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L’evolversi dell’invasione, perpetrata dall’esercito russo in territorio ucraino, rappresenta una gravissima escalation che imporrebbe una riflessione profonda sul nostro presente di pace. Mentre aumentano le tensioni, e le nazioni europee tornano ad armarsi con investimenti senza precedenti nella storia recente del nostro continente – basti pensare alla Germania! –, ci sono governi che non hanno mai smesso di utilizzare gli eserciti come strumento di politica interna ed esterna. È curioso che siano stati proprio questi ad essersi lanciati, per primi, nel tentativo di ergersi a mediatori della pace: Naftali Bennet, primo ministro israeliano, ha tentato la via della diplomazia nelle prime ore della guerra. A lui è seguito Erdogan, che per settimane ha ospitato ad Ankara i negoziati con i rappresentanti del governo russo e del governo ucraino. Tuttavia, entrambi i governi, sia quello turco che quello israeliano, mentre si prodigavano per la pace, hanno continuato a portare avanti operazioni militari. Con gli occhi delle nostre telecamere puntati su Kiev, nel Kurdistan iracheno e in Palestina sono ricominciate a cadere le bombe.

Cosa succede in Palestina
Nella Striscia di Gaza, la notte tra il 20 e il 21 aprile, l’aviazione israeliana è tornata a bombardare quelli che ha indicato come obiettivi militari di Hamas. Un episodio che testimonia la violenta escalation, che negli ultimi mesi ha impattato fortemente sulle condizioni di vita della popolazione civile palestinese, soprattutto nei Territori occupati. Come già avevamo avuto modo di vedere lo scorso anno, il mese del Ramadan, una delle feste più importanti per i fedeli musulmani – che sono la maggioranza (ma non la totalità) della popolazione della Palestina – rappresenta un momento di crescita delle tensioni.

Al Aqsa è la moschea più importante di Gerusalemme ed è il terzo luogo più sacro per l’Islam nel mondo. Durante il Ramadan, sono decine di migliaia i palestinesi che vorrebbero raggiungere la Città Santa. Quest’anno, l’accesso alla preghiera del venerdì nella moschea di Al Aqsa è stato, tuttavia, limitato: per tutti gli uomini di età compresa tra i 12 e i 50 anni è stato necessario richiedere un permesso alle autorità militari israeliane, che possono, con totale discrezionalità, accordarlo o meno.

Poi, il 15 aprile le forze di polizia israeliane hanno fatto irruzione all’interno della moschea di Al Aqsa, violando con le armi un luogo sacro mentre migliaia di fedeli erano riuniti in preghiera, causando centinaia di feriti. Da quel momento, la Spianata delle Moschee è stata teatro quasi quotidiano di violenze. Gli attacchi della polizia e le provocazioni dei gruppi di estremisti di destra e di fondamentalisti ebraici non hanno fatto che aggravare la situazione. Migliaia di giovani, per eludere il sistema dei permessi e dei check-point, hanno tentato di raggiungere Gerusalemme scavalcando i muri che la separano dal resto della Cisgiordania.

Riscrivere i confini
Diversi sono, infatti, gli status di cittadinanza cui i palestinesi possono accedere: dal luogo di nascita dipende il grado di libertà di movimento cui un palestinese ha accesso. Il controllo della libertà di movimento è, infatti, uno dei principali strumenti attraverso cui l’occupazione israeliana viene perpetrata quotidianamente, all’interno e all’esterno del territorio. Milioni sono i palestinesi in diaspora in tutto il mondo, che non possono fare ritorno alla loro terra, e questo fenomeno si replica anche all’interno della Palestina stessa.

Dagli anni ’90 ad oggi, infatti, la Palestina ha subito una progressiva frammentazione che ha differenziato le aree di controllo amministrativo e militare della popolazione, impattando grandemente sui diritti garantiti ai civili. Gaza, dove vivono più di due milioni di persone, è isolata dal resto del mondo dal 2006, circondata da un muro e, di fatto, sotto assedio militare via terra, aria e mare dall’esercito israeliano, mentre al suo interno il potere politico e militare è detenuto da Hamas, fazione islamica della resistenza della Palestina. Gerusalemme, città che dovrebbe essere sottoposta alla tutela internazionale secondo varie risoluzioni ONU, è oggi in realtà sotto il pieno controllo delle forze di sicurezza israeliane e quindi, di fatto, occupata militarmente.

In West Bank, o Cisgiordania, invece, il potere è detenuto solo parzialmente dall’Autorità nazionale palestinese, che vi esercita in alcune limitate aree il controllo amministrativo e politico, ma che non gode, tuttavia, di piena autonomia nella gestione della sicurezza interna, su cui le forze militari israeliane esercitano un’ingerenza non indifferente. Questo rende quasi impossibile realizzare, quindi, una vera indipendenza politica della classe dirigente della Palestina. Una delegittimazione percepibile nella grande insofferenza della popolazione, soprattutto più giovane, che non viene chiamata al voto dal 2006 e che ha progressivamente visto peggiorare la propria condizione di popolo oppresso.

La mappa della Cisgiordania è, oggi, la testimonianza plastica dell’espansione costante di Israele per mezzo dei settlements, colonie illegali realizzate nei territori formalmente palestinesi. La frammentazione territoriale, la diversificazione delle strade e delle infrastrutture cui possono accedere solo i cittadini israeliani, i check-point militari e l’espropriazione dei terreni, rendono quotidiana la dimensione dell’occupazione che si sviluppa su più livelli: militare, giuridico, economico e ambientale, come dimostra l’impegno del governo israeliano nel controllare le risorse energetiche e naturali del territorio, a partire dall’acqua.

Le violenze in Palestina
È in questo contesto che si inseriscono le violenze della polizia israeliana nei luoghi sacri e le provocazioni costanti dei gruppi di estrema destra, del fondamentalismo ebraico e le violenze degli abitanti dei settlements nei confronti dei beni e delle persone. Una condizione che, dalla conclusione dei bombardamenti dello scorso anno, non ha significato pace per i palestinesi. Basti pensare che, stando a quanto riporta Euro-Med Monitor, sono 47 le persone che hanno perso la vita nei raid dell’esercito israeliano e ai check-point militari, solo dall’inizio di quest’anno. Un effetto delle nuove regole d’ingaggio per i soldati israeliani in West Bank, approvate alla fine del 2021. 

Tra marzo ed aprile, quattro attentati hanno colpito militari e cittadini israeliani causando 14 morti. Ognuno di questi attacchi, realizzati da piccoli commando della Palestina o da singoli armati, ha determinato forme di repressione e rappresaglie collettive: ne è un esempio il raid militare nel campo profughi di Jenin. Il 9 aprile, in pieno giorno, l’esercito israeliano ha assaltato il campo profughi da cui proveniva un attentatore (già ucciso), per arrestare membri della sua famiglia e demolirne l’abitazione. Nell’operazione ci sono stati più di dieci feriti e un morto. Il 5 maggio, data in cui cade la celebrazione dell’Independence Day dello Stato ebraico, un nuovo attacco ha colpito il centro di Elad, causando almeno tre vittime israeliane. I due attentatori, che stando alle fonti israeliane avevano un’arma da fuoco e un’ascia, sono riusciti a fuggire e sono, al momento, ricercati.

Un ulteriore sintomo dell’aggravamento delle condizioni dei civili palestinesi è, poi, l’aumento delle persone sottoposte a detenzione amministrativa nelle carceri israeliane. Le forze di sicurezza israeliane possono, infatti, tenere in arresto per tre mesi (poi prorogabili, talvolta in una condizione che dura per anni) persone sospettate, indicate dall’intelligence, non solo senza che venga svolto un processo, ma anche senza che vengano formalizzate, nei confronti di queste persone, delle accuse. Come segnala Pagine Esteri, infatti, sono più di 570 ad oggi i reclusi in condizione di detenzione amministrativa in Israele. Un dato in forte aumento rispetto agli scorsi anni e che coinvolge anche palestinesi con cittadinanza israeliana.

I palestinesi della West Bank vengono giudicati, inoltre, solitamente presso i tribunali militari israeliani per la maggioranza dei processi cui vengono sottoposti, con un evidente squilibrio del diritto di difesa e ad un giusto processo, che spetterebbe alla popolazione civile. Un effetto della guerra in Ucraina è stato, invece, l’incremento dei prezzi dei carburanti e di beni di prima necessità come il pane, che, in alcune aree come Gaza City, ha visto un aumento anche del 30%.

Questo si accompagna ad una tendenza sempre più evidente al taglio dei fondi per le agenzie internazionali, come l’UNRWA delle Nazioni Unite, che dovrebbe prendersi cura dei campi profughi della Palestina. Queste, come anche gli apparati amministrativi, tanto di Hamas quanto dell’ANP, stanno subendo un taglio consistente dei finanziamenti esteri, con conseguente sospensione o dimezzamento degli stipendi di tantissimi lavoratori palestinesi. L’altissimo livello di disoccupazione generale porta i palestinesi a lavorare come manodopera in Israele.

L’insofferenza verso le proprie istituzioni e la rabbia crescente nei confronti del sistema di apartheid, cui si somma il peggioramento delle condizioni di vita e la violenza che pervade ogni aspetto della quotidianità dei palestinesi, rendono la situazione generale una potenziale pentola a pressione pronta ad esplodere da un momento all’altro. Forse, rispetto al passato, oggi i palestinesi, ed in particolare le nuove generazioni, scontano l’assenza di una leadership centralizzata credibile in grado di rappresentarne e indirizzarne le rivendicazioni. Questo ne rallenta e limita l’organizzazione.

Alleanze internazionali
Nel frattempo, l’allinearsi di nuovi interessi sullo scacchiere internazionale consegna un cambio notevole negli assetti dell’area mediterranea e della penisola arabica. La Turchia, in un processo di distensione dei rapporti con vari paesi strategici, come l’Arabia Saudita, ha accolto il Presidente israeliano Herzog in visita ad Ankara ad inizio marzo. Questo incontro, che segna una svolta storica nei rapporti tra i due paesi, da anni in forte tensione, ha già prodotto i suoi primi effetti: è in corso in queste settimane l’espulsione dal territorio turco dei militanti e dirigenti di Hamas, che fino a ieri, sotto l’ala di Erdogan, avevano trovato riparo e finanziamenti. Così, anche il governo turco si aggiunge alla lista, ormai lunga, degli stati che, in nome della normalizzazione dei rapporti con Israele, hanno dimostrato la strumentalità dell’interesse nei confronti della causa della Palestina.

Inoltre, i rapporti tra lo Stato ebraico ed il governo russo sono arrivati ai minimi storici proprio in merito alla guerra in corso in Ucraina. Israele, pur avendo votato a favore delle risoluzioni delle Nazioni Unite contro la Russia, aveva inizialmente mantenuto un profilo di mediazione con Mosca. Nelle ultime settimane, però, il Cremlino non ha apprezzato il progressivo avvicinamento del governo di Bennet con Zelensky, che, tra le altre cose, rivendica le sue origini ebraiche, come quelle delle migliaia di ucraini e di russi che oggi vivono in Israele, spesso nei settlements, in cui costituiscono alcune tra le comunità più numerose.

La rottura dei rapporti tra il Cremlino e Tel Aviv comporterà un cambio di equilibri anche nei paesi dell’area del sud-ovest asiatico, a partire dalla Siria, dove, fino a poco tempo fa, l’aviazione israeliana godeva di relativa libertà di azione contro le postazioni iraniane, garantita proprio dalle truppe di Putin. È di questi giorni la notizia, riportata dal Jerusalem Post, che, i leader di Hamas si siano recati a Mosca per incontrare rappresentanti del Ministero degli Esteri russo. Ora che stanno cambiando gli equilibri nel gioco internazionale, potrebbe cambiare, anche, l’interesse verso i palestinesi.

L’isolamento del popolo palestinese, ad ogni modo, ci consegna la realtà del mondo in cui viviamo: non c’è diritto internazionale, non c’è giustizia, né libertà per un popolo per cui nessuna potenza militare o economica ha convenienza di battersi. L’autodeterminazione dei popoli e la vita dei civili entrano nel dibattito pubblico in base alla convenienza, non rappresentano un parametro valido ed universale. La forza del popolo della Palestina sta nella sua stessa capacità di resistere e continuare a vivere, sotto occupazione militare, rinnovando di generazione in generazione la volontà di esistere.

Per i palestinesi all’orizzonte, ancora, non c’è la pace.

Tratto da: leggiscomodo.org

Foto:
it.depositphotos.com

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