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Il 20 marzo 2003 Washington invase Baghdad per abbattere Saddam Hussein sulla base di prove inesistenti circa la presenza di armi di distruzione di massa

Con la giornata di ieri sono passati 20 anni dall’invasione NATO dell’Iraq e già si percepiscono malumori nelle coscienze prone ed allineate alla visione salvifica della condotta occidentale: destinata alla missione di “democraticizzare” il resto del mondo, ovvero quella schiera di nazioni composta da 6 miliardi di persone che evidentemente ancora non si identifica con la nostra civiltà “enormemente più evoluta”.
Guai a qualunque accostamento con l’invasione russa dell’Ucraina che possa rompere quella dicotomia buoni (noi) e cattivi, utile alla propaganda pro-armi a fondo perduto, tanto cara al nostro complesso militare industriale.
"Non c'è paragone", afferma oggi l'ex direttore della Cia David Petraeus, intervistato nel merito da Repubblica: "Io c'ero, fummo accolti da liberatori. Errori massicci furono commessi dopo e sono pronto a riconoscerli, ma la maggior parte degli iracheni voleva rovesciare il brutale regime di Saddam, mentre la maggioranza degli ucraini combatte Putin". E ancora: “abbiamo cambiato strategia, puntando sulla sicurezza delle persone, vivendo con loro, presidiando e riedificando le aree. Abbiamo ricostruito le forze di sicurezza irachene, dopo aver rimosso i leader settari violenti”.


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Cogliamo dunque l’occasione di ricordare le gesta dei “liberatori” americani nel condurre un conflitto totalmente illegale già dal principio, figlio della dottrina della guerra preventiva elaborata dall’amministrazione Bush a seguito dei fatti dell’11 settembre. “Il governo degli Stati Uniti si riserva il diritto di tutelare i propri interessi nazionali anche facendo ricorso unilateralmente all'uso della forza nei confronti di Stati sospettati di possedere armi di distruzione di massa”, stabiliva il nuovo mantra, in completa violazione dell’art. 2 paragrafo 4 della carta delle Nazioni Unite che pone il divieto per gli Stati membri di ricorrere, nelle loro relazioni internazionali, alla minaccia o all'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di qualsiasi Stato.
In ogni caso non ci si fece scrupoli ad elaborare un “casus belli” totalmente artefatto: il 5 febbraio 2003, in una seduta speciale del Consiglio di Sicurezza appositamente convocata, Collin Powell esibì una fiala che a suo dire era la prova definitiva dell'esistenza di laboratori mobili per la messa a punto di aggressivi batteriologici e chimici.
In seguito una commissione di inchiesta britannica nel suo rapporto finale pubblicato il 6 luglio 2016 e passato alla storia come "Chilcot Report", avrebbe confermato che al momento dell’invasione dell’Iraq, Saddam Hussein non rappresentava una minaccia, che l’esistenza di armi di distruzione di massa era stata data come certezza ingiustificata, e che Tony Blair aveva consapevolmente fabbricato accuse non suffragate nemmeno dai servizi segreti, al fine di giustificare un’aggressione militare senza prima aver tentato di mediare una soluzione alternativa.


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L'ex segretario di Stato, Colin Powell © Imagoeconomica


Tutto era pronto per l’assedio. Il 20 marzo 2003, Stati Uniti e Regno Unito alla testa di una “coalizione di volenterosi” scagliavano un massiccio attacco aereo, denominato Shock and Awe”.
Nelle prime quarantotto ore furono lanciate 3.000 bombe con guida di precisione su Baghdad, città densamente popolata di 5,6 milioni di abitanti. Un’occasione in cui importanti funzionari del Pentagono prima ancora dell’attacco si azzardarono a dichiarare pubblicamente: “Non ci sarà un posto sicuro a Baghdad… si avrà un effetto simultaneo, simile all’arma nucleare di Hiroshima, non in giorni o settimane, ma in minuti.” Lo scopo è “abbattere la città, che vuol dire privarli di elettricità e di acqua. In due, tre, quattro, cinque giorni, saranno fisicamente, emotivamente e psicologicamente stremati".
La riconoscenza del popolo iracheno nei confronti dei salvatori a stelle e strisce si esprime tutta nei numeri: secondo la rivista The Lancet, le perdite tra civili e combattenti sono stimate in 654.965 persone.
Vale la pena ricordare a questo proposito i 391.832 file secretati resi pubblici da Julian Assange che hanno aperto un’altra voragine ancora più spaventosa.
Secondo WikiLeaks, ben 680 civili inclusivi di donne incinte e minorati mentali, erano stati uccisi da militari americani solo per essersi avvicinati troppo ai posti di blocco.


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Il fondatore di Wikileaks, Julian Assange © Espen Moe/Flickr


Diverse sono state inoltre le azioni criminali commesse dai cosiddetti contractors, ovvero mercenari assoldati da società militari private quali l’americana Blackwater. Fra i crimini più efferati Wikileaks annovera il massacro di Baghdad del 16 settembre 2007, quando una pattuglia della Blackwater aveva aperto indiscriminatamente il fuoco su un gruppo di civili iracheni disarmati nella Nisour Square: vi furono 17 i morti fra i quali un bambino di 9 anni.
Dagli “Iraq War Logs” di Wikileaks è inoltre emerso il ruolo della Wolf Brigade, un commando paramilitare della polizia irachena istituito nel 2004 e addestrato alla contro-insurrezione da consiglieri americani. Erano noti come assassini arbitrari di inaudita violenza che facevano un uso brutale della tortura negli “interrogatori”. Spesso gli stessi statunitensi consegnavano i prigionieri, adolescenti inclusi alla Wolf Brigade in aperta violazione alla United Nation Convention Against Torture.
Come dimenticare inoltre quel file che ha dato inizio alla persecuzione nei confronti di Julian Assange; Collateral Murder: il filmato mostrava un gruppo di civili inermi che venivano freddati da militari americani a bordo di elicotteri Apache. Era il 12 luglio 2007. Due persone tra i civili erano dipendenti della Reuters, l’agenzia di stampa britannica: si trattava del ventiduenne fotogiornalista Namir Noor Eldeen e il suo autista Saeed Chmagh “armati” di cellulare e telecamera. L’audio immortalava le risate dei militari statunitensi con esclamazioni del tipo “Hahaaa…colpiscili!!”, mentre l’altro replicava “Oh yeah… guarda quei bastardi morti”.
Colpito e ferito l’autista della Reuters si trascinava al suolo cercando di raggiungere un riparo. Si udiva un militare auspicare che raggiungesse un fucile solo per essere legittimato a sparare. Si avvicinò un van nero da cui scendevano civili disarmati per soccorrere i feriti e trasportarli in ospedale. È a quel punto che l’elicottero apriva il fuoco con proiettili perforanti uccidendo feriti e soccorritori, colpendo anche i due bambini che sedevano sul sedile anteriore destro. Nel complesso si potevano contare 18 morti, ivi inclusi il padre dei bambini e i dipendenti della Reuters.


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Un massacro contro un popolo intero giustificato nientemeno che dall’adempimento della strategia egemonica statunitense che avrebbe visto l’Iraq un ponte tra il Mediterraneo e il Golfo Persico, per cui occuparlo e plasmarlo secondo i dettami liberal-democratici avrebbe concesso agli Stati Uniti il potere di controllare tutta la regione.
Si è trattato solo di un tassello della guerra infinita post 11 settembre, portata avanti da Washington allo scopo di ottenere la totale egemonia, impedendo la nascita di qualunque tipo di rivale, anche economico. Tutto riportato nel “Progetto di guida alla pianificazione della difesa” redatto dal Pentagono nel 1992.  Ne diede visione in un’intervista anche l’ex Supreme Allied Commander Europe Wesley Clark che già nel 2007 affermò come, durante una sua visita al Pentagono nel 2001, un generale che aveva servito sotto di lui gli disse di aver ricevuto dall’ufficio del segretario alla difesa “un memo che descrive in che modo prenderemo 7 paesi in 5 anni, cominciando dall’Iraq, poi la Siria, il Libano, la Libia, la Somalia, il Sudan e per finire l’Iran”.
Una scia di sangue che continua tutt’ora, certamente anche a causa della guerra criminale portata avanti da Vladimir Putin in Ucraina. Un’azione, tuttavia, che una certa propaganda vuole identificare come totalmente insensata ed ingiustificata, deresponsabilizzando un’occidente che evidentemente non può far altro che sostenere la pace inviando armi.E non perdiamo occasione di dimenticare ancora una volta la storia: il colpo di Stato organizzato promosso dagli Usa del febbraio 2014, la guerra del Donbass, portata avanti per 8 anni dai nuovi governi “antirussi” di Kiev o il crescente espansionismo della NATO ai confini di Mosca.
La continua astrazione del filone bene/male nella grave crisi internazionale a cui stiamo assistendo, certamente non potrà far altro che soddisfare i sogni più perversi dei guerrafondai che infangano le nostre istituzioni e trascinare il mondo in una catastrofe ancora più profonda.

Foto di copertina © Imagoeconomica

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