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Un grande personaggio storico capace di ribaltare un intero sistema basato sul razzismo e la segregazione. Non un eroe, ma un uomo che - con i suoi pregi e i suoi difetti - ha cercato in ogni modo di liberare il suo popolo, la sua gente, dall'apartheid. Ricorre oggi, 5 dicembre, l'anniversario della morte di Nelson Mandela, rivoluzionario prima e poi - dal 1994 al 1999 - Presidente del Sudafrica. Una vita spesa per salvare il popolo dalla segregazione razziale, nella convinzione che tutte le etnie potessero convivere in pace e amore, rispettandosi e mettendo in atto la giustizia, quella giustizia per il popolo, non per un potere avido, dittatoriale ed egoista.

“Detesto il razzismo, perché lo considero qualcosa di barbaro, sia che provenga da un uomo di colore o da un uomo bianco”, diceva. Un vero e proprio esempio e insegnamento di vita. Nonostante il regime dell'apartheid lo avesse condannato all'ergastolo, trasformato poi in 27 anni di prigione, “Madiba” - così lo chiamava la sua tribù di appartenenza - rimase convinto che l'unione fosse l'unico modo per ricostruire lo Stato sudafricano, nel nome della fratellanza.

Infanzia e gioventù di un ribelle
Nelson Mandela nacque il 18 luglio 1918, nel villaggio di Mvezo, in una famiglia reale appartenente alla tribù Thembu che insieme ad altri gruppi, contribuiva a formare l'etnia Xhosa, di origine bantu. Il nome originario dell'ex-Presidente era "Rolihlahla", il cui significato è “attaccabrighe”, “colui che causa guai”. Decisamente un nome azzeccato. La sua vita è stata infatti una ribellione continua, una lotta contro la segregazione razziale.

Nelson, di derivazione inglese, era il nome che gli fu dato alle elementari, il primo giorno di scuola, come accadeva sempre in Sudafrica alle persone appartenenti ai popoli originari. Passò una felice infanzia, e, quando morì suo padre, Nelson fu affidato a Jongitaba, che divenne suo tutore. Mandela è sempre stato un amante della democrazia e del libero pensiero, amava infatti ascoltare le opinioni delle persone. Successivamente, dopo aver passato gli esami, venne ammesso all'institute Clarkebury, un'alta istituzione scolastica per gli africani, un liceo magistrale che offriva anche altri vari corsi di tipo pratico. A 19 anni venne mandato allo Wesleyan College di Fort Beaufort e nel 1939 riuscì ad essere ammesso alla Fort Hare University, l'Università più prestigiosa del Sudafrica. Qualche anno dopo, nel 1943, partecipò ad una marcia di protesta, organizzata a sostegno del boicottaggio degli autobus, contro l'aumento delle tariffe. Quel giorno c'erano circa 10.000 persone. Questo evento fece nascere nel giovane Nelson l'interesse per la politica. Era l'unico africano iscritto alla facoltà di giurisprudenza, tanto che nessuno voleva sedersi vicino a lui e molti professori gli consigliarono di continuare a seguire i corsi e gli studi per corrispondenza. Fu in questa situazione che Nelson cominciò a diventare amico di ebrei, indiani, comunisti, tutta gente pronta a sacrificarsi per la causa degli oppressi e per ottenere la libertà. Crebbe sempre di più in Madiba il desiderio di combattere il sistema segregazionista, la politica dell'apartheid, e nel 1944 fu co-fondatore della Lega giovanile dell'ANC (African National Congress, il più importante partito Sudafricano). Si può dire che queste esperienze costituirono la goccia che fece traboccare il vaso, un vaso contenente forza, voglia di libertà e giustizia. Le proteste, non violente, continuarono, e i manifestanti venivano violentati, massacrati e uccisi, nonostante fossero pacifici. In Nelson cambiò qualcosa. Cominciò a pensare che la resistenza passiva e pacifica non potesse essere efficace se dall'altro lato i poliziotti e i segregazionisti rispondevano sempre con la violenza, una violenza che da troppo tempo stava andando avanti.


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Firenze 2019. Il murales "Nelson" dedicato a Nelson Mandela, realizzato dallo street artist Jorit © Imagoeconomica


La lotta all'apartheid
Tutto era un crimine sotto il regime dell'apartheid: occupare un posto riservato ai bianchi, andare su un pullman riservato ai bianchi, usare un bagno riservato ai bianchi, e anche essere disoccupati. Tutto era un crimine, ma non lo era chiudere in zone “ghetto” il popolo sudafricano, nero, e originario del Sudafrica. Un po' come se qualcuno entrasse in casa nostra e ci ordinasse di andarcene, così, senza nessun motivo. Mandela quindi, e l'ANC, decisero di porre in atto sabotaggi a centrali elettriche e centri di comunicazione, una forma di protesta violenta, certo, ma che recasse il minor danno possibile alle persone, sebbene Madiba e i suoi compagni fossero restii all'uso della violenza. Il tempo passò, e Mandela si trovò costretto ad affrontare vari processi. Il motivo? Istigazione alla violenza e altre accuse infondate. Tutte queste situazioni portarono Madiba a fondare, insieme ad altri compagni dell'ANC, l'MK, l'ala militare dell'African National Congress, a seguito del massacro di Sharpeville, dove la polizia aprì il fuoco sulla folla di manifestanti pacifici, uccidendo ben 70 persone, incluse 8 donne e 10 bambini. La polizia continuò a sparare anche quando i manifestanti cercarono di scappare. Molte vittime infatti furono colpite alla schiena.

Il 1° di aprile, le Nazioni Unite condannarono ufficialmente le azioni del Governo sudafricano compiute in questo massacro.

Nel 1962 Mandela venne arrestato, una seconda volta, per aver organizzato manifestazioni e per essere uscito dal paese senza l'autorizzazione delle autorità, subendo una condanna di 5 anni di carcere. Nel mentre la polizia arrestò importanti capi dell'ANC, accusandoli di alto tradimento. Mandela fu imputato anche in questo processo, e accusato di sabotaggio e altri crimini. Non venne condannato a morte, ma passò 27 anni in carcere, in durissime condizioni. In questi anni morì anche il suo primogenito. Uscito dal carcere collaborò con l'allora Presidente in carica de Klerk, per poi diventare egli stesso Presidente del Sudafrica nel 1994. Il 27 aprile 1994 ci furono le prime elezioni non razziali e a suffragio universale del paese, in cui finalmente il popolo nero potè recarsi alle urne per votare. Ovviamente la destra bianca considerò le elezioni un tradimento, ma con il 62,6 % dei voti nazionali, il potere venne consegnato alla maggioranza nera. Nelson Mandela fu il primo Presidente nero della storia del Sudafrica.

Nessun uomo è perfetto, tutti sbagliamo, anche Mandela, sebbene vinse nel 1993 il Premio Nobel per la Pace. Per esempio, potremmo non condividere gli atti di violenza e di sabotaggio, ma dovremmo osservare il contesto in cui viveva non solo l'ex Presidente “Madiba”, ma lo stesso popolo sudafricano e altre minoranze etniche, come gli indiani.

“Apartheid” significa “partizione”, “separazione”. Difatti, questa era la politica della segregazione razziale, messa in atto dagli afrikaner, i coloni soprattutto di origine inglese, olandese, francese e tedesca, e subita dai popoli neri. In quel periodo i popoli originari venivano addirittura deportati in territori a loro riservati, dei territori ghetto. Erano vere e proprie riserve, discariche, piene di criminalità, dove non era scontato che un bambino potesse arrivare all'età adulta. Persone appartenenti a diverse riserve non potevano vedersi ed erano disperati. Una situazione inimmaginabile. Famiglie divise, la sofferenza della fame, la paura costante di essere attaccati o da militari bianchi o addirittura da altri sudafricani costretti a stare in quei territori terribili. I popoli originari del Sudafrica erano privati di tutto, di ogni diritto politico e civile e ovviamente i bianchi avevano sempre la precedenza sui neri.

Questi pochi dettagli sulla situazione di apartheid dell'epoca aiutano molto a valutare le azioni di Mandela, errori compresi, in modo diverso e con una visione più ampia.


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La statua di Nelson Mandela di fronte all'ambasciata sudafricana in costruzione, Washington, DC, Stati Uniti d'America. Scatto realizzato in occasione della Giornata mondiale contro l'AIDS 2013 © Flickr/Ted Eytan


L'apartheid oggi
Oggi regimi di Apartheid sono ancora presenti nel mondo, nonostante gli sforzi enormi di persone come Mandela, o come Gandhi, per citarne un altro. Negli USA è risaputo che i nativi d'America sono rinchiusi nelle riserve, o comunque sono costretti a vivere in condizioni davvero disdicevoli. Questa è la medesima situazione in cui si trovano i Mapuche in Sud-America, oppressi da poteri grandissimi, come i Benetton. Altra situazione emblematica, degna di nota, è quella del popolo palestinese, oppresso dalla politica segregazionista d'Israele. Il popolo palestinese è confinato ancora oggi in un'enorme “gabbia a cielo aperto”, in cui i palestinesi vengono arrestati senza motivo, uccisi senza motivo, e nonostante questo continuano a lottare tutti i giorni, dando al mondo intero un grandissimo insegnamento di forza di volontà e speranza. Ieri è stato ucciso Ali Ayman Nasr Abu Aliya, di soli 13 anni, da un militare israeliano.

Questi sono solo tre esempi. Non dimentichiamoci del razzismo, poiché anche esso è molto presente ancora oggi, e questo è evidente, in tutto il mondo, nessun paese escluso. Infine occorre ancora menzionare un altro grande fenomeno odierno, lo sfruttamento dei popoli ritenuti inferiori.

La Francia che sfrutta le risorse africane da decenni e che tiene sotto scacco grazie ad una schiavitù di tipo finanziario 14 Stati del continente africano mi sembra un esempio lampante. Anche lo sfruttamento minorile è un grave problema della società di oggi, come quello dei bambini che lavorano nelle miniere per estrarre il coltan (indispensabile per i nostri smartphone e computer) nel Congo. Oggi noi dobbiamo opporci all'apartheid, al razzismo e allo sfruttamento dei popoli. Ci definiamo esseri dotati di un'etica? Che etica è sfruttare e uccidere? Dove crediamo di poter arrivare andando avanti così?

“In Africa esiste un concetto noto come Ubuntu, il senso profondo dell'essere umani solo attraverso l'umanità degli altri; se concluderemo qualcosa al mondo sarà grazie al lavoro e alla realizzazione degli altri”. Questa è una spiegazione di Mandela sull'etica, sull'ideologia “Ubuntu”, basata sulla lealtà e sulle reciproche relazioni tra le persone. “Ubuntu”, in lingua Bantu, significa “benevolenza verso il prossimo”. Secondo questa filosofia, l'umanità sarebbe collegata tramite un legame universale di scambio che la unisce interamente. "Umuntu ngumuntu ngabantu”, cioè "io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo”. Oggi non abbiamo sconfitto l'apartheid. Oggi continuiamo a vivere nell'illusione di aver sconfitto l'apartheid. Non abbiamo imparato niente, o quasi niente dalla storia e dagli errori commessi in passato. “Non giudicatemi per i miei successi, ma per tutte le volte che sono caduto e sono riuscito a rialzarmi”. Mandela pronunciando questa frase l'aveva detto. Dobbiamo ricordarci di tutte le vittorie del passato, ma forse ancora di più dovremmo ricordarci degli errori che sono stati commessi, così da non commetterli di nuovo. Madiba fece i suoi errori, perché anche lui era un essere umano, e come essere umano non era perfetto, e ha dovuto anche scendere a compromessi discutibili per cercare di salvare il Sudafrica. La vera grandezza sta proprio nel riconoscere gli sbagli fatti, con umiltà, e migliorare, sempre di più. Il primo passo verso un mondo di pace, amore e giustizia è prendere in mano la propria vita, assumersi le proprie responsabilità e non porsi limiti. Ora esistono gli aerei, ma in passato volare era ritenuta una cosa impossibile. Quando si trovava in carcere Mandela trovò forza, nella speranza di poter essere un giorno libero, in una poesia del poeta inglese William Ernest Henley: “Invictus”, scritta nel 1875. In essa si legge: “Sono il padrone del mio destino: io sono il capitano dell'anima mia”. Un concetto che ogni persona che lotta per il cambiamento, pronto a dare la vita per la giustizia e l’uguaglianza tra i popoli, dovrebbe tenere a mente. Nella speranza che potremo essere sempre più numerosi.

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