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L’ex presidente cileno Sebastián Piñera ha testimoniato in qualità di imputato dinnanzi al procuratore capo Ximena Chong, nell’ambito dell’indagine sui crimini commessi dalle forze di sicurezza del paese, all’epoca sotto gli ordini di Piñera durante la rivolta popolare che ebbe luogo a partire dall’ottobre del 2019. Fatti qualificati come crimini di lesa umanità e che mettono a nudo il costume deplorevole e reiterato delle istituzioni cilene. È importante considerare che l’ex mandante dei crimini non si è presentato in sede giudiziale per rilasciare la propria testimonianza, ma al contrario l’ha fatto comodamente dai suoi maestosi uffici, godendo di un privilegio quanto meno immorale.

Durante la repressione sfrenata contro la rivolta popolare cilena, che iniziò all’inizio di ottobre del 2019 e si prolungò fino alla metà di marzo 2020, milioni di persone scesero nelle strade con slogan che riflettevano la storica disparità sociale ed economica del paese transandino, nonché il profondo e odioso razzismo culturale e istituzionale. La repressione fu selvaggia ed eccessiva. Truppe militari attaccarono i civili, riversando sopra di loro una forza spietata. Il bilancio ufficiale delle vittime - ancora sotto inchiesta - fu di 34 morti e più di 4.000 feriti, tra cui 258 casi registrati di violenza sessuale e più di 300 traumi oculari, con il caso dell’attuale senatore Fabiola Campillai come uno dei più emblematici rispetto al processo sociale nel suo insieme. È importante considerare che la lista ufficiosa dei feriti si estenderebbe a più di 10mila persone.

La dichiarazione di Piñera è durata 8 ore e, secondo Chong - che ha parlato con la stampa locale- “non ha avuto reticenze a rispondere a nessuna delle domande” e “non si è avvalso della facoltà di non rispondere”. Si sta revisionando l’ampia dichiarazione e si stima che nei prossimi giorni ci sarà una seconda istanza. Secondo il presidente della Commissione Cilena dei Diritti Umani, Carlos Margotta, Piñera “in qualità di massima autorità civile del paese, aveva il dovere di impedire i gravi fatti di cui venne a conoscenza eppure non ha esercitato le sue facoltà né ha adottato le misure pertinenti per fermare la repressione poliziesca, cosa che gli fu raccomandata come misura urgente dagli organismi internazionali che visitarono il Cile e elaborarono dei rapporti sulla situazione delle violazioni dei diritti umani che si verificavano nel nostro paese”.

Storiche sono le rivendicazioni del popolo cileno alla sua leadership, ma come in tanti altri eventi, le proteste massicce hanno avuto come catalizzatore l’aumento del costo dei biglietti. Uno dei principali slogan di quei giorni dava l’immagine della natura strutturale del conflitto in atto: “Non erano 30 pesos, erano 30 anni”. I primi a manifestare furono gli studenti, i quali come misura di protesta eressero recinzioni nelle metropolitane della capitale. In seguito il resto della popolazione si aggiunse nel corso dei giorni, arrivando ad essere più di un milione di persone che protestavano attivamente nelle strade di Santiago, così come nel resto delle città. La repressione fu senza dubbio ordinata e sistematica.

Più tardi, di fronte alle pressioni internazionali, si arrivò a firmare l’Accordo di Pace. Questi fatti, che fecero il giro del mondo, furono l’inizio di un progetto sociale fino a quel momento impensabile come appunto la stesura di una nuova Costituzione Nazionale, alla quale parteciparono numerosi partecipanti di minoranza, o meglio gruppi da sempre esclusi. La nuova legge fu presentata alla società il 4 luglio 2022 e portata ad un referendum. Alla fine fu respinta da quasi il 62% degli elettori, su quasi l’86% degli elettori partecipanti, una cifra record.

Foto © Imagoeconomica

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