Dopo lo scandalo degli elenchi della P2 il Sismi andò in Uruguay a prendere le carte dalla villa del “Venerabile”, ma gli americani già si erano portati via quasi tutto

Il 15 dicembre 2015 Licio Gelli moriva nella sua abitazione di Villa Wanda, ad Arezzo, trascinandosi nella tomba un’infinità di segreti che, se avesse disvelato quando gliene venne chiesto conto, avrebbero dato un contributo determinante nella ricerca della verità sulle pagine nere che hanno caratterizzato la Prima Repubblica, avvelenata proprio dall’ex Gran Maestro. Gelli, invece, non ha mai aiutato nelle indagini sui decenni anni in cui la P2 rappresentava l’anticamera dello Stato italiano. Non ha mai ammesso di essere la mente dell’attentato alla strage di Bologna, né ha vuotato il sacco sull’esistenza di altre liste della P2. E così ha fatto con altre innumerevoli vicende per le quali veniva ritenuto coinvolto insieme alla sua organizzazione occulta. L“attivissimo arcidiavolo”, come lo chiamò Bettino Craxi, è morto senza confessare o pentirsi. Ma il diavolo, dice il detto, “fa le pentole, non i coperchi”. Così, nonostante l’omertà, alcune delle verità taciute dal “Venerabile” sono venute comunque a galla nel corso degli anni grazie allo sforzo esemplare di magistrati, avvocati, famigliari delle vittime del terrorismo e archivisti. Parliamo di montagne di lettere, brogliacci, documenti, ricevute di depositi di denaro tutte afferenti alla “Propaganda 2”. Le carte, insegnano gli addetti ai lavori, parlano. Basti pensare all’elenco dei 962 cappucci neri trovato a Castiglion Fibocchi che rivelarono all’Italia l’esistenza della loggia, o all’appunto “Bologna”, trovato nel portafoglio di Gelli nel momento del suo arresto a Vienna nel 1982 e rinvenuto solo qualche anno fa tra le fredde stanze dall’Archivio di Stato di Milano che ha consentito alla procura generale di Bologna di accertare come Gelli stesso aveva finanziato i Nar per commettere la strage del 2 agosto 1980. Le carte, dicevamo, parlano. Ma per farle parlare bisogna poterle consultare, decifrare e contestualizzare. Quando questo non è possibile la ricerca della verità diventa una corsa tutta in salita per chi tenta di raggiungerla. Purtroppo, nella galassia gelliana, molti documenti sono stati fatti sparire nel nulla. E’ il caso, per esempio, degli archivi che l’ex Gran Maestro custodiva in Uruguay, nella sua villa di 5 milioni di dollari di Montevideo. La maggior parte dei quali sono stati requisiti dai servizi segreti statunitensi. Del tema ne parla approfonditamente la Corte d’Assise di Bologna che ha condannato all’ergastolo l’ex killer di Avanguardia Nazionale e di 'Ndrangheta Paolo Bellini. Una condanna per la quale, tra l’altro, il “documento Bologna” è stato determinante.


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Bettino Craxi © Imagoeconomica

Il Venerabile in Sudamerica

Ma partiamo dall’inizio. Cosa ci faceva Gelli in Sud America? Il defunto Gran Maestro aveva stretto accordi con i vertici dell’esercito e della marina di allora negli anni in cui sia Argentina che Uruguay erano paesi soffocati dalla dittatura militare. A Montevideo, base operativa sudamericana delle varie attività economiche e finanziarie di Gelli, il “Venerabile” era in grado di fare il bello e il cattivo tempo. Una dote che gli veniva riconosciuta anche a Buenos Aires. Si ritiene infatti che il colpo di Stato del 1976 ad opera di Videla fu possibile anche grazie alla P2.

La Corte descrive come “incredibile” il ruolo avuto da Licio Gelli “nell'ambito delle giunte militari che negli anni '70 prendono il potere in Argentina, Uruguay, Brasile, Paraguay. Gelli - aggiungono i giudici - è il principale rappresentante di questi Paesi in Italia e costruisce una fortuna personale in tali Stati”.

Gelli, si legge nelle motivazioni della sentenza, “è il consigliere economico presso l'ambasciata Argentina in Italia, traffica in armamenti e influenze”. Non è un caso che alla P2 erano iscritti I'Ammiraglio argentino Emilio Massera, l’ex ministro José López Rega e il generale Guillermo Suarez Mason, capo della famosa Escuela de Mecánica de la Armada, trasformata nel principale centro di tortura e sterminio del Paese durante la dittatura. Tutti e tre erano amici del “Venerabile”. L’influenza e il potere di Gelli sui generali sudamericani e soprattutto sui servizi segreti di questi Stati - l’ex presidente argentino Arturo Frondizi riteneva addirittura fosse a capo dei servizi argentini - “era tale che questi lo ricompensavano donandogli ville, appartamenti e altri benefit” (l’ex Gran Maestro possedeva una ventina di appartamenti solo in Uruguay), aggiunge la Corte. In una di queste ville donatogli dalla giunta uruguaiana, quella di Montevideo, appunto, Gelli aveva opportunamente nascosto parecchie carte.

La mano della Cia nelle parole dell’ex generale del Sismi

Gli archivi nella capitale uruguaiana rimasero custoditi nella villa almeno fino alla mattina del 17 marzo del 1981 quando in Italia i finanzieri mandati dai magistrati di Milano, Giuliano Turone e Gherardo Colombo scoprirono gli ormai notissimi elenchi della P2 negli uffici di Gelli a Castiglion Fibocchi. I pm, ricordiamo, stavano indagando sull’omicidio di Giorgio Ambrosoli, il liquidatore delle banche di Michele Sindona. Le Fiamme Gialle aprirono la cassaforte e trovarono le liste con i nomi di ufficiali dell’esercito, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, dirigenti della Polizia, servizi segreti, politici, direttori di giornale e imprenditori. Tutti iscritti alla P2. Mentre l’Italia veniva travolta dallo scandalo (gli elenchi vennero diffusi il 20 maggio), in Uruguay, qualcuno si era già attivato per far sparire le carte di Gelli dalla sua abitazione. Secondo i giudici quel qualcuno era la Cia, d’intesa con i servizi uruguaiani. Il fattaccio - che sarebbe avvenuto il 28 maggio 1981, cioè otto giorni dopo la diffusione della lista dei piduisti - era stato denunciato dal generale Mario Grillandini al processo contro Paolo Bellini durante l’udienza del 11 giugno 2021. L’ex generale del Sismi venne mandato in Uruguay nell’estate del 1981 dal capo del servizio segreto militare Nino Lugaresi, a sua volta incaricato dal premier Giovanni Spadolini di ripulire i servizi dopo lo scandalo che aveva coinvolto anche questi ultimi (Federico Umberto D’Amato, direttore dell’Ufficio Affari Riservati, fu uno dei primi iscritti, tessera 1643). La missione, battezzata “operazione Minareto”, partì dopo che la sede della Cia a Roma avvisò Lugaresi che le autorità di Montevideo avevano appena perquisito una villa di Calle Juan Manuel Ferrari, nell’esclusivo quartiere Garlasco della capitale. Cioè il luogo in cui risiedeva la lussuosa villa di Gelli, e quindi il suo archivio. Da qui l’urgenza di portare in Italia il dossier dell’ex Gran Maestro che, dopo i fatti di Castiglion Fibocchi, si era dato alla latitanza.


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Federico Umberto D'Amato © Imagoeconomica


Una volta in Uruguay, Grillandini si rese conto dell’inganno. “La scrematura era stata fatta dalla Cia. A noi arrivarono una settantina di fascicoli senza grande importanza”, aveva detto in aula l’ex 007. Grillandini aggiungeva di aver incontrato l’ispettore uruguaiano Victor Castiglione, che aveva fatto parte della squadra addetta al recupero dei dossier, il quale gli “riferì che buona parte dell’archivio era stata requisita dalla Cia, una parte era stata trattenuta dai servizi uruguaiani perché riguardavano la sicurezza nazionale interna e il resto era stato trasmesso al Ministero degli Interni uruguagio”. I giudici ritengono il generale "corretto e affidabile" e confermano in sentenza che “la missione fu del tutto fallimentare”. L’ex 007, ricostruisce la Corte, “riuscì ad instaurare una trattativa per Ia consegna della documentazione. Gli uruguaiani avevano pretese che non potevano essere esaudite. In realtà agli uruguaiani erano rimasti solo trecento fascicoli, poiché tutto il resto era già stato prelevato dalla CIA in quanto attinente alla loro sicurezza nazionale”. Alla fine, si legge nelle oltre 1700 pagine di motivazioni di sentenza, “ne furono recuperati una settantina di modesta rilevanza e incompleti”. Materiale per giunta arrivato a singhiozzi in Italia, anche con rilevanti costi, ma che non conteneva nulla di sensibile sulle attività politiche ed economiche del massone. Tra questi ce n'era uno sull’ex presidente Francesco Cossiga ma "tanto rumore per nulla”, commentava l’ex agente segreto. Un altro documento recuperato era un plico, denominato "fascicolo concernente Federico Umberto D'Amato", in cui Gelli aveva scritto di pugno: "La posizione economica di D' A, in Svizzera e presso la Banca Morin di Parigi (versamenti americani) è rilevantissima". All’epoca, però, quel plico non venne individuato come prova del finanziamento di Gelli a D’Amato per l’organizzazione della strage di Bologna. Oggi, invece, quella “rilevantissima posizione economica” assume un significato specifico e di elevata rilevanza al netto delle recenti evidenze processuali.

Secondo la Procura generale, scrive infatti la Corte d’Assise, “il fatto che Gelli conoscesse le rilevanti risorse economiche del funzionario si può spiegare con il fatto che fosse stato proprio lui ad alimentarle, attraverso versamenti di denaro e ciò conforta la tesi secondo la quale il beneficiario della somma di 850.000 USD (dollari americani, ndr) - versata tra febbraio 1979 e luglio 1980 ed indicata nel "documento Bologna" - fosse Federico Umberto D'Amato”.

La Commissione Anselmi non sapeva dell’intervento della Cia

Degli archivi uruguaiani di Gelli aveva parlato a processo anche Piera Amendola, per anni stretta collaboratrice di Tina Anselmi alla Commissione Parlamentare sulla P2 e consulente sulla massoneria deviata per diverse procure. Amendola, che ora lavora al consiglio direttivo dell’archivio Flamigni, aveva detto in aula di “essere rimasta molto colpita dalla deposizione di Grillandini” rispetto a come la Cia avesse anticipato l’arrivo del Sismi a Montevideo. “Questa informazione - affermava in aula il 12 novembre 2021 - non è stata mai detta alla commissione”. Eppure, “l’onorevole Anselmi fino all’ultimo giorno in cui è rimasta in Commissione si è battuta sui fascicoli uruguaiani interpellando i presidenti del consiglio, i ministri degli esteri e i servizi segreti”. “La Anselmi incitava sempre a raccogliere notizie, diceva che per noi è importante ricostruire tutto questo”. La consulente aggiungeva poi che alla Commissione Anselmi non “fu permesso, se non in minima parte, di esaminare I'archivio di Gelli in Uruguay”, si legge nella sentenza Bellini.


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Piera Amendola aveva quindi ricordato che la commissione acquisì una relazione di servizio “dei vice questori Edmondo Patuto, dell'Interpol, e Giulio De Luca, dell'Ucigos”. Entrambi si erano recati in Uruguay per la vicenda del sequestro degli archivi di Gelli, “trovati dietro una libreria mobile”. Sia Patuto, che De Luca, scrissero, spiegava la consulente, che “i documenti furono sequestrati, fotocopiati e consegnati a Maurizio Gelli”, il figlio del “Venerabile” che viveva a Montevideo (negli anni diventato ambasciatore in quattro paesi). “Quindi avvalorano anche la tesi che lui (Licio Gelli, ndr) non ha perso niente e che ne è rimasto in possesso”. Addirittura, ricorda la Corte d’assise di Bologna riprendendo la deposizione della Amendola, “il Ministro degli esteri Colombo comunicò alla commissione che non si aveva notizia di sequestri di documenti”. “Quindi siamo addirittura alla negazione”, commentava Piera Amendola.

In passato, a parlare dell’archivio della P2 in Uruguay, fu Gelli stesso. “Gli elenchi della P2? Erano a Castiglion Fibocchi ma gli uomini della Finanza non li videro così in aprile ho raccolto tutto, ho fatto una ventina di pacchi e, dopo averli sigillati in casse di legno, ho spedito tutto in Uruguay. Lì, poi, ho provveduto a distruggere tutto”, affermava. Gelli millantava per inquinare i pozzi, come era solito fare. Il mistero, però, resta. E a distanza di otto anni dalla sua morte e quarantadue anni dopo lo scandalo P2, le carte uruguaiane del "burattinaio", così lo definiscono i giudici, sono ancora in mano agli americani.

Di Gelli, recentemente, ha parlato l’ex gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Giuliano Di Bernardo. “Dopo la seconda guerra mondiale il governo americano per fronteggiare il pericolo comunista crea la Cia, Gladio e la P2”, ha raccontato ad ANTIMAFIADuemila. Per poi affermare netto: “Gli Stati Uniti usano Gelli”. Ecco allora che Washington probabilmente, rotto il giocattolo P2, ha dovuto nascondere tutto sotto il tappeto. A partire dalle verità più inconfessabili.

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