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Gli occhi strizzati dal sorriso, a volte contengono le lacrime, a volte le lasciano correre. Le mani calde nonostante il freddo pomeriggio invernale, inquiete si muovono nell’aria cercando un’altra mano amica, sorella, per condividere l’emozione, per sostenersi come tante altre volte hanno fatto in passato. Quelle donne che hanno conosciuto il freddo della tortura, il dolore della ‘picana’ (pungolo elettrico), l’angoscia dell’abuso, la desolazione di perdere una gravidanza a causa della tortura, il sequestro delle proprie figlie e figli piccoli, questo 27 giugno hanno trasformato tutto questo orrore vissuto in un abbraccio di unione, in un canto di allegria e di rivincita sulla vita.
Che simbolo immenso. Di fronte al Palazzo Legislativo, ricordando quel terribile giorno del 27 giugno del 1973 quando il presidente Juan Maria Bordaberry cacciò i deputati e senatori del Parlamento per lasciare entrare i comandanti militari affinché prendessero in mano il paese, in un terribile e angoscioso colpo di stato. 50 anni dopo, le donne hanno avuto il loro abbraccio.
E infatti il memoriale in omaggio alle donne imprigionate dallo Stato in tempi di dittatura civile militare rappresenta proprio questo: un grande e infinito abbraccio che attraversa tutte le braccia, tutti i tempi e tutti i luoghi in cui clandestinamente e illegalmente, sono state rapite, torturate, abusate, uccise e scomparse.


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Parole, ricordi, organizzazioni che hanno voluto essere presenti in questo giorno così importante. Così è iniziato l’atto dell’inaugurazione del Memoriale delle ex detenute politiche, condotto da Alejandra Casablanca la quale ha condiviso numerosi saluti che arrivavano da diverse parti del paese. La musica ha completato il coinvolgimento emotivo tramite la incredibile voce di Pepina De Palma che prima di cantare ha detto a tutte: noi seguiamo i loro passi, seguiamo la luce. Ha anche cantato con voce e chitarra la nota canzone “Como un pájaro libre”.


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E al culmine dell’emozione, sono saliti sul palco Mauricio Ubal e Ruben Olivera che hanno raccontato un piccolo aneddoto sulla canzone che stavano per cantare.
Quella notte del 27 giugno 1973, quando il futuro si era offuscato davanti a tutti e il panico era tangibile nelle strade, nelle case, nei gruppi riuniti attorno ad una radio, una televisione, nelle mani congiunte di due amanti, negli abbracci di una madre ai suoi figli, negli occhi vitrei dei vecchi operai e in tutta la società uruguaiana, quella notte sono emersi i primi frammenti di "A redoblar", una canzone che sarebbe diventata un emblema di resistenza contro l'autoritarismo e il terrorismo di stato. Così l'hanno presentata ed è così che hanno cantato questa canzone, che ha emozionato fino alle lacrime il pubblico.
Con la banda di sottofondo che suonava l’inno nazionale, centinaia di persone hanno invaso la piazza che ospita il memoriale delle donne. Autorità dipartimentali, di diritti umani, membri di gruppi di vittime della dittatura e innumerevoli cittadini, hanno accompagnato il momento storico in cui tante donne sono state onorate e tante altre, ormai morte, ricordate con affetto e commozione.
Dopo aver tagliato il nastro per l'inaugurazione ufficiale al memoriale, Chela Fontora, membro del collettivo di ex prigionieri politici Crysol, ha condiviso una riflessione: “Siamo libere da 38 anni, ma ci sono compagne che sono state uccise, sia nelle caserme che nelle carceri. Fuori dalle prigioni c'erano compagne che si suicidavano. È fondamentalmente per loro questo cerimoniale”.


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Le donne sono sempre state relegate in questa società, è una questione culturale. E quando siamo uscite la stampa non parlava di noi. Di nessuna di noi. La stampa parlava dei compagni, non di noi. Invece, dal momento che ci siamo animate a parlare – non è facile parlare perché tira fuori tutto ciò che hai vissuto, quindi non è facile – è trascorso molto tempo per poter raccontare tutto quello che ci era stato fatto, che non erano solo gli stupri. Gli stupri sono una delle tante cose. Sono state tutte le torture che, per voi che siete giovani, è impossibile immaginare. Anche i compagni hanno avuto un brutto momento.
Noi eravamo un bottino di guerra perché eravamo donne. Pensavano di possedere i nostri corpi. C’erano donne ufficiali e soldati, ed erano peggiori dei soldati e degli ufficiali stessi, perché essendo donne sapevano dove potevano ferirci più duramente, ad esempio sui nostri figli.

Fonte: antimafiadosmil.com

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