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Una crisi economica, energetica e alimentare ci attende

Le tensioni tra Occidente e Russia a causa della guerra in Ucraina hanno portato ad una serie di sanzioni e controsanzioni. L’ultima sorpresa è la richiesta di Mosca del pagamento in rubli delle forniture di gas all’Europa, ma anche il divieto, da parte di UE e USA, dell’uso dell’oro russo per le transazioni, oltre al congelamento di tutte le riserve valutarie russe detenute all’estero. Di seguito descriveremo un quadro inquietante che si sta definendo per l’economia europea e le eventuali implicazioni belliche che ne potrebbero conseguire.

Le misure europee contro il sistema bancario russo e contro il rublo
Il 24 marzo si è svolto a Bruxelles il G7 con Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Usa. Durante il meeting, da cui Mosca è stata esclusa, sono state decise ulteriori sanzioni contro la Russia. Su proposta statunitense, a cui l’UE si è accodata, è stato deciso il divieto di accettare transazioni che vedano impiegato l’oro della Banca centrale russa. La Russia possiede circa 130 miliardi di dollari di riserve d'oro accumulate negli ultimi decenni proprio per sostenere il rublo. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, il 24 febbraio, la valuta di Mosca ha visto una svalutazione di ben il 30% rispetto ad euro e dollaro e l’indice dei prezzi è cresciuto del 14,5% rispetto all’anno precedente.
Secondo Andrew Korybko, analista politico e giornalista dell'Istituto di studi strategici e previsioni presso l'Università dell'amicizia tra i popoli della Russia, “nonostante la sua moneta sia crollata, la Russia è già pienamente autosufficiente con la maggior parte dei beni e servizi di base, soprattutto i prodotti agricoli (e risorse come gas e petrolio, ndr), quindi se la caverà comunque”. Questo per quanto riguarda “beni e servizi” appunto, cioè l’economia reale. Non bisogna però sottovalutare l’impatto della moneta e dei prezzi sul mercato.
Oltre alle sanzioni rivolte ai privati, come oligarchi e persone istituzionali, le misure contro la Federazione Russa mirano principalmente a colpire le imprese statali, il sistema bancario e il rublo. Le motivazioni dell’Occidente sono quelle di voler fermare la guerra ed evitare che Putin possa reperire i soldi per finanziarla. Queste misure però vanno a colpire soprattutto il mercato interno, quindi la gente comune. Minare il rublo significa mettere a repentaglio posti di lavoro, potere d’acquisto e risparmi della gente comune in Russia.
Ma già dal 26 febbraio si era deciso di sanzionare la Banca centrale russa, congelando le sue riserve valutarie detenute all’estero. Parliamo di oro, obbligazioni statali e valute importanti come dollari, euro, yen e sterline depositati nelle banche centrali di USA, Canada, GB, UE, Francia, Germania, Canada e Italia, il tutto per un valore di oltre 400 miliardi di euro.
In questo modo si voleva evitare che la Banca centrale russa potesse supportare il rublo attraverso l’acquisto di valuta russa in cambio di valuta estera. Diminuendo così l’offerta di rubli sul mercato. La manovra si era accompagnata all’espulsione dal sistema per i pagamenti internazionali SWIFT di varie banche russe, impedendo così i pagamenti e quindi le importazioni e le esportazioni tra la Russia e il resto del mondo. Ovviamente rimangono esclusi dalle sanzioni i pagamenti verso le società russe che forniscono gas e petrolio.
Un altro colpo basso è stata la sospensione della Banca centrale russa dalla “banca delle banche centrali”, cioè la Banca dei Regolamenti Internazionali, facendo perdere il diritto a tutti i servizi interbancari correlati. Si tratta di un istituto bancario con sede in Svizzera, su cui tutte le banche centrali del mondo si appoggiano.
Solo la Cina, e forse le economie emergenti dei Paesi BRICS di cui la Russia fa parte, potrebbe aiutare Vladimir Putin aumentando i loro interscambi commerciali e utilizzando rublo e yuan come alternativa alle monete forti quali il dollaro e l’euro. Cosa che già sta avvenendo con il processo lento ma costante di dedollarizzazione, soprattutto ad opera della Cina di Xi Jinping. Da qui le minacce USA rivolte a Pechino per eventuali interventi, anche di natura economica, a favore di Mosca.
Intanto all’incontro del 30 marzo tra la diplomazia russa e quella cinese a Tunxi, in Cina, per parlare di Afghanistan, i due giganti euroasiatici hanno ribadito “la natura controproducente delle sanzioni unilaterali illegali imposte alla Russia dagli Stati Uniti e dai suoi satelliti”, sottolineando così la vicinanza dei due Paesi sulla questione.

A rischio le forniture di gas dalla Russia
Per rivalutare la moneta e far calare l’inflazione, la Banca centrale russa ha aumentato i tassi di interesse al 20% e il governo ha imposto la conversione in rubli per gli esportatori russi dell'80% dei loro ricavi in valuta estera. Ma lo stratagemma forse più impattante è arrivato da Putin, prima del G7, con la richiesta del pagamento in rubli delle forniture di gas all’Europa. Ricevere rubli in cambio di gas, che finora veniva pagato prevalentemente in euro, vorrebbe dire aumentarne la domanda e quindi far apprezzare la moneta. Il problema è che il rublo è difficile da reperire sui mercati e per averlo banche e aziende estere dovrebbero rivolgersi alle banche russe, presso cui dovrebbero aprire dei conti per scambiare le loro valute in rubli, utilizzandoli per acquistare il gas. Questo rappresenterebbe un freno alle sanzioni contro il sistema bancario russo.
Molti Paesi europei, tra cui Italia, Germania, Francia, Polonia e Austria si sono opposti alla richiesta russa, ricordando che nei contratti per le forniture di gas sono anche definite le valute per i pagamenti. Essendo le richieste russe una “violazione dei contratti”, i Paesi europei vogliono continuare a pagare in euro e dollari le forniture. Il portavoce della Commissione europea Eric Mamer ha affermato “per quanto ci riguarda, abbiamo detto che le consegne (di gas, ndr) devono essere rispettate utilizzando dollari o euro”. Mentre il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, ha dichiarato “non faremo beneficenza, non invieremo gas gratuitamente all'Europa occidentale”, cioè “Nessun pagamento (in rubli, ndr), niente gas”. Se il Cremlino dovesse insistere su questa linea e l’Europa altrettanto sulla sua, potremmo realmente vederci staccare il gas e lì sarebbero dolori, perché l’Europa non è preparata al momento a rifornirsi altrove, senza contare che il gas liquido GNL, alternativa possibile, necessita di rigassificatori che alcuni Paesi, come la Germania, non hanno. Il GNL che gli Stati Uniti, maggior produttore mondiale, potrebbero fornire all’UE è di 15 miliardi di metri cubi, cioè appena il 9% del gas russo importato. Il solo gas statunitense non basterebbe per i bisogni del mercato europeo. La Russia fornisce circa il 41% del gas all’Europa, il 16,2% viene dalla Norvegia, il  7,6% dall'Algeria e il 5,2% dal Qatar. Il 38% di gas in Italia e il 55% di gas in Germania sono importati dalla Russia.
Queste le parole di Claudio Descalzi, amministratore delegato di ENI, riportate da La Repubblica, “L'Eni non pagherà il gas russo in rubli. […] Eni non ha rubli, i contratti prevedono il pagamento del carburante in euro. […] La richiesta della Russia di esportare il suo gas naturale ed essere pagata in rubli è un problema per i mercati energetici perché sta causando volatilità nei prezzi ed è molto difficile pagare quella valuta”, ma l'altro problema è che “l'Europa non ha proprie risorse energetiche e non  ha sufficiente capacità di rigassificazione del Gnl per soddisfare la richiesta”.
Il blocco nelle forniture del gas russo equivarrebbe ad un aumento spropositato del prezzo del gas rimanente, generando un contraccolpo non solo per i privati ma anche per le aziende europee, e metterebbe in ginocchio un'economia già vacillante. Inutile dire che una crisi del genere farebbe crollare anche l’euro. Lo scontro sul gas potrebbe divenire perciò il casus belli tra l’Europa e la Russia.

Lo spettro della crisi alimentare
Altro tasto dolente sono gli aumenti dei prezzi dei beni alimentari. Le cause sarebbero due: l’aumento del prezzo del petrolio per i trasporti e il crollo, causa guerra e sanzioni, dell’export di grano, olio e cereali da Russia e Ucraina, granai del mondo con una produzione rispettivamente di 60 e 24 milioni di tonnellate di grano (3° e 10° posto tra i maggiori produttori mondiali).
Se per Joe Biden “l’emergenza cibo sarà reale”, Emmanuel Macron, durante il G7, ha parlato di “crisi alimentare senza precedenti” soprattutto in relazione all’Africa. L’Europa è quindi consapevole della gravità del problema, ma mentre gli Stati Uniti, abili a portare scompiglio in casa d’altri, se la possono cavare non essendo dipendenti dall’import di prodotti russo-ucraini, a soccombere sarebbero proprio le economie dei Paesi europei e non solo. La carenza riguarderebbe cereali come orzo e grano, olio di semi di girasole, ma anche i mangimi per animali generando così problemi per gli allevamenti.
Il Consiglio europeo ha varato un programma, chiamato Farm, al fine di garantire l’approvvigionamento alimentare per i Paesi più vulnerabili alla crisi alimentare. Si vedrà probabilmente un import dai grandi esportatori cerealicoli come Cina, India e USA (nella classifica dei maggiori produttori di grano rispettivamente al 1° posto con 126 milioni di tonnellate, al 2° posto con 95 milioni di tonnellate e al 4° posto con 55 milioni di tonnellate).
Non solo, vari Paesi nel mondo importano prodotti cerealicoli dalle nazioni in conflitto. E’ di qualche giorno fa la notizia, riportata su la Repubblica, che il Presidente del Libano, Michel Aoun, ha chiesto aiuto all’Europa per sopperire all’emergenza alimentare che il suo Paese sta affrontando. “A causa della guerra in Ucraina il Libano rischia la crisi alimentare” ha affermato. Beirut importa infatti più del 70% di grano da Ucraina e Russia.
Mosca ha bloccato l’export di fertilizzanti azotati e di fosfati per le produzioni agricole. L’effetto è stato un aumento dei prezzi della filiera che si riverserà a sua volta sui beni finali di consumo. I fertilizzanti hanno visto un aumento del 150%. Non solo aumenteranno i prezzi, ma con meno fertilizzanti ci sarà probabilmente una diminuzione della produzione agricola mondiale. Mosca e Pechino avevano fatto una mossa simile già nell’autunno 2021 mettendo sotto scacco tutto il mondo.

La questione del petrolio russo
Negli ultimi giorni il prezzo del carburante è aumentato in tutto il continente. In Spagna gli autotrasportatori scioperano ad oltranza già da due settimane e c’è il rischio sciopero anche in Italia dove i tir si sono già fermati il 14 marzo scorso a causa dell’impossibilità di acquistare il carburante con prezzi oltre i 2 euro al litro. Il greggio è arrivato a toccato i 130 dollari al barile sui mercati.
Anche qui il problema rimangono gli attriti con la Russia, uno tra i primi esportatori di petrolio al mondo. Gli Stati Uniti hanno bloccato le importazioni di gas e petrolio russo e anche il Regno Unito farà altrettanto ma entro fine 2022. Secondo il The Wall Street Journal, lo scorso anno gli Stati Uniti hanno importato dalla Russia appena l’8% del loro fabbisogno di combustibile. Le sanzioni non avranno perciò un gran peso sull’economia USA. A farne sempre le spese è l’Unione Europea. Mosca ci fornisce circa il 25% dei nostri consumi di petrolio. Troncare di netto le forniture non sarebbe un grande affare oltre ad aumentare ancora di più il prezzo dei combustibili, incentivando l’inflazione.
I dati Eurostat 2021, forniti da il Fatto Quotidiano, riportano come maggiori importatori europei di petrolio russo, la Germania (con un quarto dell’intero import europeo) e Polonia, seguite da Olanda, Finlandia e Belgio. L’Italia, all’ottavo posto nella classifica, importa greggio russo per il 12,5% del suo fabbisogno interno. La Slovacchia sarebbe il paese UE più esposto alle importazioni russe con il 78,4%, poi la Finlandia, la Lituania e la Polonia con il 66%. La Germania importa dalla Russia il 29,7% del suo petrolio, mentre la Francia il 13,3%.
Come se non bastasse, il Cremlino ha bloccato i flussi attraverso l’oleodotto CPC (Caspian Pipeline Consortium) con sbocco sul Mar Nero, facendo ovviamente lievitare i prezzi del 5%.
La discussione su un eventuale blocco alle importazioni di greggio dalla Russia si è avuta ultimamente anche in seno all’Unione Europea. Polonia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovacchia e Irlanda sarebbero favorevoli. Ma l’embargo sul petrolio russo non convince la Germania, maggiormente esposta.
“Se potessimo fermare le importazioni di petrolio dalla Russia lo faremmo automaticamente”, ha affermato la ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock.
La Polonia invece, geograficamente più vicina al conflitto ucraino e ideologicamente schierata con le politiche atlantiste, guida il fronte pro-embargo arrivando addirittura a ipotizzare sanzioni contro la Cina.
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Dmitry Peskov ha avvertito che “un tale embargo (sul petrolio russo, ndr) avrà un impatto e influenzerà molto seriamente il mercato globale del petrolio in generale” e la decisione “peggiorerà seriamente gli equilibri energetici del continente europeo”, e ha concluso dicendo “questa è una decisione che colpirà tutti”.
L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, altri due importanti esportatori di petrolio, hanno risposto negativamente alla richiesta degli Stati Uniti di aumentare la produzione di barili di greggio per farne scendere il prezzo sul mercato mondiale. Ryad non solo non si ritiene responsabile per la carenza di greggio sui mercati, ma adduce la responsabilità della scarsa produzione interna agli attacchi dei ribelli Houthi dello Yemen al complesso petrolifero di Yanbu.
La decisione saudita ed emiratina si allinea a quella dell’OPEC+ (membri OPEC con altri 10 paesi petroliferi tra cui la Russia) che non intende aumentare l’offerta di petrolio.
In questo quadro si inseriscono le trattative tra l’Arabia Saudita e la Cina per il pagamento del petrolio saudita in yuan anziché in dollari. Già dal 2016 se ne parlava, ma ora sembra possa divenire realtà. Pechino ha aumentato esponenzialmente le sue importazioni di petrolio dal regno mediorientale tanto da averne acquistato nel 2021 il 25% delle esportazioni.
Cooperazione in campo militare e in campo nucleare e investimenti infrastrutturali sono l’offerta del dragone cinese per stringere legami redditizi con Ryad.
Con il pagamento del petrolio in yuan, la valuta cinese acquisirebbe maggior prestigio e valore sui mercati internazionali, e il nuovo petroyuan andrebbe a fare concorrenza al petrodollaro. Tale operazione farebbe perdere terreno agli USA, che finora dominavano il mercato del petrolio attraverso il dollaro, inoltre incentiverebbe la tendenza alla dedollarizzazione portata avanti dalle politiche di Pechino. Il dollaro perderebbe così la sua supremazia come valuta universale.
L’Occidente sta giocando col fuoco. Gli Stati Uniti perseguono la loro politica aggressiva con la Russia, ma soprattutto con la Repubblica Popolare Cinese che negli ultimi anni è diventata un colosso economico. Gli squilibri generati dall’isolamento della Russia porteranno ad un peggioramento delle condizioni economico-finanziarie dell’Europa. Tutte queste sanzioni porteranno, nel nostro continente, un considerevole aumento dei prezzi, una scarsità di risorse energetiche e una probabile crisi alimentare. Le politiche USA avverse alla Cina, faranno perdere a Washington sempre più terreno. Pechino sta alzando la testa, mentre il dollaro rischia il tracollo assieme a tutta l’economia statunitense.
La crisi sopra descritta potrebbe essere il vero movente per una guerra tra Occidente e Oriente, considerando il fatto che tutti gli schieramenti si stanno armando e da tempo si provocano l’uno con l’altro. L’invasione russa dell’Ucraina ha decretato una nuova guerra fredda con la Russia e la fine del dialogo. Tutti i Paesi UE, pure quelli più riluttanti, stanno spingendo per un massiccio riarmo, mentre Mosca si avvicina sempre più alla nuova potenza emergente, la Cina.

Foto © Imagoeconomica

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