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rodriguez miriam elizabethdi Francesco Semprini
Dopo il rapimento e la morte nel 2012 della figlia di appena 5 anni la donna era diventata il simbolo della lotta per i desaparecidos

Miriam Elizabeth Rodriguez aveva promesso che avrebbe scovato gli assassini di sua figlia, fosse stata una delle ultime cose fatte nella vita.
E così è stato. Quegli spietati sicari al soldo dei cartelli della droga messicani sono finiti nelle mani della giustizia, ma l’epilogo della storia di Miriam è stato scritto dai loro complici a colpi di pistola. Perché la legge dei narcos è ancora la più forte in quella parte del mondo a due passi dagli Stati Uniti, nonostante gli sforzi di uno Stato che da dieci anni è in guerra contro un fenomeno difficile da arginare, anche con i muri di confine. E nonostante l’audacia di una parte della società civile che cerca di sopperire alle mancanze delle istituzioni, lottando per i nuovi desaparecidos, le vittime della lupara bianca messicana.
Proprio come la signora Rodriguez, assassinata il 10 maggio nella propria abitazione di San Fernando, nello Stato di Tamaulipas.
La sua storia, al contempo drammatica ed eroica, inizia nel 2012 quando la figlia di cinque anni, Karen Alejandra, viene rapita dai narcotrafficanti. Miriam non si ferma davanti al dolore e si attiva per cercare la piccola, rischiando la sua di vita, anche quando ha la certezza che la bimba è stata uccisa. Il cadavere viene ritrovato due anni dopo in una fossa comune clandestina, ma per "mamma coraggio" la missione non finisce. Si mette sulle tracce dei sicari, affiliati del cartello dei Los Zetas. Li trova, li insegue, e loro tentano di rapire il marito per intimidirla. Lei non molla e li fa arrestare. "Tornare alla normalità era diventato impossibile per lei - racconta Gabriela Perez, anche lei mamma di desaparecidos -. Aveva deciso di mettere coraggio, dedizione e carisma al servizio di tutti noi".
Miriam raduna genitori di vittime della lupara bianca e attivisti, dando vita a un gruppo che si dedica anima e corpo alla ricerca degli scomparsi.
I volontari studiano, si documentano, parlano con esperti, si specializzano nel riconoscimento di cadaveri, si dotano di strumentazioni per scavare ed esplorare siti archeologici talvolta usati dai narcos come fosse comuni. Il suo esempio viene seguito da altri cittadini messicani, specie dopo la scomparsa di 43 studenti ad Ayotzinapa, nello Stato di Guerrero nel settembre del 2014. Nel frattempo però uno dei sicari di Karen scappa dal carcere, e Miriam inizia a ricevere minacce forse inascoltate da chi rappresenta la legge. Il 10 maggio un gruppo di fuoco entra nell’abitazione della donna e mette a tacere per sempre la sua voce, ma non la sua crociata.
Oggi in tutto il Messico i gruppi per i desaparecidos sono almeno 13, e rappresentano la risposta della società civile a quella criminale dei narcotraficcanti, che neanche la militarizzazione delle forze di sicurezza voluta dall’ex presidente Felipe Calderón è riuscita a sradicare. E che in dieci anni di guerra hanno mietuto (secondo l’International Institute for Strategic Studies) circa 23mila morti e un numero imprecisato di altre vittime. Cifre contestate dalle autorità messicane e di fronte alle quali le Nazioni Unite non possono fare molto più che esprimere indignazione.

Tratto da: La Stampa 13 maggio 2017

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