Piano Condor: indignazione per la sentenza che solleva non pochi interrogativi
di Jean Georges Almendras
Nella viva speranza di vedere giustizia fatta e con ancora vivi i ricordi dei giorni del terrore, alcuni dei familiari dei desaparecidos dell’Uruguay hanno seguito attentamente le fasi del processo svoltosi a Roma, ma hanno avuto la inattesa e sconcertante notizia che tredici dei quattordici concittadini inputati (per la maggior parte militari) sono stati assolti. Solo Juan Carlos Blanco, ex cancelliere della dittatura, è stato condannato all’ergastolo. Una sentenza che pesa come un macigno. Un colpo basso. Dopo così tanto clamore mediatico, gli addetti ai lavori hanno detto no alla condanna e sì all'impunità, per quanto riguarda gli imputati uruguaiani. Sono invece stati condannati altri imputati di altre nazionalità. Ora, i repressori uruguaiani e le loro famiglie e parenti, festeggiano. Mentre i familiari delle vittime torturate e uccise non hanno altra scelta che lottare ancora e ricorrere in appello, cercando di non smarrire la strada né la fiducia nella giustizia degli uomini. Ma delle domande sorgono spontanee: esiste la giustizia degli uomini con G maiuscola?
Il processo in sé aveva generato molte aspettative e la sentenza è stata molto più di una doccia di acqua fredda per tanti uruguaiani che hanno seguito la vicenda oltreoceano. Si è fatto di tutto per far sì che i militari accusati non la facessero franca. Invece la maggior parte degli imputati uruguaiani sono stati assolti.
Una notizia che ci da la misura di quanto sia forte l’impunità? Forse. Quella maledetta impunità di cui godono ancora gli artefici e gli autori materiali di torture, morti, sparizioni forzate di uomini, donne, bambini, neonati, nel periodo del terrorismo di Stato in alcuni paesi del Cono Sud della nostra America Latina, tra questi l’Uruguay.
La prima istanza del processo aveva come imputati 27 persone, tra ex militari e civili, di paesi come Bolivia, Cile, Perù e Uruguay, accusati della morte di cittadini italiani nel compimento dell’operativo denominato Condor, avvenuti in vicende diverse nel periodo della dittatura, nei decenni ’70 e ’80.
I militari uruguaiani assolti sono José Ricardo Arab Fernández, José Horacio “Nino” Gavazzo, Juan Carlos Larcebeau, Pedro Antonio Mato Narbondo, Luis Alfredo Maurente, Ricardo José Medina Blanco, Ernesto Avelino Ramas Pereira, José Sande Lima, Jorge Alberto Silveira, Ernesto Soca, Jorge Néstor Troccoli, Gilberto Vázquez Bissio e Ricardo Eliseo Chávez. L’unico uruguaiano condannato all’ergastolo è stato il Cancelliere Juan Carlos Blanco.
Jorge Néstor Trócoli, anche egli uruguaiano, la cui condanna era praticamente scontata, si muove liberamente in Italia dal 2007 quando è fuggito dall’Uruguay essendo in possesso della doppia nazionalità. Gli altri militari, a eccezione di Pedro Antonio Mato Narcondo, anche lui uruguaiano, fuggì in Brasile per evitare l’estradizione ed ora sta scontando la condanna in prigione in Uruguay. Ricordiamo anche che l’ex dittatore ed ex militare uruguaiano Gregorio Álvarez, imputato al processo per il Piano Condor ma deceduto lo scorso dicembre, nell’Ospedale Militare di Montevideo, stava scontando la pena detentiva, dopo la sentenza della Giustizia Penale uruguaiana.
Dei ventisette imputati nel processo, otto sono stati condannati all’ergastolo, incluso il Cancelliere già menzionato: i cileni Hernán Jerónimo Ramírez e Rafael Ahumada Valderrama; i boliviani Luis García Meza e Luis Arce Gómez; ed i peruviani Francisco Morales Bermúdez, Pedro Richter Prada e Germán Ruiz Figueroa. Assolti invece i cileni Pedro Octavio Espinoza Bravo, Daniel Aguirre Mora, Carlos Luco Astroza, Orlando Moreno Vázquez e Manuel Abraham Vázquez Chauan; ed il peruviano Martín Martínez Garay.
La sentenza di assoluzione smonta tutto il lavoro dell’accusa, dei pubblici ministeri Giancarlo Capaldo e Tizina Cugini. Un lavoro durato dieci anni d'indagini.
A questo punto ripassiamo sinteticamente la fase embrionaria di questo processo, puntualizzando che la legislazione italiana contempla che i delitti commessi contro cittadini italiani siano giudicati in Italia, anche se non commessi nella loro giurisdizione. Nel 1998, i familiari uruguaiani di alcuni desaparecidos di nazionalità italiana ricossero alla giustizia italiana per fare giustizia. È così che il giudice Capaldo avviò le indagini contro un centinaio di militari e civili sudamericani, per crimini commessi contro cittadini italiani negli anni settanta, sotto il Piano Condor. Dieci anni di indagini, fino a quando nel 2008 il magistrato riuscì a raccogliere le prove necessarie e fondamentali per andare a processo. Finalmente nel febbraio del 2015 iniziarono le udienze a Roma, presiedute dalla Terza Corte Penale romana nella persona di Evelina Canale.
Un particolare da tenere in conto: lo Stato uruguaiano sollecitò di essere pare civile nel processo, e quindi presentò testimoni e prove. Ad esempio, in quei giorni, il Segretario della Presidenza del governo uruguaiano, Miguel Toma, portò in Italia le sentenze tradotte, emesse in Uruguay contro i militari e la polizia imputati nel processo in Italia, che dimostravano il loro coinvolgimento nel Piano Condor.
Con una base solida di prove raccolte in diverse forme e modalità, il magistrato Giancarlo Capaldo diede il via al processo penale per sequestro di persone e omicidio multiple aggravato contro circa 30 persone (militari e civili) per l’omicidio di 23 cittadini italiani, tredici di loro italo-uruguaiani.
I militari imputati rifiutarono la giurisdizione della giustizia italiana per indagare e giudicare i fatti, senza tener conto che la normativa italiana prevedeva processi in contumacia, ragione per cui la causa seguì il suo corso anche senza la loro testimonianza, fatta eccezione del Capitano dell’Armata Jorge Néstor Tróccoli, presente alle udienze.
Il portavoce di Madri e Familiari dei Detenuti Desparecidos, Nilo Patiño – parlando alla stampa ha ricordato: “La pietra fondamentale nel processo l’hanno costituita i familiari nel fare la denuncia”. E ha anche ricordato la situazione del militare Tróccoli: “Lui si trova in Italia (libero), dovuto ad una leggerezza e irresponsabilità dell’ambasciatore dell’Uruguay in Italia, al tempo Carlos Abin. Nel 2008 l’estradizione non andó a buon fine per un ritardo nella presentazione della documentazione necessaria a richiedere la estradizione. Abin negò ogni responsabilità”. Ed ha aggiunto: “Il governo ha la coda di paglia per questo motivo, per l’errore commesso”.
Preso atto della sentenza, Patiño ha dichiarato: “La sentenza è stata una doccia d'acqua fredda, non solo per noi, ma anche per tutte le organizzazioni sui diritti umani. È chiaro che ciò non cancella i delitti commessi, né che sono stati assolti perché innocenti. Per noi è uno scivolone, ma abbiamo vissuto cose peggiori e ci rialzeremo, anche se avremmo voluto Tróccoli dietro le sbarre”.
La stampa uruguaiana a Roma, praticamente all’ingresso dell’edificio dove si è tenuto il processo, ha voluto conoscere l’opinione dell’ex giudice penale uruguaiana Mirtha Guianze arrivata a Roma proprio per essere presente il giorno della sentenza (a Montevideo si è occupata in modo notevole di processi contro repressori militari e civili). La Guianze, molto rispettata in Uruguay, ha detto categoricamente: “È stata stabilita la responsabilità solamente dei capi, dei gerarchi per gli omicidi commessi, che è l’unico delitto che non va in prescrizione. Invece, per i colpevoli di sequestro di persona, il delitto può andare in prescrizione. La giuria popolare non ha capito, o non gli è stato fatto capire che i ‘grupos de tareas’ (composti da militari in borghese che si occupavano della ‘sparizione” dei presunti “sovversivi” mediante incursioni notturne nei domicili delle vittime, ndr.), agivano come bande di delinquenti, non come abitualmente si agisce quando si risponde ad una gerarchia. Potevano torturare i prigionieri, esagerare e quindi provocare loro la morte, questo non significa che rispondessero a degli ordini”.
L'unico uruguaiano condannato: Juan Carlos Blanco
Chi era Juan Carlos Blanco? Oggi ha 82 anni ed è stato il Ministro degli Esteri dal 1972 al 1976, e anche Cancelliere della dittatura militare, fu processato nel 2002, a Montevideo, per la scomparsa e morte della maestra Elena Quinteros, e condannato nel 2010 a 20 anni di prigione per omicidio pluriaggravato, per l’uccisione dei legislatori Zelmar Michelini ed Héctor Gutiérrez Ruiz, e della coppia di rifugiati politici ed ex militanti del MLN Tupamaros, Rosario Barredo e William Whitelaw. Nel febbrario del 2012 un tribunale – in Uruguay- confermó la condanna di Blanco, modificando il capo di imputazione a “complicità in omicidio pluriaggravato”, ora il processo prosegue mentre l’imputato è rimasto in libertà provvisoria.
A modo illustrativo, occorre menzionare che ci sono molti uruguaiani desaparecidos, i cui nomi appaiono nella stessa causa. Essi sono: Alberto Corchs Laviña, Elena Paulina Lerena Costa, Alfredo Fernando Bosco Muñoz, Guillermo Manuel Sobrino Berardi, Gustavo Alejandro Goycochea Camacho, Graciela Noemi Basualdo Noguera,María Antonio Castro Huerga de Martínez, José Mario Martínez Suárez, Aída Celia Sanz Fernández, Elsa Haydee Fernández Lanzani de Saenz, Atalivas Castillo Lima, Miguel Ángel Río Casas, Eduardo Gallo Castro, Gustavo Raúl Arce Viera, Juvelino Andrés Carneiro Da Fontoura Gularte, Carlos Federico Cabezudo Pérez, María Asunción Artigas Nilo de Moyano, Alfredo Moyano Santander e Célica Elida Gómez Rosano.
Roger Rodríguez, giornalista uruguaiano, che si occupava principalmente di violazioni dei diritti umani ai tempi della dittatura in Uruguay e inoltre testimone della causa, ha detto che il processo a Roma mirava appunto a fare giustizia per la scomparsa forzata di sei cittadini uruguaiani, con cittadinanza italiana: Ileana Sara María García Ramos de Dossetti, Edmundo Sabino Dossetti Techeira, Yolanda Iris Casco Ghelpi de D'Elía, Julio César D'Elía Pallares, Raúl Edgardo Borelli Cattáneo y Raúl Gámbaro Núñez. Altri cittadini desaparecidos italo-uruguaiani sono Armando Arnone Hernández, Daniel Banfi Baranzano.
Raúl Olivera, membro della Segreteria di Diritti Umani del PIT-CNT, che ha preso anche lui parte al processo, ha detto commentando la sentenza: “Un grande punto interrogativo è capire il fondamento di questa assoluzione generalizzata per gli esecutori materiali dei reati, e la condanna di Blanco come mediatore o responsabile dalla carica che ricopriva nella struttura dello Stato dittatoriale”. Ed ha aggiunto: “Ci sono degli elementi di prova già avallati dalla giustizia uruguaiana in vari processi, ma anche in Argentina, per cui si sperava che questo processo, dopo tanti anni di indagini da parte della Procura, che ha permesso di accumulare altre prove negli ultimi anni, si risolvesse in altro modo... Lo Stato si è interessato al tema solo da poco, fondamentalmente per cercare di riparare ad un errore che commesso dall’ambasciatore uruguaiano in Italia riguardo l’estradizione di Tróccoli”.
Olivera, rispondendo alle domande di La Diaria, di Montevideo, ha rimarcato che sempre è stato chiesto più impegno da parte dello Stato “per fornire informazione, poiché noi vittime abbiamo dato tutto, le nostre testimonianze, i nostri ricordi e la nostra visione di quello che era il terrorismo di Stato”.
Raúl Olivera insiste: “Il terrorismo di Stato non è stato architettato da Blanco, ma da tutto un apparato dello Stato, che seguiva delle direttive e che deve avere l’informazione”.
Olivera infine si è augurato che lo Stato uruguayo abbia un ruolo più attivo nel ricorso in appello dopo l'interessamento dimostrato di essere presente al processo in Italia, nella persona del Vicepresidente della Repubblica, Raúl Sendic e dopo le parole da quest’ultimo.
Della stessa idea è Nilo Patiño: “È il terzo governo del ‘Frente Ampli’ e solo da poco abbiamo avuto acceso agli archivi”; “è la prima volta che il governo mostra il suo appoggio nelle indagini e per non chiudere le cause, c’è un’apertura. Un atteggiamento un po’ tardivo, ma meglio tardi che mai”.
Il quotidiano La Diaria, dell’Uruguay, riporta le seguenti parole di Nilo Patiño: “il processo è stato molto importante per portare la notizia oltre confine, la ricerca della verità; ma continuiamo a sottolineare che i crimini sono stati commessi qui (in Uruguay) da uruguaiani e dovrebbero essere giudicati qui”.
Sempre al quotidiano La Diaria l’ingegnere Martín Ponce de León, che ha prestato dichiarazione a Roma e in quelli anni era dirigente dei Grupos de Acción Unificadora (GAU), ha detto che: “la ‘sentenza è un duro colpo’, che non possiamo ne dobbiamo accettare che vinca l’omertà e l’occultamento – e ancora - il grande problema che ha l’Uruguay è che a 30 anni dell’istaurazione della democrazia non si sa ancora cosa è successo con i compatrioti desaparecidos, ne dove sono i loro resti. Qualcosa di umanamente inaccettabile; persino la legge di impunità stabiliva l’obbligo del Potere Esecutivo di proseguire con le indagini sul tema dei desaparecidos”. “Non c’è niente che impedisca che si continui a lavorare e lottare per il dovere etico, elementale e umano di dare delle spiegazioni alle famiglie”.
L'indignazione di María Victoria Moyano
In mezzo allo sconcerto generale, c'è stato un contrasto verbale tra il vicepresidente Raúl Sendic e una compatriota vittima del Piano Condor. Secondo quanto riferisce la stampa, Sendic avrebbe dichiarato ai giornalisti “Il governo uruguaiano ha la tranquillità di aver fatto tutto ciò che doveva fare, di aver presentato le prove, le testimonianze e dato il suo appoggio ai familiari”, parole che hanno mosso la replica di María Victoria Moyano, figlia di María Asunción Artigas e Fredy Moyano che ha interrotto il vicepresidente: “Devi dire che in Uruguay noi familiari delle vittime non possiamo fare processi per i nostri cari. Ho tutto il diritto di questionare il governo dell’Uruguay. Siamo qui perché in Uruguay i processi non si fanno. Mi hanno dichiarato cittadina illustre perché sono figlia di desaparecidos e la cosa più perversa è che in Uruguay non si può iniziare un processo contro gli assassini dei miei genitori, perché vige la legge dell’impunità”.
“Mi sembra che la sentenza non è coerente con la realtà dei fatti. Nessuno può dire che questo non è esistito. Io sono nata in un centro clandestino, e dire che Tróccoli non è responsabile perché non è stato lui direttamente a premere il grilletto è assurdo. Me ne vado completamente indignata che questo personaggio ne esca fortificato. Non finisce qui, andremo avanti, fin quando i nostri genitori non avranno giustizia ed i nostri fratelli non recuperino la loro identità. L’indignazione non si trasforma in sconfitta. Me ne vado fortificata”, sono state le parole di María Victoria alla giornalista Nadia Angelucci di La Diaria, di Montevideo.
Chi è Victoria Moyano? È figlia di due uruguaiani desaparecidos, nata 39 anni fa in cattività, nel centro clandestino di detenzione noto come il Pozo de Banfield (Buenos Aires). I suoi genitori risultano ancora oggi desaparecidos, erano militanti vicini ai Grupos de Acción Unificadora (GAU) e rifugiati politici in Argentina. Entrambi sequestrati nel 1977 e desaparecidos nel 1978. Gli operativi delle forze repressive contro i militanti del GAU, in esilio in Argentina, erano in mano ai Fusileros Navales della marina uruguaiana ed al personale della marina argentina. Queste operazioni di polizia riuscirono a devastare la militanza dei GAU, ancora di più quando furono trasferiti al centro clandestino dell’Uruguay.
La donna ha ancora espresso il suo disappunto al quotidiano La República di Montevideo dopo aver ascoltato il verdetto: “I miei genitori sono scomparsi, non so dove sono. È una vergogna. Siamo venuti qui alla ricerca di una condanna, perché in Uruguay non c’è condanna per i colpevoli di genocidio. Ce ne andiamo così come siamo venuti. Se volete delle prove, io sono una prova vivente. Questo signore (Tróccoli) sarà libero. Era parte del sistema repressivo...Ci sono giovani che come me, al giorno di oggi, non hanno un’identità. Continuerò a denunciare e a lottare come in tutti questi anni”.
Chi è il capitano Jorge Tróccoli?
La giornalista di La Diaria, Soledad Platero, riassume perfettamente la sua storia nel suo articolo dal titolo “seguir peleando”: “Abbiamo visto più volte Jorge Tróccoli farla franca. Sapevamo che era un provocatore, un tipo disposto ad ammettere i suoi crimini senza diventare rosso, capace di entrare nella casa di una donna appena arrestata e torturata per conversare con lei senza farsi riconoscere e finalmente, in un gioco perverso e terrificante, identificarsi con un semplice biglietto da visita come se niente fosse. Un uomo impune, ma un impune sadico ed esibizionista, fatuo, reso superbo dalla gloria miserabile dei prepotenti senza punizione. Sapevamo che Tróccoli era sfuggito alla giustizia una volta, quando lasciò il paese e si trasferì in Italia, e una seconda volta, quando per una disattenzione amministrativa dell’ambasciata uruguaiana riuscì ad evitare l’estradizione. Sapevamo –come non saperlo?- che nessuno riesce a rimanere impune se è solo. Nessuno si salva senza aiuto. Se tale personaggio viveva, come tanti altri, la sua vita a volto scoperto e senza timore delle conseguenze era dovuto, prima di tutto, ad una efficace rete di protezioni e lasciapassare che tutelavano la sua tranquillità. Ma abbiamo voluto credere che questa volta, sì, questa volta, con tante testimonianze, con tanti fatti dimostrati, con così tanta informazione che dimostrava senza dubbio alcuno la sua partecipazione nei crimini di cui era imputato, non se la sarebbe cavata. Che la giustizia alla quale era sfuggito in Uruguay lo avrebbe raggiunto in Italia. Che finalmente qualcuno gli avrebbe detto no, che l’impunità non è per sempre, i delitti qui commessi, qui si pagano. Chi ha seguito il processo, letto i capi di accusa e le testimonianze, ascoltato l’accusa e gli argomenti della difesa, aveva fiducia che giustizia sarebbe stata fatta. Una certa giustizia”.
La lotta continua
I familiari delle vittime ora ricorrerano in appello. I membri della 3ª Corte Penal hanno 90 giorni per motivare la sentenza. L’avvocato difensore di Tróccoli, Francesco Guzzo, ha sostenuto il ruolo marginale del militare, perché “era un semplice tenente de marina e non poteva prendere alcuna decisione in modo autonomo, c’erano sette livelli di comando superiori a lui”. Mentre l’avvocato Carlo Zaccagnini, difensore dei militari uruguaiani José Nino Gavazo, Pedro Antonio Mato Narbondo, Luis Alfredo Maurente Mata, Juan Carlos Larcebeau e Ricardo Eliseo Chávez Domínguez, ha detto che ha impostato la sua difesa sulla base dell’errore giuridico, affermando che il processo che si è svolto a Roma trasgredisce le norme di competenza territoriale e viola le norme giuridiche dell’Uruguay, trova quindi fondamento in una lettura distorta dell’ordinamento giuridico.
Da parte sua, Cristina Muhura, vedova del desaparecido italo-uruguaiano Armando Arnone Hernández, ha dichiarato ai colleghi dell’agenzia AFP, che dopo una lotta così lunga “i giudici non hanno riconosciuto la responsabilità individuale degli imputati. Un criterio molto discutibile”. Mentre l’avvocato Fabio Galinari, che rappresentava la Repubblica Orientale dell’Uruguay e la parte civile Soledad Dossetti, visibilmente indignato, ha detto: “in questi nove anni abbiamo fatto tutto il possibile per sostenere questo processo, ed il nostro contributo si è rivelato decisivo…. Abbiamo portato prove e fatti concreti. La sentenza è la conseguenza di una gestione del processo non efficace. In più di una occasione lo ha detto la presidenta ed ha invitato la Procura a riprendere le fila del processo e presentare delle prove. Non ho mai visto in Italia un’assoluzione di fronte a un compendio probatorio come quello presentato”.
Ed ora? Bisognerà costruire bene la struttura dell’appello. Un lavoro che non può sostituire e tanto meno attenuare il sentimento di impotenza che avvolge le famiglie delle vittime del terrorismo di Stato.
Bisogna mettersi nei panni di tutte quelle persone che hanno nutrito negli ultimi due anni, un sentimento di speranza di vedere che finalmente quel valore della "giustizia" diventava concreto, la giusta risposta ad un comportamento maligno, demoniaco, e bestiale, del carnefice di turno che mise le mani sui loro cari.
Bisogna mettersi nei panni di tutte quelle persone che hanno seguito in loco, o a distanza, le indagini o le udienze del processo per il Piano Condor di Roma, per capire che le assoluzioni – al di là delle argomentazioni giuridiche esistenti – sono stati umanamente un insulto all'intelligenza e all'etica dell'uomo che crede e cerca la giustizia, in contrasto alla crudeltà e ai crimini commessi dai "patoteros" (teppisti) di un sistema coperto e fomentato da uno Stato, all’insegna del terrore, della privazione della libertà e della assenza di diritti umani e costituzionali.
Molti interrogativi
Perché la maggior marte dei repressori uruguaiani sono stati assolti a Roma? Senza dubbio questo è uno degli interrogativi che più pretende una risposta, ma ci siano altre domande che sorgono di fronte a questa sentenza: Quale interpretazione è stata data alle prove presentate e alle testimonianze ascoltate? Per quale motivo, il militare uruguaiano Jorge Tróccoli è riuscito a prendersi gioco della Giustizia, fuggendo all'estradizione grazie ad un errore dell'ambasciatore uruguaiano Carlos Abin, il quale ritardò nel presentare la documentazione, che avrebbe facilitato la sua estradizione cosicché fosse giudicato in Uruguay?
Forse bisogna pensare che ci sono state delle manipolazioni a spalle dei popoli italiano ed uruguayo?
Per avere delle risposte bisogna continuare a cercare la verità ed unire i pezzi. Frammenti di verità che girano da oltre 30 anni. A momenti alcuni pezzi si materializzano ed in altri momenti nemmeno si trovano. Certo è che l’Uruguay porta lo stendardo delle impunità, più che della ricerca della verità. Ci sono pochi militari e poliziotti carcerati. C'è una ferrea omertà tra le file militari per non rivelare dove sono i nostri morti vittime della dittatura. Ci sono giudici e pubblici ministeri specializzati in casi di violazioni di diritti umani che sono stati rimossi e esclusi dal circuito investigatore. Ci sono silenzi, demagogie e intrighi.
C'è un sistema politico che timidamente prende l'aratro per seminare verità in quanto a violazioni dei Diritti Umani. Ma ogni anno, il 20 maggio e il 18 luglio sfiliamo lungo l’Avenida per i nostri desaparecidos. Come se si trattasse di una formalità cittadina, vivace e colorata di cartelli e fotografie, e di silenzi, ma vuota di anima e di spirito di giustizia, perché il giorno dopo (ed il resto dell'anno), il silenzio è ancora più profondo. Nonostante la classe politica crei diverse Commisioni per far luce sulle atrocità commesse a volte penso di trovarmi in mezzo ad una superficiale e perversa ipocrisia quando guardo con attenzione alcuni dei partecipanti alla marcia del silenzio. La stessa ipocrisia che ho sentito guardando con la lente d'ingrandimento dietro le quinte delle sentenze del Tribunale di Roma per il Piano Condor.
Dopo la frustata della sentenza per il Piano Condor, marceremo nuovamente in silenzio il prossimo 20 maggio? Credo sia arrivato il momento di dare un nuovo profilo a quella lotta silenziosa affinchè questo tipo di manifestazioni diventino un impegno settimanale anche per il Governo di turno.
(22 Gennaio 2017)
*Foto di Copertina: www.subrayado.com Capitano Jorge Tróccoli durante un’udienza, insieme ad i suoi avvvocati
*Foto 2: www.Página12 Magistrati
*Foto 3: www.eltelégrafo.com AFP
*Foto 4: www.elmuerto.com Juan Carlos Blanco
*Foto 5: www.elpais.com Ex magistrato Mirtha Guianza e delegazione uruguayana
*Foto 6: AFP Foto di Filipo Monteforte