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Da settimane si è tornato a parlare di Afghanistan. All’incirca da quando le forze occidentali hanno iniziato a ritirarsi dal paese che, progressivamente, sta ricadendo sotto il controllo dei talebani: hanno conquistato 25 città in 10 giorni, senza alcun combattimento. Dopo la decisiva offensiva del 12 agosto, in cui i talebani hanno preso contemporaneamente Ghazni, Kandahar e Herat, assicurandosi così il controllo di gran parte del paese, ieri è stato il turno della città più ambita, la capitale Kabul. Stiamo seguendo tutti con apprensione ciò che sta accadendo a quel paese già martoriato da venti anni di guerra (se si prende in considerazione solo la storia del terzo millennio), soprattutto per ciò che ancora dovrà subire la stremata popolazione afghana. Ma un’altra cosa genera altrettanta preoccupazione: chi invoca nuovamente e, forse, ingenuamente l’intervento della NATO, scongiurandola di ri-tornare per sconfiggere i talebani. E il movente degli avvenimenti recenti, che hanno visto intere città cadere senza alcun rilevante combattimento, potrebbe essere ricercato proprio in questo: creare una nuova base di consenso dell’opinione pubblica per continuare a giustificare una guerra che, in 20 anni, ha arrancato un po’ nel trovare una giustificazione. In questi due decenni si è infatti preferito di gran lunga il silenzio mediatico alle giustificazioni: le notizie rare che arrivavano dall’Afghanistan riguardavano esclusivamente i soldati italiani/occidentali morti o feriti. Il compianto Gino Strada apriva il suo ultimo articolo pubblicato su “La Stampa” dicendo, non a caso: “Si parla molto di Afghanistan in questi giorni, dopo anni di coprifuoco mediatico".

I file di Wikileaks possono fornire una chiave di lettura
Il 26 marzo del 2010, Wikileaks pubblicò un documento risalente a due settimane prima. Si trattava di un documento segreto della CIA nel quale si delineavano le strategie per convincere l’opinione pubblica europea a continuare a sostenere la guerra in Afghanistan (e a non fare pressioni sui propri governi per concluderla, come stava accadendo in Germania quando iniziò a circolare la notizia della strage di Kunduz, una strage avvenuta nel 2009 con un bombardamento aereo che causò la morte di più di 200 civili afghani). In quel documento, come ultima carta da giocare, si prendeva in considerazione la fiducia che i cittadini europei avevano nel presidente Obama, in modo da convincerli, tramite i discorsi “umanitari” di quest’ultimo, che quella guerra andava continuata ad ogni costo.
Ma una motivazione in particolare risulta oggi più attuale che mai e andrebbe presa seriamente in considerazione per un dibattito più ampio su ciò che sta accadendo in Afghanistan. Nelle strategie delineate in quel documento, la Cia, facendo particolare riferimento ai cittadini francesi (descritti come “più sensibili e laici” rispetto ai tedeschi), aggiunse, tra gli argomenti propagandistici da usare, anche il possibile ritorno dei talebani al potere e gli effetti che questo avrebbe avuto sulla vita delle donne afghane: «La prospettiva che i talebani riportino indietro [il paese], dopo i progressi ottenuti faticosamente in tema di educazione delle donne, potrebbe provocare l’indignazione e diventare ragione di protesta per un’opinione pubblica largamente laica come quella francese». Va dunque visto in questa chiave il ritiro delle forze occidentali dall’Afghanistan? Destabilizzare prima il paese, poi andarsene lasciandolo cadere nel caos per avere, infine, un pretesto per intervenire nuovamente? Non sarebbe una novità visto che è la stessa tattica utilizzata tra gli anni '70 e '90 quando, dopo aver finanziato, addestrato e armato i mujaheddin in chiave anti-sovietica, gli Stati Uniti hanno lasciato un vuoto di potere nel paese, lasciandolo cadere in una terribile guerra fratricida tra le diverse fazioni di mujaheddin per la conquista del potere.
La guerra in Afghanistan è sicuramente stata un grande fallimento degli Stati Uniti in primis che, dopo 20 anni, hanno speso almeno duemila miliardi di dollari (come emerge dal progetto Costs of War del Watson Institute for International and Public Affairs della Brown University. Una cifra così grande che, forse, avrebbe potuto addirittura rendere pubbliche e gratuite le intoccabili ed elitarie sanità ed istruzione statunitensi. Oppure, per restare in tema di “interventi internazionali”, una cifra così grande che, con una sua piccola frazione, avrebbe potuto rimettere in piedi l’Afghanistan anziché buttare giù le sue poche infrastrutture rimaste integre prima dell’intervento della NATO (7 ottobre 2001).
Ma, forse, quella che i giornali statunitensi chiamano «Forever War», la guerra perpetua contro il terrorismo con cui gli Usa hanno sterminato centinaia di migliaia di persone completamente innocenti, non è appunto ancora finita. E, propaganda a parte, forse per arrivare più preparati in futuro, quando i nostri governi vorranno prendere parte a nuove guerre, la domanda principale che dovremmo porci, visto che quella in Afghanistan è stata anche la guerra costata di più all’Italia (in termini di spesa e vittime), è: cosa si è ottenuto in 20 anni di guerra se non morte, distruzione e inutili spese stratosferiche?

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