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Il 25 gennaio di 10 anni fa, i cittadini egiziani scendevano a piazza Tahrir per protestare contro l’allora presidente Hosni Mubarak, da 30 anni al potere, sotto lo slogan “Al-sha’ab yurìd isqàt al-nizam” (“il popolo vuole la caduta del regime”). La protesta, ispirata a quella tunisina iniziata il mese prima, ebbe proporzioni immense: in pochi giorni la piazza vide la presenza di centinaia di migliaia di persone, delle quali migliaia persero la vita per la repressione governativa che ne seguì. Dopo 18 giorni di proteste Mubarak diede le sue dimissioni. Il primo presidente egiziano eletto democraticamente (nel 2012 ci furono le prime elezioni libere in Egitto fino a quel momento governato solo da importanti figure militari), Muhammad Mursi, legato ai Fratelli Musulmani, non riuscì comunque a risolvere i numerosi problemi economico-sociali del paese e non rinunciò neanche lui a reprimere violentemente le proteste: poco dopo il suo insediamento venne deposto dalla giunta militare guidata dal generale Abdel Fattah al-Sisi. Il sogno di un Egitto migliore, per il quale erano scesi qualche anno prima in piazza Tahrir i cittadini, si spegneva nuovamente con una decisa contro-rivoluzione e restaurazione del potere militare. Le rivoluzioni arabe sono nate da un sincero rifiuto (nonostante in alcuni paesi strumentalizzate da forze esterne) di regimi decennali, di poteri militari o di polizia, della corruzione, del nepotismo e della stagnazione politica, economica e culturale ma ad oggi le cose non sono cambiate molto e, anzi, sono probabilmente peggiorate. La maggior parte dei funzionari di polizia e servizi segreti, responsabili della repressione del 2011 tramite l’utilizzo di proiettili sulla folla, sono stati assolti dal regime di al-Sisi per “mancanza di prove”. Chiaramente al-Sisi non potrebbe condannare coloro che rappresentano (militari, polizia, servizi segreti, ecc.) la sua maggior fonte di sostegno e fedeltà, inoltre far cadere le accuse del passato significa garantire l’impunità che vediamo nel presente tramite le migliaia di giovani torturati, le persone scomparse e le carceri egiziane affollate di prigionieri politici(attualmente circa 60 mila) attraverso quelli che Amnesty definisce dei chiari processi-farsa(con le frequenti accuse di “spionaggio”, “terrorismo”, “minaccia alla sicurezza internazionale”, “diffusione di notizie false” ecc.). Lo stesso Mubarak, accusato di aver ammazzato i civili durante le proteste del 2011 e condannato all’ergastolo nel giugno del 2012, è stato completamente assolto nel Novembre del 2014.

Il regime di al-Sisi ha creato un sistema repressivo e di censura decisamente più all’avanguardia rispetto a quello dell’era Mubarak. Il controllo governativo è presente ovunque ed arriva fino ai social dove è severamente proibita la propaganda anti-regime, pena multe colossali e detenzione. Si tratta della cosiddetta legge contro le “fake news” varata nel 2018 che può colpire anche chi scrive un semplice post critico. Lo stesso Patrick Zaki ha conosciuto in prima persona questa legge liberticida che ricorda molto da vicino le leggi vigenti nelle petrol-monarchie del Golfo (in Arabia Saudita così come in Bahrein in cui ad esempio è bastato un tweet dell’attivista Nabeel Rajab contro i massacri in Yemen per essere rinchiuso per anni in prigione). Inoltre mentre col governo di Mursi c’era stata una maggior apertura e umanità - che rispecchiava anche il volere popolare - verso i palestinesi e, in particolare, la confinante Striscia di Gaza a cui venivano dati aiuti alimentari e sanitari estremamente necessari a causa del criminale embargo militare israeliano; con al-Sisi c’è stata una totale chiusura culminata con la recente costruzione tra l’Egitto e la zona sud della Striscia di Gaza di un muro costruito in cemento armato, alto sei metri e circa altri cinque metri sotto terra. Non sono rari i casi in cui i militari egiziani sparano ai pescatori gazawi che entrano inavvertitamente nelle acque territoriali egiziane. Pochi mesi fa, ad esempio, i giovani fratelli Mahmoud e Hassan al Zaazou (ed un terzo fratello ferito e trattenuto nelle carceri egiziane), sono stati uccisi da raffiche sparate da motovedette egiziane mentre erano intenti alla pesca.

Eppure il regime di al-Sisi non è oggetto di dure critiche internazionali in quanto le sue politiche economiche sono fortemente assoggettate ai prestiti e alle richieste neoliberiste del Fondo Monetario Internazionale, dunque non scomode all’Occidente(ad esempio i tagli ai sussidi statali - soprattutto alimentari - su cui contavano oltre 70 milioni di persone). Tali politiche anti-popolari non fanno altro che aumentare la disparità sociale tra i poveri che ne subiscono il peso e l’elite al potere che, invece, continua ad arricchirsi.

Le proteste del 2011 rimangono un ricordo amaro in quanto un sogno di cambiamento non realizzato, un sogno in cui la popolazione non ha mai smesso di sperare, per una vita di dignità e di pace.

Foto © Ahmed Abd El-Fatah

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