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locandina laterradeglialbericadutidi Aaron Pettinari - Foto e Video
Intervista al giornalista calabrese autore della video-inchiesta "La terra degli alberi caduti"

"In Messico si dice che 'dagli alberi caduti, tutti fanno legna. Ed è la verità. Tutto il mondo ha abusato di noi". Le parole di Maria Herrera Magdaleno, madre di quattro desaparecidos, sono un pugno sullo stomaco che mette ognuno di noi di fronte alle proprie responsabilità. Il Messico, visto dall'Europa, appare come una terra lontana ed affascinante, fatta di spiagge paradisiache e luoghi turistici, ma se si scava in profondità storie come quella di Maria e dei suoi figli sono all'ordine del giorno. Claudio Cordova, giornalista calabrese, ha realizzato una video inchiesta (“La terra degli alberi caduti” con la regia di Antonio Morelli), per dare voce a chi non ne ha, e raccontare quei drammi che il panorama internazionale cerca di nascondere. Quarantotto minuti in cui viene messo in evidenza il dramma di una Nazione che si trova ad affrontare lo scandalo di istituzioni silenti, conniventi e complici.

Claudio come nasce l'idea di un documentario su questi temi?
Tutto è partito praticamente un anno fa quando, nel settembre 2017, sono stato invitato in Messico per un ciclo di conferenze sui temi della criminalità e del narcotraffico, ho iniziato a conoscere la drammatica situazione messicana dal racconto di alcuni parenti delle vittime. Così apprendo delle sparizioni, degli omicidi, delle violazioni dei diritti più basilari. Una storia che fin qui ha visto circa 40 mila desaparecidos e la presenza di oltre novecento fosse comuni. E' l'Università multidisciplinare "Escuela para l’Alta Justicia" a chiedermi di fare il documentario. Loro svolgono una sorta di resistenza intellettuale in un Paese dove spesso la libertà di espressione è compressa e punita. E c'era la necessità di parlare di queste cose anche all'esterno, fuori dal Paese. Per me è stata un'occasione professionale ma soprattutto un dovere morale perché dopo aver conosciuto gente che ha subito così tante ingiustizie e sentire la loro richiesta di aiuto ti senti in obbligo di dover fare qualcosa. E come giornalisti noi abbiamo la possibilità di raccontare queste storie.



Come ti sei mosso per realizzare il documentario?
Qualche mese dopo sono tornato in Messico assieme ad un cameraman. Non abbiamo alle spalle grandi finanziatori ma si tratta di un lavoro svolto come free lance, con tutte le difficoltà che questo comporta. L'Università ci ha fornito il supporto logistico, fungendo da "base" e punto di appoggio dopo ogni viaggio. In corso d'opera ci siamo lasciati anche trasportare dalle situazioni che incontravamo senza seguire itinerari standard, anche per questioni di sicurezza. Più volte i nostri "ciceroni" ci hanno chiesto di spegnere la telecamera per questo motivo.

Quali sono state le difficoltà maggiori?
Non sai mai bene di chi ti puoi fidare in certe zone. Anche lì ci sono pezzi delle istituzioni in qualche maniera deviate, specie tra la polizia che è sotto il controllo di narcos e bande criminali. E' anche capitato di doversi nascondere per non mostrare l'attrezzatura che avevamo. In piccolo abbiamo vissuto quello che tanti giornalisti messicani affrontano nel quotidiano. Giornalisti che tentano di raccontare queste vicende, casi di narcopolitica, di pezzi dello Stato direttamente coinvolti con i gruppi di criminalità organizzata. Anche delle violenze subite dai giornalisti si parla nel documentario perché il problema die "cartelli della droga" è solo un aspetto della grave situazione che si vive in Messico.

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Puoi spiegare ulteriormente questo concetto?
Non è solo una questione di criminalità organizzata o guerra tra bande. Loro controllano ogni cosa. Gli affari, la politica, le forze dell’ordine e le istituzioni, i traffici illeciti di armi, di esseri umani, venduti per poco, pochissimo, per alimentare il mercato della compravendita di organi, di donne destinate alla prostituzione, anche se bambine. E agiscono anche creando consenso sociale portando avanti una vera e propria propaganda. Ci sono video che mostrano come un certo tipo di figure sia circondato dal lusso, dalle donne, dal successo. E questo alimenta il fascino. Poi ci sono gli investimenti nelle opere pubbliche, nelle chiese, nelle abitazioni. Tutto per creare il mito. E cosa grave è che questo attecchisce anche in una certa classe intellettuale che, diversamente, dovrebbe muoversi in ben altra direzione.

Da quel che emerge, dunque, nel Paese c'è un grave problema di corruzione...
La povertà estrema in cui si vive in certe zone porta anche a questo. I cartelli della droga si muovono come le nostre mafie, operando in più settori e come Cosa nostra, 'Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona unita i narcos infiltrano le istituzioni. E per istituzioni non intendo solo la politica, che è quasi totalmente nelle mani dei gruppi criminali, ma anche le forze dell’ordine, dove il tasso di corruzione sfiora l’80% e la magistratura. Del resto cosa si può pretendere se un poliziotto guadagna appena 200 euro al mese?



Come si manifesta la convivenza delle istituzioni con la criminalità organizzata?
In vari modi. La si percepisce nella sistematica violazione dei diritti umani, nella pratica della tortura ed anche nel gioco a ribasso che viene effettuato sul tema dei desaparecidos. Il Governo parla di 35mila persone sparite. Le associazioni sostengono che il ribasso sia del 200%. Si cerca di minimizzare il fenomeno e il livello di impunità è altissimo. C'è poi il problema serio dell'assenza di una magistratura indipendente. I pubblici ministeri, i cosiddetti “fiscales”, sono di nomina governativa e rispondono in tutto e per tutto all’autorità politica. Voglio dare un altro dato. Solo lo 0,59% delle indagini termina con una sentenza, il che mostra la debolezza nell’istruzione dei fascicoli d’indagine da parte dei pubblici ministeri.
Contro il narcotraffico, poi, lo Stato non è sempre netto nella lotta. Ci sono politici di rango nazionale e locale che sono direttamente legai ai cartelli, anche con rapporti di parentela. Dal 2007 è iniziato un accenno di lotta contro questo fenomeno dando alla polizia e all'esercito pieni poteri che ad oggi non sono mai stati revocati. Ma l'entrata in vigore di questa legge ha portato alle altre degenerazioni, con connivenze e affari sotto banco.

Come vive la società civile questa situazione?
E' sostanzialmente inerme. Mancano i punti di riferimento che invece in Italia sappiamo trovare. Quando sono tornato a Reggio Calabria, dal Messico, ho subito avvertito una percezione di sicurezza che in quella terra era praticamente assente. In Italia abbiamo avuto tanti misteri irrisolti, ci sono pezzi deviati dello Stato che hanno compiuto determinate azioni ma fortunatamente sappiamo anche trovare il "bene". C'è una parte che fa da contraltare. In Messico si fa decisamente più fatica. Non sai a chi affidarti perché se c'è qualcuno che cerca di contrastare questa forma di potere viene fatto in qualche maniera tacere. Come puoi fidarti di uno Stato che non ricerca banche i corpi dei desaparecidos, spesso anche vietando alle madri ed ai parenti di farlo? Così ci sono delle minoranze che lottano e che cercando verità e giustizia. E lo stesso vale per i giornalisti. Oltre cento quelli uccisi fin qui. Un dato che ovviamente terrorizza gli altri che sono in vita che per proteggersi spesso scelgono di autocensurarsi. Per fortuna non tutti sono così.

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Parlando dei desaparecidos nel documentario paragoni il fenomeno a quella che in Italia è conosciuta come "strategia della tensione". Qual'è la similitudine che trovi?
Devo dire che ho faticato un pò anche io per comprendere questo concetto. Parlando con i genitori dei ragazzi scomparsi spesso facevo domande come "Perché l'hanno rapito?"; "Hanno chiesto un riscatto?"; "Era un regolamento di conti di qualche narcotrafficante?". Ebbene in molti casi le risposte erano sempre negative. I ragazzi sparivano senza un vero motivo e senza avere alcun tipo di legame con il mondo del narcotraffico.
Ci sono poi casi assurdi come la sparizione di 43 studenti della scuola agraria di Ayotzinapa. Hanno fatto credere che fosse una questione di guerra sporca dei Cartelli messicani ma questi non c'entrano nulla. Ci sono elementi che fanno supporre che a sequestrare e poi far sparire nel nulla questi ragazzi sia stata la polizia locale con la complicità e la copertura di quella federale e dei servizi di intelligence dell'Esercito.
Chiedersi perché accadono cose simili in uno Stato che dice di essere democratico è fondamentale. La risposta che trovo è perché si vuole mantenere lo status quo. Per questi dico che siamo di fronte ad una strategia della tensione. In Italia sono morti innocenti con stragi come quelle di Bologna per incutere terrore in tutta la popolazione. Non era solo una questione di lotta allo Stato o alle Istituzioni. Certe azioni venivano fatte per mantenere o sovvertire il potere. E in Messico c'è la stessa situazione.

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La promozione come sta andando? Ci sono in programma delle proiezioni del documentario?
E' stato già proiettato in diverse zone della Calabria ma presto lo proietteremo anche a Pavia, Milano, Prugia e Roma. Abbiamo già pre-accordi con scuole e università per le presentazioni in tutta Italia, ma auspichiamo che anche qualche network possa essere interessato alla proiezione. Chiunque voglia presentarlo e proiettarlo può scrivere a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. o contattarmi via Facebook. Far conoscere questa storia è un modo per dare giustizia a persone che sono state private degli affetti ma anche della dignità. Ed è una nostra responsabilità non voltarci dall'altra parte di fronte a questa richiesta di aiuto.

Claudio Cordova, 32 anni, è fondatore e direttore del quotidiano online “Il Dispaccio”. Ha lavorato per diverse testate calabresi, occupandosi di cronaca nera e giudiziaria e di giornalismo investigativo. Nel 2014 è stato nominato consulente esterno della Commissione Parlamentare Antimafia. Ha vinto diversi premi per l’attività giornalistica, tra cui quello del Coordinamento Nazionale Riferimenti, "Giornalismo in trincea", il premio giornalistico “Letizia Leviti” e il premio giornalistico “Arrigo Benedetti”. Fa parte della rete IRPI-Correctiv per la pubblicazione di inchieste sulla criminalità organizzata, pubblicando sul Dispaccio il versante calabrese delle vicende, e portando un grande contributo come presenza sul campo. Ha pubblicato i libri “Terra venduta. Così uccidono la Calabria - Viaggio di un giovane reporter sui luoghi dei veleni” (Laruffa, 2010) e “Il sistema Reggio” (Laruffa, 2013).

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