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Reportage
di Margherita Furlan

Dopo un lungo volo notturno, gli occhi ancora impastati di sonno e il fiato corto di chi si deve abituare ai 2.500 metri di altitudine di Addis Abeba, la procedura per ottenere il visto si fa farraginosa. Nell’attesa in aeroporto, passando da una scrivania a un’altra, fa capolino una pila di libricini tascabili dal titolo quanto mai altisonante: “The Ethiopian Human Rights Landscape in the Context of Right-Based Approach to Development” (Il panorama dei diritti umani in Etiopia nel contesto di un approccio allo sviluppo basato sui diritti). Incuriosita, mi ridesto dal torpore e inizio a leggere le 166 pagine della pubblicazione, scritte in un inglese forbito e a tratti ricco di enfasi. Sono sufficienti le prime parole per capire il tono del libercolo: “Lanciare contro l’Etiopia accuse di sistematiche violazioni dei diritti umani è oramai un tratto distintivo del minestrone composto da fin troppo zelanti Ong e dai think tank internazionali”, che vorrebbero ostinatamente rendere lo Stato subalterno al libero mercato. Gravissimo errore, ci ammoniscono gli autori, perché proprio l’interventismo statale sarebbe fonte di benefici per l’intera popolazione etiopica. Le cifre degli indicatori di sviluppo starebbero a dimostrarlo. Ma le cifre, spesso, non dicono tutto. Tantomeno la verità. Intanto, tra giovani donne etiopi che con umiltà e riverenza osservano le movenze delle persone bianche come venissero da un'altro pianeta, il tempo passa. Forse non c’è tanta voglia di far gironzolare in Etiopia giornalisti stranieri. Tutto sommato perché questa cocciutaggine nel voler andare a visitare la valle dell’Omo?

Che cos’ha di tanto speciale la valle dell'Omo?
Ci arriviamo con una jeep che a fatica s’insinua tra roccia e fango: la generosa terra rossa dell’antica Sacra Alleanza oggi trasuda fatica, dolore, abbandono, pur mostrandosi in tutta la sua straripante bellezza primigenia. La regione, un’immensa distesa di 25mila chilometri quadrati, è così chiamata per l’omonimo fiume che l’attraversa. La valle è caratterizzata da una molteplicità di ecosistemi, culture e lingue. La maggior parte del territorio è arido ed è considerato per lo più inospitale.
Gli abitanti, circa 700mila persone, appartengono ad almeno 16 distinti gruppi etnici che hanno mantenuto fino a oggi uno stile di vita tradizionale. Il fiume Omo, che attraversa i parchi nazionali Mago e Omo, è la principale risorsa per la popolazione locale. E’ una sterminata riserva d’acqua che scorre per più di 700 chilometri, dagli altipiani di Shewan alle sponde settentrionali del lago Turkana. Nel 1980 il suo bacino è stato inserito nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco per la sua particolare importanza geologica e archeologica. Il fiume, lì, ancora oggi, rappresenta la vita stessa. L’esondazione annuale dell’Omo costituisce il momento chiave per la pratica dell’agricoltura di recessione, legata all’utilizzo del fertilissimo limo lasciato sulle sponde quando il fiume si ritira tra settembre e ottobre. Mentre l’allevamento estensivo di bovini, capre e pecore offre il sostentamento agli abitanti, specialmente quando la pioggia latita e i raccolti vengono a mancare. Il valore dei capi di bestiame è dunque considerevole, anche perché questi costituiscono la dote per le spose.


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Ma, a partire dal 2012, nella stampa internazionale iniziano a circolare notizie allarmanti. Secondo le informazioni, che escono non senza difficoltà dal Paese, nella valle dell’Omo il governo etiope sarebbe responsabile di arresti arbitrari e di violenze diffuse nei confronti delle comunità della zona. Obiettivo: fare spazio all’implementazione di piani d’irrigazione su larga scala, funzionali alle piantagioni agroindustriali. I mass media descrivono una catastrofe umanitaria, scatenata da uno dei più feroci accaparramenti di terre mai visti in Africa.

Andiamo a verificare
Da alcuni anni nella Valle dell’Omo operano numerose compagnie che portano avanti grandi progetti agroindustriali attraverso attività che compromettono l’accesso alla terra delle comunità della Valle. Tra questi, la piantagione governativa di canna da zucchero Omo-Kuraz Sugar. Attualmente ricopre 150mila ettari di terreno ma presto potrebbe fagocitare un’area vasta 245mila ettari. Per fare spazio al progetto, le autorità hanno sfrattato dalle loro case ancestrali e dalle loro terre i Bodi, i Kwegu, i Suri e i Mursi, trasferendoli in campi di reinsediamento. I Kewgu, in particolare, denunciano di soffrire la fame a causa dell’allontanamento dalle loro mandrie e del sistema di irrigazione delle piantagioni, che sta prosciugando il fiume. La compagnia statale dello zucchero ha dichiarato di aver stanziato circa 79 milioni di birr in infrastrutture, l’equivalente di 2 milioni di euro. Scuole, presidi sanitari, mulini e accesso all’elettricità però non sono mai stati realizzati, a quanto vediamo. Di grande impatto invece sono i progetti di coltivazione di palma, jatropha, cotone e mais, di cui necessita il ricco Occidente per produrre biocarburante.


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Protagonisti la compagnia turca Omo Valley Farms Cooperation, l’indiana Whitefielf Cotton Farm, l’italo-etiope OMO Ethio Renewable Energy e l’etiope Sisay Tesfaye Agro Processing. Tra le coltivazioni, spiccano però quelle dell’italiana Fri-El Green, che, operativa dal 2007 tramite la sua sussidiaria locale Fri-El Ethiopia Farming and Processing, ha ottenuto in concessione 30mila ettari di terreno tramite un contratto di affitto siglato con il governo etiope del valore di 1,7 milioni di birr all’anno (ovvero 2,5 euro all’ettaro) e della durata di 70 anni. Ma quella terra era precedentemente utilizzata per diversi usi comunitari. Si tratta di foreste naturali, pascoli estensivi, terreni a uso agricolo, zone per l’insediamento umano. Ciò nonostante, nel centro abitato chiamato Jinka nel 2015 alcuni rappresentanti del governo non ebbero timore a dichiarare: “La terra concessa agli investitori privati è libera da vincoli e non è richiesto loro di pagare alcuna compensazione perché le comunità della zona non la utilizzano per i propri scopi.”

Diritti umani?
L’azzeramento delle terre dedicate al pascolo, passa, in modo diretto e indiretto attraverso i programmi di villaggizzazione forzata e di sedentarizzazione delle comunità pastorali, ed è oramai l’imperativo per la modernizzazione dell’agricoltura. Le popolazioni indigene della valle hanno così visto cambiare il loro stile di vita, costrette ad abbandonare la vita nomade, le attività economiche tradizionali e la raccolta delle erbe medicinali. I granai delle comunità e i loro preziosi pascoli sono distrutti. I pascoli e le terre agricole sono ora trasformate in piantagioni industriali. Chi si oppone al furto delle proprie terre viene sistematicamente picchiato e confinato in prigione. Numerose le denunce di stupro e persino di uccisione degli indigeni da parte dei soldati etiopi. A metà del 2014, il governo ha sferrato una violenta operazione militare nei woreda (piccoli distretti amministrativi) di Salamago e Hamar, al fine di identificare gli oppositori al progetto Omo-Kuraz. Alcuni anziani della zona ci dicono che, in quell’episodio, sono morti più di 45 pastori Mursi e 39 Bodi mentre erano al pascolo con le loro greggi. Molte persone sono state cacciate via e i loro animali sono stati rubati dai soldati. Successivamente, dal febbraio 2015, più di 120 persone sono state uccise mentre 265 sono state arrestate. Tre giovani Mursi scolarizzati, che avevano svolto il ruolo di rappresentare le loro comunità all’interno dei woreda, sono stati licenziati con l’accusa di aver fomentato la protesta contro i programmi di reinsediamento. Secondo i racconti degli abitanti del woreda Hamar, a metà del luglio 2015 più di mille pastori locali sono stati massacrati dalla polizia federale e molti altri sono stati feriti. Ad oggi persistono tensioni crescenti che sfociano spesso in scontri violenti. Le tribù cercano di resistere così al programma di villaggizzazione, che ritengono finirà per snaturare completamente la loro cultura e il loro sistema tradizionale di sussistenza. Mentre le promesse di posti di lavoro si sono materializzate solo in parte, perlopiù con contratti stagionali e mal retribuiti. Un uomo della città di Omorate ha raccontato: “Lavoro per un’impresa e non riesco neppure ad aiutare mio figlio. In qualità di addetto alla sicurezza guadagno 200 birr (8 euro) al mese”.


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Sviluppo per chi?
La grande svolta per l’Etiopia avviene nel 2015, quando il FMI inserisce il Paese nella lista delle cinque economie con i tassi di crescita più elevati al mondo, permettendo così al governo di Addis Abeba di varare il piano quinquennale 2016-2020 attualmente in vigore, il Growth and Transformation Plan (GTP II), che da priorità alle esportazioni della manifattura, in particolare agro-industriale e tessile, e all’infrastrutturazione, produzione e distribuzione di energia da fonti diversificate. Il settore privato funge da volano e viene incoraggiato dal governo ad aumentare il suo contributo negli investimenti in agricoltura. Nasce così il Productive Safety Net Programme (PSNP), un’iniziativa multi-donors guidata dalla Banca Mondiale e cofinanziata dalla Commissione europea. Il PSNP consiste in un programma di cash for work, ossia donazione di denaro contante alle famiglie più vulnerabili in cambio di lavori di pubblica utilità, ma viene subito accusato da Human Rights Watch di foraggiare l’élite governativa e di creare le condizioni per discriminare gli oppositori alla distribuzione dei fondi. Un abitante della Valle dell’Omo ci racconta che, pur partecipando al programma PSNP, “vengono dati soldi o viene distribuito cibo solo se si accetta il piano di reinsediamento voluto dal governo”. Così, prima gli aiuti alimentari nella regione erano frequenti, oggi sono diminuiti, in alcune zone addirittura cessati. I donatori internazionali si difendono dichiarando che i fondi sono serviti a pagare gli stipendi di medici e insegnanti, ma secondo gli abitanti della Valle “il problema fondamentale è che nessuno di questi servizi viene garantito, a meno che le persone non accettino i programmi di villaggizzazione. I fondi vengono impiegati per pagare la costruzione di scuole, centri medici, strade e infrastrutture idriche nei nuovi villaggi reinsediati e per implementare programmi agricoli rivolti alle persone reinsediate, nonché a pagare gli stipendi dei funzionari distrettuali che hanno il compito di realizzare i piani di villaggizzazione.” Ci appare oramai molto chiaro che il vincolo tra i fondi e la sedentarizzazione forzata è quindi diretto e non tiene in considerazione la storia, le abitudini, le tradizioni, i sentimenti dei popoli che qui hanno da sempre vissuto. Almeno fino ad ora.

“Sistema Italia”
Nell’ultimo decennio la Valle dell’Omo ha molto attirato le attenzioni dell’Italia. A cominciare dal 2004, quando la Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo della Farnesina approvò (in condizioni a dir poco controverse) il più grande credito d’aiuto mai erogato nella storia del fondo rotativo per lo sviluppo. Furono stanziati 220 milioni di euro per la costruzione della contestata diga Gibe II proprio sul fiume Omo. Successivamente, nel luglio del 2006, il governo etiope affidò alla società italiana Salini Costruttori, oggi Salini Impregilo - che si era già aggiudicata la costruzione delle dighe Gibe I e Gibe II -, la realizzazione del più grande progetto idroelettrico mai concepito in Africa, la diga Gibe III: un salto di 240 metri e una potenza di 1870 MW, per un costo complessivo di 1,4 miliardi di euro. Il contratto fu concluso senza una gara d’appalto, in violazione delle leggi etiopi, che permettono la trattativa diretta solo in casi d’imprevedibile urgenza. Come allora aveva sottolineato il periodico in lingua amharica “Reporter”, era stata la stessa Salini, “di sua iniziativa e a sue spese, a disegnare e a presentare al governo etiope il progetto”. Al ministero degli Esteri di Addis Abeba, dove la compagnia italiana si era rivolta per negoziare il suo contratto, la versione adottata per suffragare la fattibilità dell’opera non avrebbe potuto essere null’altro che questa: “La costruzione di una diga è urgente in un Paese gravemente carente dal punto di vista delle risorse energetiche, com’è l’Etiopia”. Addis Abeba accettò. Ma non si può non notare che tuttora gli unici contratti a trattativa diretta in Etiopia riguardano la Salini Impregilo. Tutti gli altri progetti idroelettrici, perfino la diga di Tekeze costruita dai cinesi, sono stati oggetto di gara d’appalto. I lavori della Gibe III iniziarono subito, senza nemmeno le valutazioni d’impatto ambientale e sociale. L’Authority etiope per la protezione dell’ambiente (EPA) approvò retroattivamente le valutazioni solo nel luglio 2008, con quasi due anni di ritardo, e nonostante gli studi fossero stati effettuati esclusivamente dall’agenzia milanese CESI, per conto dell’azienda energetica etiope EEPCo e della società costruttrice Salini. Pubblicati in versione definitiva nel gennaio 2009, i risultati erano saldamente favorevoli al progetto: prendevano infatti in considerazione solamente il bacino a monte della diga, ignorando completamente l’impatto a valle. Gli studi della CESI forse erano diversi da quelli effettuati dalla Banca Africana di Sviluppo (AfDB) che, nel 2010 rese noto di non essere più interessata a finanziare Gibe III; differentemente dalla Industrial and Commercial Bank of China (ICBC) - la più grande banca cinese - che ha finanziato parte della costruzione della diga, e dalla Banca Mondiale che ha stanziato i fondi per le linee di trasmissione dell’energia.
In Italia però il nucleo tecnico della Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo della Farnesina, prima dell’erogazione del credito da parte italiana per la costruzione della diga Gibe II, aveva espresso parere negativo, rilevando l’anomalia dell’affidamento del contratto a trattativa diretta - fatto non conforme nemmeno alle procedure previste né dalla normativa italiana, né da quella dell’Unione Europea -, oltre che l’assenza di uno studio di fattibilità, la mancanza di previsione dei costi delle misure di mitigazione d’impatto ambientale, l’insufficiente attenzione alle procedure di gestione e controllo del contratto, ma soprattutto il tasso di concessionalità del 42,29%, assolutamente non in linea con la situazione di criticità debitoria dell’Etiopia. Cosa del resto su cui si era espresso anche il ministero dell’Economia e delle Finanze, esplicitando forte preoccupazione per un prestito di tale portata concesso a un Paese HIPC (Heavily Indebted Poor Countries). L’Italia, infatti, al momento dell’approvazione del prestito, era in procinto di cancellare all’Etiopia 332,35 milioni di euro di debito bilaterale. In effetti la cancellazione fu ratificata, ma nel gennaio del 2005, esattamente tre mesi dopo aver reindebitato il Paese per una cifra di poco inferiore. Nonostante l’Italia sia più volte stata ammonita dall’OCSE per la cattiva abitudine dei cosiddetti “aiuti legati” (ovvero condizionati alla fornitura di beni e di servizi di provenienza italiana), tale architettura in questo caso si spinse ben oltre, rappresentando un vero e proprio aiuto commerciale camuffato da aiuto allo sviluppo contro la povertà. Così nel gennaio del 2007 la magistratura di Roma aprì un procedimento penale a carico del ministero degli Affari Esteri. Ma nessun ufficiale giudiziario fino ad oggi ha mai varcato gli uffici della Farnesina per verificare i documenti. Contemporaneamente, la Campagna per la riforma della Banca Mondiale (CRBM), avviò un’indagine in Etiopia per fare luce sull’intera questione. Ne scaturì un dossier con interviste a pubblici ufficiali, esponenti delle comunità locali e persino del mondo accademico. Lo scandalo fu talmente grande e così palese che la Banca europea per gli investimenti negò un finanziamento di 50 milioni di euro per la costruzione della Gibe III, ufficialmente per i rischi ambientali, più verosimilmente per la posizione scomoda già assunta con il prestito gemello concesso per la realizzazione della Gige II. In Italia, invece, pochi mesi dopo, l’ex-direttore generale della Cooperazione allo sviluppo, Giuseppe Deodato, venne promosso per meriti guadagnati sul campo e mandato a fare l’ambasciatore in Svizzera, mentre il nuovo esecutivo (guidato da Romano Prodi e non più da Silvio Berlusconi) aprì alla possibilità di bissare, con un nuovo prestito per la diga Gibe III, senza dimenticarsi di approvare 12 milioni di euro per il completamento della diga di Bumbuna, in Sierra Leone, un altro buco nero a marchio Salini. L’Africa è una terra ricca, ma non certo per gli africani.


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Cooperazione o profitto economico?
Il caso degli impianti idroelettrici Gibe fornisce interessanti spunti di riflessione sullo stato allarmante della cooperazione italiana, sulla debolezza delle istituzioni europee, sul connubio di interessi tra Paesi dalla democrazia difettosa o poco trasparente (in Etiopia come in Italia), e solleva al tempo stesso molte domande sull’operato delle nostre aziende nei Paesi africani. Poco importano le forti limitazioni dei diritti civili imposte dai governi etiopi; intorno alla Salini e alla storia di Gibe e delle altre dighe africane si muove evidentemente, come in una sorta di gioco di scatole cinesi, un indotto di società italiane, e non solo, che si scambia contratti, consulenze, appalti, personale. Nel 2015 l’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, in visita ad Addis Abeba, definiva la diga Gibe III un “orgoglio italiano”. Non rimembrava che qualche anno prima un’allora giovane deputata del Partito Democratico, di nome Federica Mogherini, aveva chiesto lumi al governo, allora guidato da Silvio Berlusconi, sul perché si dovessero stanziare soldi pubblici per “ulteriori 250 milioni di euro per il progetto Gibe III, per il quale permanevano molte delle obiezioni già avanzate in occasione del finanziamento del Gibe II nei rispettivi pareri del ministero dell’Economia e delle Finanze, e del Nucleo tecnico di valutazione della Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo”.
L’Etiopia ospita una popolazione stimata in 110 milioni di persone e il PIL del Paese, nonostante la crescita tra il 2005 e il 2016 a tassi medi annui di oltre il 10%, sfiora i soli 783 $ pro capite. La produzione e la distribuzione dell’energia elettrica sono gestite dalla Ethiopian Electric Power Corporation (EEPCo), società commerciale interamente di proprietà dello Stato, che, nonostante un piano energetico nazionale molto aggressivo, allaccia alla rete elettrica meno del 6% della popolazione. La domanda annuale di energia non supera, nella fase di picco, i 600 MW. Che l’Etiopia con gli sbarramenti sull’Omo e con la Grande Diga del Rinascimento sul Nilo Azzurro voglia diventare il principale esportatore di energia idroelettrica dell’Africa - vendendola a Kenya, Gibuti e Sudan - è fuori di dubbio dunque. Così come è un dato oggettivo che della realizzazione di tutte questa opere mastodontiche si sia occupata, se ne sta occupando e se ne occuperà solamente l’italiana Salini Impregilo. D’altronde l’ufficio di cooperazione in Etiopia è il più grande sul quale l’Italia può contare in giro per il mondo, se si eccettua l’Afghanistan, e a partire dal 2016 è entrata in gioco anche l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (AICS) a cui s’intende concedere un margine d’azione maggiore.


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Così si muore
La diga più grande d’Africa è stata completata e il governo etiope ha iniziato a riempire il bacino della diga nel 2015, mettendo così fine alle esondazioni naturali del fiume. Nello stesso anno non sono state rilasciate esondazioni artificiali, mentre quelle rilasciate nel 2016 sono state troppo ridotte per ridare un sostentamento seppure minimo alle coltivazioni delle tribù locali. La diga ha infatti sbarrato il corso centro-settentrionale dell’Omo e ha causato sia la riduzione del flusso del fiume che l’abbassamento del livello del lago Turkana, in Kenya, di circa due terzi, distruggendo così anche le riserve ittiche. Il drastico abbassamento del livello del lago potrebbe ora compromettere irreversibilmente le possibilità di sostentamento di almeno 300mila persone tra cui i Turkana, i Kwegu e i Rendille, che dal lago dipendono per la pesca e per l’acqua potabile. Si troveranno senza più nulla. 9Vista l’emergenza, nel giugno del 2018, l’UNESCO ha quindi inserito il Lago Turkana nella lista dei Patrimoni dell’Umanità in Pericolo. I raccolti infatti sono meno rigogliosi e la riduzione dei campi utilizzabili per il pascolo porta le tribù a coprire lunghe distanze alla ricerca di terreni migliori e d’acqua per gli animali. Donne e bambini sono costretti a percorrere a piedi circa 40 chilometri al giorno - rischiando lo scontro con i camion che corrono con la canna da zucchero nei container - per raccogliere l’acqua dell’Omo, che comincia a ridursi drasticamente. Gibe III, come le altre dighe realizzate dal Gruppo nel Paese “trasformerà l’acqua in energia pulita, creando non solo relazioni commerciali pacifiche con i paesi confinanti, ma anche portando l’energia nei villaggi e migliorando le condizioni di vita della popolazione”, asseriva la Salini Impregilo nel 2015. Dichiarazioni che oggi contrastano persino con quelle del plant manager che, convinto, ha affermato ai nostri microfoni: “Questa centrale elettrica non ha alcun effetto sulla comunità, perché si tratta di una zona di bassa quota. È una valle, è una zona di malaria, nessuno viveva qui prima.”


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Quindi la comunità è contenta? “Certamente, ha ribattuto il giovane ingegnere, ora la gente sta bene, può pescare sfruttando diverse correnti. C’è solo una cosa che è cambiata: l’agricoltura è vietata! Possono usare le montagne! Ma vicino al fiume è vietata”. Quasi fosse un dettaglio.
Secondo i dati diffusi dall’amministrazione di Salamago, il bacino artificiale creato dalla diga ha già aumentato l’incidenza di malattie nelle aree allagate a monte del fiume e con il completamento della costruzione della diga si comincia ad assistere a un’intensificazione della frequenza e della gravità di eventi climatici estremi. Minore disponibilità di acqua significa infatti non solo ridurre le aree coltivabili, ma anche variare l’ecosistema introducendo un lento quanto inesorabile processo di ritiro della foresta pluviale che rende, tra l’altro, le piogge meno abbondanti. I dati sono confermati da un nuovo rapporto dell’Oakland Insitute, recentemente pubblicato, che rileva: “A causa della concomitante pressione esercitata sulla terra dagli interessi agroindustriali del governo e degli investitori stranieri, le popolazioni menzionate stanno valutando l’ipotesi di una migrazione su larga scala verso le città, alla ricerca di nuove forme di sostentamento”.


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Bibala, un membro della comunità Mursi, dice che prima della costruzione della diga “la terra era piena di grano”. “Abbiamo goduto di molta acqua alluvionale dal fiume Omo e ne siamo stati felici. Ora l’acqua è sparita e siamo tutti affamati. Dopo ci sarà la morte”. Bibala ha proseguito: “Il governo ci ha detto di trasferirci nei siti di reinsediamento. Sia i Mursi che i Bodi odiavano questi luoghi e li hanno lasciati. Non vogliono stare nei siti di reinsediamento. Hanno chiesto al governo di portare loro del grano. ‘Che cosa? Non vi piacciono i siti di reinsediamento? Non vi piace andare a scuola? Non si ottiene alcun grano’ ha detto il governo, che ora ci ha lasciato senza grano”.
Davvero l’Italia, insieme al nuovo corso “democratico” dell’Etiopia, si occuperà di restituire la dignità a queste popolazioni oramai allo stremo?

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