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Dopo 7 anni di indagini ora sono i magistrati a finire sotto processo

Tutte le rivoluzioni hanno un destino comune. Dopo un’iniziale scossone terminano sempre con la restaurazione. Era successo nel 1994 con Mani Pulite e ora con la Lava Jato. Considerata dai commentatori internazionali come la più grande inchiesta contro la corruzione dell’America Latina, oggi l’operazione Lava Jato sta affrontando il momento più difficile della sua storia. E con lei i suoi attori principali, i quali sono stati in parte azzoppati dai nuovi magistrati della Procura Generale di Brasilia (nominati dal Presidente Bolsonaro) e in parte sommersi dai processi intentati contro di loro dai propri ex imputati. Come l’ex Presidente Lula che ha fatto causa contro Deltan Dallagnol, l’ex procuratore capo del pool della Lava Jato, per aver esposto in modo troppo colorito durante una conferenza stampa tutte le accuse presentate dai magistrati contro il leader del PT.
E sarebbe proprio Lula a ricevere i maggiori benefici se l’inchiesta venisse fermata.
Il Supremo Tribunal Federal (STF), massima Corte in Brasile, ha acconsentito alla difesa dell’ex Presidente Luiz Inácio Lula da Silva (in foto) di poter accedere alla versione integrale delle chat intercorse tra l’ex giudice Sergio Moro e il magistrato Deltan Dallagnol. Messaggi finiti in mano ad un gruppo di hacker e poi passati sottobanco al giornale The Intercept che nel giugno del 2019 pubblicò una parte di quelle conversazioni. In quell’episodio non venne rilevato nulla di penalmente rilevante però emerse il rapporto occulto che vi era tra gli uomini del pool e il giudice preposto a giudicare in aula i casi della Lava Jato. Dalle nuove intercettazioni depositate sembrerebbe che Moro fosse interessato a conoscere la solidità delle accuse contro Lula sette mesi prima della presentazione della denuncia contro di lui. L’obiettivo degli avvocati del leader del PT è dimostrare che l’allora giudice Moro avesse in qualche modo interferito con il normale svolgimento delle indagini in modo da arrivare in aula con la ‘prova provata’ che Lula avesse intascato tangenti provenienti dal cartello di imprese del sistema Petrobras. La difesa dell’ex Presidente sospetta persino che il pool della Lava Jato avesse in qualche modo cercato di interferire con gli altri Paesi in cui il gruppo Odebrecht (compagnia che finanziava di nascosto i Partiti vicini a Lula) era solito pagare tangenti al fine di garantire ai vertici della società un trattamento light in cambio di una piena collaborazione. In questo modo i magistrati si sarebbero garantiti prove solide da usare contro l’ex Capo di Stato brasiliano.
Se gli ermellini verdeoro dovessero accettare questa ricostruzione, Lula non vedrebbe solo annullate le condanne di due processi (quello per il triplex a Guarujà e la casa di campagna di Atibaia) ma potrebbe tornare ad essere candidabile alle elezioni del 2022. Questa decisione è nelle mani del giudice Nunes Marques, nominato al Supremo Tribunal Federal proprio dal Presidente Jair Bolsonaro, sempre di più intenzionato a porre fine alle inchieste nate dall’operazione Lava Jato.
Il 7 ottobre 2020 lo stesso Bolsonaro aveva dichiarato di “aver chiuso la Lava Jato perché oggi non c’è più corruzione nel governo”. Una dichiarazione preceduta un anno prima dalla nomina di Augusto Aras come nuovo Procuratore Generale della Repubblica, titolare del filone politico delle inchieste Lava Jato. Aras, a differenza del suo predecessore Rodrigo Janot, ha subito preso le distanze dal lavoro dei magistrati del pool di Curitiba, centro di propulsione delle principali indagini anticorruzione degli ultimi anni. Nelle settimane seguenti difatti sono partite una serie di visite di ispezione negli uffici del pool da parte di uomini della Procura Generale di Brasilia. Non si voleva soltanto fare luce sui metodi d’indagine usati dai magistrati ma anche accedere all’archivio delle intercettazioni telefoniche che, secondo Aras, racchiude i dati di “38 mila persone” ed è paragonabile ad una “cassa dei segreti”. Il nuovo procuratore generale ha già fatto sapere di essere intenzionato a riorganizzare il lavoro dei magistrati anticorruzione in Brasile eliminando in questo modo i pool specializzati nel contrasto ai crimini dei colletti bianchi.
All’unisono la politica brasiliana ha applaudito questa iniziativa. Il nuovo ministro della giustizia André Mendoça, subentrato al dimissionario Sergio Moro, ha dichiarato: “È sbagliato pensare che la Lava Jato possa eliminare la corruzione in Brasile”. Un’affermazione che è apparsa come una pugnalata alla schiena per i magistrati di Curitiba. Difatti entro ottobre del 2021 tutti i pool anticorruzione che si occupano dell’inchiesta chiuderanno i battenti, trascinando con sé anche le principali indagini sugli appalti Covid sui quali pende il sospetto che siano state pagate delle tangenti. Non è un mistero che siano aperti dei fascicoli riguardanti non solo i contratti per la costruzione di ospedali e l’acquisto di respiratori e mascherine, ma anche sulla gestione complessiva dell’emergenza con particolare attenzione a Manaus, la città al centro dell’Amazzonia dov’è stato registrato il primo caso della cosiddetta variante brasiliana del virus. Ed è proprio questa nuova inchiesta a terrorizzare la politica brasiliana da destra a sinistra. Motivo per cui, nonostante la pandemia e la corruzione stanno spolpando quel poco che resta del Brasile, nessuno ha osato proferire parola sulla fine imposta alla Lava Jato. Ciò che il giudice Davigo aveva pronosticato per Mani Pulite si è verificato anche in America Latina: “Ci distruggeranno senza farcene accorgere, senza strillare, e questa volta senza nemmeno incontrare ostacoli dall’altra parte. Saranno tutti d’accordo, quando si tratterà di disarmarci”.

Foto © Imagoeconomica

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