva su Gladio, la P2 e gli omicidi La Torre e Mattarella, “i delitti più tipici della mafia di Stato, che in entrambi i casi si era mossa con un certo grado di autonomia dallo stesso Andreotti”.

“Ci incontrammo a casa mia, a cena, alla fine del 1991 - racconta il sociologo - Falcone era rientrato dalla Sicilia, ed era in preda a una apprensione tale da rifiutarsi di aprire bocca sui fatti all’ordine del giorno finché tutti gli ospiti - magistrati, dirigenti della polizia e il mio carissimo amico Sylos Labini - non si furono congedati. Rimasti soli, Giovanni mi illustrò la sua visione delle cose”. “Ho parlato con un po’ di gente dei servizi “deviati” [per noi i deviati erano gli agenti fedeli alla Repubblica] e sono stato a Palermo da Paolo Borsellino - gli avrebbe detto Falcone - C’è lo scompiglio ovunque, sia in Sicilia sia qui. Temono che Andreotti li abbia mollati per salvarsi la pelle dopo che gli americani hanno preso le distanze da lui. Ha sbattuto loro in faccia Gladio a mo’ di ammonimento. Ma non pare che abbia ricevuto rassicurazioni. Le due mafie sono sul piede di guerra contro Andreotti e contro tutti. Prima di rivalersi direttamente contro di lui sono decisi a farsi sentire alla grande. Contro di noi, ovviamente”. E poi ancora: “Abbiamo sondato i pentiti che sono ancora in contatto con i vertici di Cosa nostra e qualche dirigente dei servizi nemico di Contrada. Non abbiamo ricavato niente di preciso, ma tutti fiutano che si sta preparando qualcosa di grosso. È chiaro che se vogliono sopravvivere devono ripetere quanto hanno fatto dieci anni fa, quando si sono sbarazzati di La Torre e Mattarella. Però stavolta è più difficile perché non hanno più le coperture di allora. La Cia si disinteressa di loro, la Nato è quasi morta. Gli è rimasto Andreotti, che non è poco, ma non è abbastanza. Gli altri politici sono allo sbando. E i due ministri più cruciali stanno con noi. Non hanno altra strada che attaccare su tutta la linea, far saltare il banco. E devono colpire sia noi sia l’entourage di Andreotti”.

Così Falcone gli parlò dei delitti La Torre e Mattarella. Su quest'ultimo il magistrato avrebbe sostenuto che “quel delitto è stato un caso Moro bis. L’esecuzione fu opera di killer mafiosi e di terroristi neri inviati dalla P2 e sostenuti, forse anche ospitati, dalla base Gladio di Trapani. Sto ancora cercando riferimenti, e ho una buona fonte negli ambienti di destra”.


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L'avvocato dei familiari di Paolo Borsellino, Fabio Trizzino © Paolo Bassani


Tutte vicende che meriterebbero un approfondimento.

Come la trattativa Stato-mafia che, seppur accertata, viene sminuita ed indicata da politici e benpensanti come una boiata.

Eppure è lì. E' nei fatti. E non possono cancellarla.

E allora viene considerata come un “vuoto a perdere”. E lo stesso accade per le indagini sui mandanti esterni. Meglio andare avanti su piste meno “ardite”, che possono chiudere il capitolo delle stragi depoliticizzandole.

Non furono una questione politica. E se anche fosse, riguarderebbe solo i politici protagonisti della Prima Repubblica.

E' per questo motivo che una pista come mafia-appalti diventa la panacea che risolve tutto.

Sta bene alla politica attuale e sta bene ai figli di Borsellino che tramite il loro avvocato Fabio Trizzino, dopo aver citato come responsabile civile il Viminale e la Presidenza del Consiglio dei Ministri all'udienza preliminare sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D'Amelio che vede alla sbarra quattro poliziotti, hanno voluto chiarire “a scanso di equivoci” che la citazione “è un atto dovuto” per poi ringraziare apertamente “l'attuale governo e la Presidente (della Commissione antimafia ndr) Chiara Colosimo perché sono stati gli unici che, finalmente, hanno dato la possibilità ai figli del Giudice Borsellino di rappresentare dinanzi alla Commissione nazionale antimafia, la tragica e terribile vicenda riguardante il loro congiunto”.

Forse è per questo che la Procura nissena va avanti così spedita su questo filone?

(CONTINUA)

Realizzazione grafica by Paolo Bassani

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