di Leni Remedios
Il governo di Theresa May non avrebbe subito contestazioni se avesse proceduto come da norma, rendendo trasparenti i negoziati con l'UE. Ma non è stato così.
Dopo l'articolo sul tema di Giulietto Chiesa pubblicato da Sputnik e ripreso ieri da Megachip, riceviamo e pubblichiamo volentieri un diverso punto di vista, nell'intento di incoraggiare un dibattito aperto fra e con i lettori.
BIRMINGHAM (Regno Unito). Chiarisco subito, a scanso di equivoci, che il presente articolo è lungi dall'essere una spiegazione delle ragioni del sì e del no riguardo al referendum britannico su Brexit. Il voto risale a cinque mesi fa, va accettato per quello che è.
Nessuno contesta il risultato del referendum, quindi.
Bypassiamo pure il fatto che sia stato vinto per una maggioranza risicatissima, sulla base di una campagna spudoratamente xenofoba - pochi europei residenti qui mi smentiranno su questo - e fraudolenta (mi riferisco alla frode sui soldi destinati al Sistema Sanitario Nazionale invece che all'UE in caso di Brexit: Farage e soci, il giorno dopo il referendum, ammisero di "essersi sbagliati").
Bypassiamo pure il fatto che, in una democrazia rappresentativa, cambiamenti significativi che implicano la riforma di diritti fondamentali necessitino di una larga maggioranza della popolazione. Bypassiamo tutto. Facciamo come se Brexit fosse passata con il consenso di più del 60% degli aventi diritto al voto.
Il governo di Theresa May non avrebbe subito contestazioni se avesse proceduto come da norma: accolto il risultato del referendum avrebbe dovuto sottoporre il proprio piano al Parlamento, ci sarebbe stato un dibattito trasparente ed aperto al pubblico sui negoziati con l'UE e tutto sarebbe andato liscio. Così come la legge prescrive in fatto di referendum consultivi. Ma non è stato così.
Il doppio intento della scrivente sta: nel fornire un ulteriore spiegazione al pubblico italiano su quel che sta accadendo nel Regno Unito, visto e considerato che i fatti che accadranno qui nei prossimi mesi, assieme alle conseguenze delle presidenziali americane, avranno forti ripercussioni sulla vita di tutti noi, direttamente o indirettamente; fornire una chiave di lettura diversa sulla vicenda Brexit, puntando i riflettori sul "salvare il salvabile", ovvero su quel che rimane dei diritti civili e delle costituzioni.
Scrivo questo adesso alla luce della recente sentenza dell'Alta Corte di Giustizia britannica, per cui dovrà essere il Parlamento a decidere quando evocare l'articolo 50 del Trattato di Lisbona che predispone all'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea; inoltre sempre il Parlamento dovrà supervisionare i lavori del governo su termini e condizioni dell'uscita. In altre parole, prenderà parte attiva ai negoziati con l'Unione.
Il governo May ha giá dichiarato di fare ricorso il mese prossimo. La stampa mainstream britannica ha quasi unanimamente gridato allo scandalo, definendo i giudici dell'Alta Corte "traditori del popolo", mentre la BBC - di solito così prona verso qualsiasi cosa il governo dica - sta dando i primi segni di incertezza e d'imbarazzo.
Mi rendo conto come dall'esterno sia difficile cogliere la complessità del momento politico oggi in Gran Bretagna. Sembrerebbe semplice, una questione di sì e di no, referendum vinto o perso, normale prassi democratica, punto e fine.
Riassumo brevemente i fatti oggettivi in sequenza, se volete prendetela come una tesi scientifica che va suffragata: il Referendum su Brexit era un Referendum consultivo, ovvero non vincolante in termini di legge e che in quanto tale necessita del vaglio ulteriore del Parlamento. È stato vinto per una maggioranza risicatissima. Un governo non eletto intende ora perpetrare i negoziati con Bruxelles sull'uscita dall'Unione all'oscuro degli elettori e senza interpellare il Parlamento, né sulla data effettiva in cui evocare l'articolo 50 del Trattato di Lisbona né su termini e condizioni da proporre all'Unione.
Questi sono i fatti.
Poi potremmo discutere all'infinito sulle ragioni alquanto diverse che hanno spinto all'epoca verso il rispettivo voto. Ci basti soffermarci sul seguente elemento: in entrambi i casi ci sono motivazioni sia progressiste che conservatrici. L'Europa dei tories di Cameron - il mantenimento dello status quo ultra neo-liberista e guerrafondaio in linea col blocco NATO - non è evidentemente la stessa idea dei labour di Corbyn, ovvero di un miglioramento dei diritti di cittadini che vivono, lavorano e si spostano in seno ad un'Europa che non muove guerre, e nemmeno degli indipendentisti dello Scottish National Party. Persino dietro le ragioni dei Leavers ci sono argomenti sia di destra ultra xenofoba (Farage, Gove, Johnson e l'ultima versione di Theresa May che supera tutti) che di sinistra anti-sistema, che vede nella sclerotizzata Bruxelles - a ragione - un coacervo di maggiordomi agli ordini degli USA prevaricante la sovranità nazionale.
Molti miei colleghi ed amici personali in Italia hanno letto la vittoria del referendum su Brexit seguendo l'ultima chiave di lettura, ovvero come una vittoria di un popolo illuminato che ha capito benissimo i trucchetti di Madam Bruxelles e non ci sta al gioco. Stando a questa linea interpretativa, la sentenza dell'Alta Corte di Giustizia britannica viene vista come un'interferenza giudiziaria che vuole scavalcare il giudizio popolare.
Rispetto tale punto di vista. Ma, come ho già scritto altrove, per come la vedo io da residente nel Regno Unito non è affatto così o, più precisamente, lo è solo in una minimissima percentuale.
Probabilmente vorrei che fosse così. Ma..."wishful thinking" dicono gli inglesi. "Vorresti. Magari".
Tuttavia, come ho già scritto all'inizio, non è affatto questo il punto.
Qui intendo fornire alcune coordinate che non penso altri media si siano impegnati granché a dare. Parlare di Costituzione, di norme, di procedure democratiche non va di moda oggi. È noioso. Bisogna fare sensazione. Bisogna parlare di Farage e May che sputano bile e promettono vendetta. Dei cittadini britannici incazzati.
In risposta ai Brexiteers progressisti di sinistra entusiasti del voto anti-sistema, mi sento di aggiungere, ahimè, che come aggravante, in seguito all'esito del referendum, il governo May si appresta ad un giro di vite su austerity, tagli al welfare, privatizzazione e forse svendita totale del sistema sanitario, nonché ad una politica estera aggressiva. Chi pensava che Brexit potesse fornire uno scossone agli equilibri geopolitici in atto che intersecano Unione Europea al blocco NATO ha ragione solo in parte, forse qualcosa ha fatto e farà: tuttavia la guerra alla Russia la Gran Bretagna la vuole fare, le armi ai sauditi continuerà a venderle, il programma di testate nucleari Trident continuano a sponsorizzarlo anche con mezzi non proprio ortodossi. Di più: la pesante svalutazione della sterlina, avanti di questo passo, fornirà ulteriori motivi per una guerra: una bella guerra ci sta sempre bene per portare il bilancio in pareggio, no? Le elites, insomma, Brexit o no, se la caveranno sempre, per dritto o per rovescio. Ce lo ricordiamo che quando lo zio Obama veniva a Londra a supplicare l'elettorato di votare per Remain, degli speculatori americani nel frattempo scommettevano sulla svalutazione della sterlina in caso di Brexit? Per quanto riguarda la City pare che se la caverà con delle regole speciali, su misura, come riportano alcuni giornali. JP Morgan e Goldman Sachs non soffriranno più di tanto per spostare 70.000 lavoratori/pedine in altre città europee.
A farne le spese saremo come sempre noi, comuni cittadini.
Personalmente non mi piace né l'Unione Europea di Juncker né il Brexit xenofobo di Theresa May. Trovo entrambi deprecabili per ragioni diverse. Ecco perché il vero punto, ora come ora, non è Brexit o non Brexit, ma è salvare il salvabile: i nostri diritti.
Interferenza giudiziaria vs deriva autoritaria
Theresa May non ha mai nascosto di voler fare tutto da sè, escludendo il parlamento dai negoziati ed auto-investendosi portavoce del popolo britannico. La linea dura di Miss May è risaputa, nessuna sorpresa. Ma è risaputa solo nei modi. Nella sostanza nessuno ha mai capito, sino ad oggi, che cosa diavolo voglia dire con il suo mantra "Brexit is Brexit" e con la sua propensione per una "Hard Brexit". Né gli europei residenti qui - che un giorno si sentono rassicurati sui propri diritti di residenza ed il giorno dopo se li vedono minacciati - né i titolari di piccole, medie e grandi imprese che fanno import-export, né tantomeno i cittadini britannici, che dopo la sbornia post-Brexit si sono visti paradossalmente altalenare la valuta, fino a farla avvicinare paurosamente al valore dell'euro: quell'europeismo che volevano scongiurare lo hanno avuto indietro nell'ambito finanziario. Almeno prima erano davvero isolazionisti nella valuta. Come se non bastasse, si annuncia ora che il calo della sterlina rispetto a dollaro ed euro farà alzare spasmodicamente i prezzi nei prossimi mesi, soprattutto dopo Natale. In questo scenario, i residenti nel Regno Unito, sia indigeni che stranieri, hanno tutto il diritto di essere informati correttamene su quel che sarà delle proprie vite nel futuro incipiente.
Tutti si aspettavano un chiarimento subito dopo la vittoria del referendum. È per questo che Theresa May, in teoria, ha ricevuto il mandato dopo le dimissioni di Cameron: per unire il paese e guidarlo verso una chiara fuoriuscita dall'Unione, così come espresso nel risultato del referendum. Eppure, cinque mesi dopo, la totale mancanza di chiarezza, le continue contraddizioni e la tendenza autoritaria della Premier hanno provocato irritazione e disappunto non solo fra i cittadini ma anche e soprattutto fra i parlamentari, in maniera trasversale. Mentre scrivo, un parlamentare Tory ha dato le dimissioni definendosi disgustato da come Theresa May abbia gestito la cosa in maniera totalmente antidemocratica. È solo l'inizio: assieme a lui alzano la voce altri suoi colleghi, mentre dal canto suo Jeremy Corbyn alza la testa e minaccia di bloccare Brexit e di andare ad elezioni anticipate se non ci sarà un accordo dibattuto col parlamento sul libero mercato con l'Unione e la libera circolazione delle persone.
Chi è Gina Miller?
La promotrice del ricorso all'Alta Corte di Giustizia è Gina Miller, nota investitrice della City di Londra ed appoggiata sia da settori industriali che dal crowdfunding popolare. Si può argomentare sulla parzialità della persona in questione verso la City - così come si può argomentare sulla parzialità dei remainers e brexiteers all'epoca - ma non è stata lei ad emettere la sentenza, per quanto abbia depositato il caso. Qualsiasi sia stato l'individuo a farlo - si chiami Gina Miller o Jeremy Corbyn - l'Alta Corte di Giustizia, l'organo che ha deliberato, è un organo predisposto a salvaguardare le procedure democratiche in accordo al corpus costituzionale britannico. Secondo il suo stesso regolamento, l'Alta Corte di Giustizia delibera a prescindere dalle politiche perseguite dai governi del momento, nell'esclusivo scopo della tutela costituzionale. È bene tener presente, al proposito, che non è stata l'Alta Corte di Giustizia a decretare, a posteriori, che il referendum in questione era consultivo: il referendum era in questa veste per legge sin dall'inizio, da quando cioè è stato introdotto in Parlamento accompagnato dal documento-guida 7212 (ancora più precisamente, nella sezione 5).
Non è un caso che adesso molti accusino il governo di non essere stato chiaro fin dall'inizio con l'elettorato su questo punto, creando false aspettattive. Un monito che suona, bisogna dire, come un mea culpa: dov'erano gli accusatori durante la campagna elettorale? Perché non c'avete pensato voi ad essere precisi? Troppo coinvolti ad appoggiare o contrastare una campagna referendaria che da "Brexit sì Brexit no" si è tramutata subito in "stranieri sì stranieri no". Entrambe le fazioni progressiste sono cadute nella trappola propagandistica e si sono dimenticati delle informazioni fondamentali da fornire ai cittadini. Tra le altre cose il testo finale del Bill presentato in Parlamento sottolinea
La Gran Bretagna non ha una Costituzione racchiusa in un documento unico, come quella italiana. Tuttavia ha un corpus di norme costituzionali che affondano le radici nel secolo XVII ed il cui scopo è quello di preservare la sovranità del parlamento contro qualsiasi rischio di deriva autoritaria e/o populista.
Theresa May insiste sul punto di voler preservare la sovranità popolare. Ebbene, la Costituzione spiega che la sovranitá popolare si esprime attraverso il parlamento, che il popolo rappresenta, nel bene e nel male.
Se così non fosse si creerebbe un pericoloso precedente: qualsiasi primo ministro, d'ora in poi, potrebbe agitare un referendum consultivo su questioni fondamentali del paese brandendo la bandiera della volontá popolare ed escludendo lo scrutinio parlamentare sui risultati. In altre parole si aprirebbero le porte a demagogie e populismi, che in questo caso vanno a braccetto con la deriva esplicitamente xenofobo/razzista del governo e tristemente in linea con i partiti oltranzisti di destra di tutta Europa. Il Prof A.C. Grayling del New College of the Humanities parla di Oclocrazia, ovvero di decisioni prese avventatamente alla mercé degli umori del popolo.
Il punto cruciale è che qui non si mette in discussione l'opinione espressa dalla maggioranza, per quanto risicata, dei cittadini britannici, bensì che, secondo le norme costituzionali britanniche, gli esiti di un referendum consultivo vanno vigilati dal Parlamento. A questo servono le democrazie rappresentative. Il compito non va delegato interamente ad un Premier ed il popolo non va tenuto all'oscuro dai processi in atto. Se il ricorso di Theresa May passasse il prossimo mese, dovremmo aspettarci in futuro un uso simile dei referendum su altri temi, magari anche più gravi. Senza contare che governi di altri paesi, magari guidati da coalizioni di estrema destra, potrebbero prendere esempio da Miss May.
Fonti consultabili:
http://researchbriefings.parliament.uk/ResearchBriefing/Summary/CBP-7212
https://www.theguardian.com/politics/2016/nov/03/ruling-on-brexit-opens-way-to-mps-revolt
Tratto da: megachip.globalist.it