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Due settimane fa una giovane giornalista afghana, costretta alla clandestinità e all’anonimato dal cambio di regime in Afghanistan, ha lasciato un messaggio a chiunque fosse in ascolto in tutto il mondo: "Per favore, pregate per me". Non sa se rivedrà la sua famiglia o se sopravviverà e non è l’unica a vivere questa tragedia. Da quando gli Stati Uniti hanno annunciato il loro ritiro dall’Afghanistan e i talebani hanno ripreso il potere, migliaia di donne vivono nella paura e devono stare nascoste. Alcune si sono aggrappate agli aerei in un disperato tentativo di fuga e decine sono state uccise dalle esplosioni all’aeroporto di Kabul.
Negli ultimi giorni, tuttavia, non tutte le donne si sono rinchiuse rimanendo in silenzio. In effetti molte di queste, con coraggio e determinazione hanno dato il via alle proteste proprio a partire da Herat e dalla capitale Kabul, dove con le loro voci hanno gridato: “Siamo tutte insieme, abbiamo rotto l’oppressione”. Sono state represse violentemente già il secondo giorno dai talebani. Dignitosamente decise a rivendicare i propri diritti e a riscattare la propria libertà, decine di afghane non si sono arrese davanti alle minacce dei Talebani, opponendo resistenza persino alla violenza: infatti, sono stati numerosi gli episodi in cui è stato strappato loro il megafono, in cui sono state picchiate a sangue coi calci dei fucili e in cui sono stati utilizzati i lacrimogeni. Ma il desiderio di giustizia delle manifestanti ha trionfato sulla paura e sul dolore, tanto che l’attivista Rabia Sadat, ripresa dopo la manifestazione con parte del volto insanguinato, ancora non si è ritirata, pronta a tornare in strada senza esitazione. Grazie a questo primo atto di resistenza, la ribellione si è poi diffusa anche in altre città generando proteste presso Zaranj, Mazar-e-Sharif e Balkh (qui si legge su uno dei cartelli esibiti: “Una città con un solo genere ha un cattivo odore”).


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Zabiullah Mujahid


In merito alle rivolte (riferendosi in particolare a quella di Kabul) si è espresso Zabiullah Mujahid, ex portavoce dei Talebani, appena nominato ministro della Cultura il quale, durante una dichiarazione, ha negato alle donne il diritto di manifestare in sicurezza, scoraggiandole a scendere in strada prima dell’instaurazione del nuovo governo: “La protesta è andata fuori controllo, e siamo stati costretti a intervenire. E poi, queste manifestanti sono troppo impazienti e troppo scalmanate”. E ha aggiunto: “Non ci saranno donne ministro, perché lo vieta la Sharia, poiché una donna non può rivestire un ruolo di eccessivo prestigio. Ma vedrete che ce ne saranno nel governo e che non calpesteremo i loro diritti. Le donne potranno continuare a insegnare e a lavorare, perfino se sono poliziotte. Vent’anni fa, non c’erano le tante scuole e università che ci sono oggi. Tra il 1996 e il 2001 impedimmo a quasi tutte le ragazze di studiare perché non sapevamo bene come comportarci con l’istruzione femminile. Oggi, però, che di licei e di atenei ce ne sono fin troppi, non vieteremo di certo alle studentesse che intendono continuare a frequentarli”.
A smentire le parole di Mujahid sono però i fatti, le notizie e le testimonianze riportati delle donne vittime della vera natura del governo talebano. I traguardi raggiunti dalle donne afghane negli ultimi anni sono ritenuti una degenerazione anacronistica dai Talebani, i quali conservano un odio brutale nei loro confronti, rendendo la vita del genere femminile sotto le loro norme, vincolata da una serie misogina di limitazioni e divieti. Ne è un’altra prova il lungo documento emesso dall’autorità educativa talebana per evitare il rischio di socializzazione tra studenti e studentesse nelle scuole tramite ingressi e uscite scaglionati, classi separate per genere e insegnanti donne assegnate solo alle classi femminili. Anche se la dimostrazione più lampante dell’ingiustizia dei Talebani contro le donne è la violenza ad esse inflitta durante le rivolte, che conferma il grave rischio corso da chiunque non segua i dettami del regime.


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Banu Negar


Il pugno duro dei Talebani è ormai impegnato in una feroce caccia alle donne nel Paese ed è raro vedere una donna in giro per strada, visto il timore di essere aggredita. Un caso che ha fatto il giro del mondo è stato quello dell’uccisione di Banu Negar, agente di polizia della provincia centrale di Ghor, incinta di otto mesi, assassinata dai Talebani in casa sua di fronte ai familiari. C’è stata poi l’aggressione di Yaqoobi Salami e di suo marito, entrambi ciechi, minacciati con spari in aria, picchiati e spruzzati con spray al peperoncino durante i loro tre tentativi di fuga.
Significative sono state anche le dichiarazioni dell’attivista e imprenditrice Laila Haidani, rifugiata a casa sua nella periferia di Kabul, che ha affermato con le lacrime agli occhi: “Con l’arrivo dei talebani noi donne abbiamo perso tutto: la speranza, la libertà e soprattutto i diritti acquisiti negli ultimi vent’anni. La caduta di Kabul è stato un uragano che ha distrutto tutto. Quello che fa più male è il tradimento dell’America, che dicendosi democratica e paladina dei diritti umani, ci ha lasciato cadere in un buco nero. Tre settimane fa, con la scusa che ero una donna e che avevo lavorato con gli americani, il che è falso, i talebani hanno chiuso tutte mie attività. Adesso sono costretta a tentare nuovamente la fuga per meglio combattere i Talebani e per continuare ad aiutare le donne afghane che non hanno i mezzi per difendersi. La caccia alle attiviste, alle giornaliste, alle imprenditrici e alle donne che in politica hanno più osteggiato gli studenti coranici è già cominciata. Ci stanno stanando tutte, casa per casa. Se non riesco a lasciare il Paese, presto verrà il mio turno”. Dalla stessa Laila è arrivata l’informazione dell’ennesimo femminicidio commesso dai Talebani: “La settimana scorsa un giovane talebano ha fermato una ragazza (che indossava un paio di jeans) mentre rientrava a casa e le ha chiesto perché non era vestita decentemente, con il corpo e il viso coperti. La ragazza, che si chiamava Zahira e che aveva solo vent’anni, ha risposto che quello era il suo stile d’abbigliamento preferito. Lui ha allora tirato fuori la pistola e gli ha sparato in testa. Nessuno l’ha arrestato né inquisito per questo orrendo omicidio. Anzi, è probabile che qualche mullah si sia anche complimentato con lui per il suo coraggioso rigore”. L’opinione dell’imprenditrice sulle recenti manifestazioni delle sue concittadine non infonde speranza, al contrario ci mostra un altro punto di vista: “Sono battaglie inutili; (le manifestanti) portano i fiori ai talebani per chiedere il rispetto dei loro diritti, ma gli islamisti non sanno neanche che cosa siano i diritti delle donne. Per combatterli ci vuole altro. Bisogna gridare all’Occidente che gli studenti coranici stanno negando tutte le nostre libertà. E per poterlo fare siamo costrette a lasciare il Paese”.


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In tutto questo, prima di tutto gli Stati Uniti e poi di conseguenza l’Europa intera (compresa l’Italia) sono i maggiori responsabili di ciò che sta accadendo in Afghanistan ed è necessaria una presa di posizione politica forte da parte dei governi. Già in passato, per giustificare l’urgenza di interventi militari e di ingenti spese in armamenti, sono state strumentalizzate immagini e diffusi numerosi fatti e notizie, alcune delle quali addirittura false. Oggi questo non può riaccadere ed è necessario intervenire diplomaticamente, attraverso il sostegno a nuovi gruppi, partiti o formazioni sociali, in modo democratico e soprattutto garantendo elezioni a suffragio universale sia maschile che femminile e non eterodirette, influenzate o controllate da poteri esterni.
Parallelamente le azioni delle giovani donne afghane rappresentano sul territorio un forte atto di resistenza e di coraggio.
“Stanno compiendo un gesto altamente simbolico", è stato il pensiero della scrittrice Roeina Shahabi in riferimento alle recenti manifestazioni, "qualche decina di donne contro il feroce esercito talebano che ha appena sgominato le truppe afghane sostenute dalla prima potenza militare del pianeta. Fa pensare a Davide contro Golia. E poi, è il momento di rivendicare i propri diritti. Ora o mai più”.
È con l’energia di quest’ultima esortazione che la minoranza discriminata costituita dalle donne afghane continua a lottare per la riconquista di quei diritti perduti, sebbene al momento la priorità di molte, nascoste o in fuga dai pericoli delle strade nelle proprie città, sia sopravvivere.

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