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Strappata la vittoria solo per pochi decimi all’estremista Bolsonaro. Il Paese è spaccato. Diversi poliziotti accusati di aver ostacolato gli elettori pro-Lula

Dopo quattro anni di sfrenato liberalismo e militarsimo del governo neofascista di Bolsonaro, il Brasile è tornato nelle mani operaie della sinistra dell’ex presidente sindacalista Luiz Inacio Lula da Silva. Candidato del Partito dei lavoratori (Pt), con il quale già fu alla guida del Paese dal 2003 al 2011, Lula, dopo un serratissimo testa a testa, ha battuto il rivale di estrema destra, il capo di stato uscente Jair Bolsonaro. In quella che rappresenta una sfida personale, un riscatto politico ed umano dopo aver scontato 19 mesi di carcere sulla base di false e pretestuose accuse per corruzione, oltre al riaffermarsi di un progetto di società ben preciso, il 77enne Lula ha vinto il ballottaggio solo per pochissimi punti percentuali, a dispetto di quanto proiettavano i sondaggi che attribuivano al socialista una buona fetta di vantaggio. Lula, infatti, ha ottenuto la vittoria con il 50,83% dei voti (59.596.247), contro il 49,17% di Bolsonaro (57.675.427). Il leader del Partito Liberale, che da oggi è il primo presidente ad aver fallito nel tentativo di rielezione, non ha accettato la sconfitta, come riferiscono alcuni dei suoi stretti collaboratori. Cosa che inquieta il neo presidente. "Sono per metà felice e per metà preoccupato: ho bisogno di sapere se il presidente che abbiamo sconfitto consentirà la transizione”. Un timore giustificato anche dalla storia recente del Brasile, in passato caduto in una violenta dittatura militare (1964-1985). Dittatura per il quale Bolsonaro ha più volte apertamente dichiarato di avere nostalgie. Un sentimento che, a vedere gli spogli, condivide praticamente una larghissima fetta del Paese. In questo senso il Brasile esce completamente spaccato da queste elezioni. Tra le metropoli ieri sera si sono viste le scene più disparate. Dai Caroselli di auto e moto, o dalle grida dalle finestre degli appartamenti, dei sostenitori dell'ex sindacalista, in lacrime di gioia, al silenzio di delusione dei fan di Jair Bolsonaro. Umori completamente polarizzati, specchio di una società altrettanto polarizzata con la quale Lula dovrà comunque presto confrontarsi. In questo senso può intanto ritenersi intelligente la sua scelta di nominare come vice Geraldo Alckmin, ex avversario di destra alle presidenziali del 2006. L'alleanza con questo devoto cattolico, governatore di San Paolo, mira infatti a creare un fronte repubblicano contro l'estrema destra per sbarrare la strada a Bolsonaro. Anche perché, come avverte il giornale Folha de Sao Paulo, pur sconfitto, "il presidente Bolsonaro esce rafforzato e può essere già automaticamente considerato un precandidato a succedere a Lula nel 2026, visto il consolidarsi del bolsonarismo in tutto il Paese". C’è una parte di Brasile che Bolsonaro è riuscito a conquistarsi in questi 4 anni di governo. Si tratta della borghesia latifondista, della classe media conservatrice e di ampi settori di sottoproletariato tanto urbano come rurale, adepto alle nuove chiese evangeliche e all’etica neoliberista della Teologia della Prosperità. Fette di società che, ovviamente, hanno plaudito le riforme neoliberali del “Presidente Nero”, le sue misure in tema sicurezza e ambiente. C’è però un’altra fetta di Paese - quella delle classi meno abbienti, dei lavoratori e delle favelas - che queste misure non le perdona, né le dimentica. A partire dalle misure a “maglie larghe” di ispirazione negazionista adottate nei mesi della pandemia. L’anno scorso una Commissione parlamentare d’inchiesta (Cpi) durata sei mesi e istituita ad hoc per individuare le responsabilità della gestione criminale dell’emergenza pandemica del Paese ha chiesto che Bolsonaro e alcuni membri della sua amministrazione ed alleati vengano giudicati per nove reati tra cui “”corruzione” (a causa dell’assegnazione diretta degli appalti Covid) e “crimini contro l'umanità". Nello specifico l’ex capo di Stato viene accusato di aver “deliberatamente esposto la popolazione a un concreto rischio d'infezione di massa", influenzato da un gruppo di consiglieri non ufficiali che sostenevano la ricerca dell'immunità di gregge. Una strategia per la quale sono morti 606.000 brasiliani (il Brasile è il secondo Paese al mondo per vittime da Coronavirus dopo gli Usa). Oltre a questo c’è chi a Bolsonaro non perdona il saccheggio latifondista della selva Amazzonica - durante il suo governo la deforestazione è aumentata del 75% - né le misure che hanno portato a un’ulteriore militarizzazione delle forze di Polizia, nonché alla concessione della grazia ad alcuni agenti condannati per crimini colposi. C’è anche buona parte della popolazione che, tra le altre cose, continua a chiedere verità e giustizia per il caso dell’omicidio dell’assessore e attivista femminista Marielle Franco, per il quale Bolsonaro era stato chiamato a testimoniare nell’ambito dell’inchiesta sul delitto. A uccidere Marielle sono stati ex agenti della Polizia Militare, uno dei quali avrebbe chiesto di contattare la casa di Jair Bolsonaro, situata nel quartiere Estacio di Rio de Janeiro, per una visita il pomeriggio del 14 marzo 2018, qualche ora prima dell’assassinio. Un mistero ancora irrisolto. Luiz Inacio Lula da Silva dovrà ora affrontare questa e numerosissime altre sfide in un Paese completamente diverso rispetto a come lo lasciò oltre dieci anni fa. Riuscirà a rappresentare una nuova speranza per il Brasile?

Foto © Imagoeconomica

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