Il sistema carcerario e le cause della violenza sociale in Uruguay
di Jean Georges Almendras
Nell’Uruguay di oggi la cittadinanza reclama con veemenza più sicurezza perché la delinquenza regna nelle strade di Montevideo ed in non poche zone urbane e rurali dell’entroterra del paese. Una realtà che non può essere ignorata. Ma c’è anche un’altra realtà che non può essere ignorata e rientra nel sistema carcerario del nostro paese, riguarda in specifico quando vieni privato della libertà per ordine della magistratura per aver commesso un delitto. Due realtà antagoniste, avverse e letteralmente opposte. I cittadini vittime della delinquenza da un lato ed i delinquenti detenuti dall’altro. È così che dobbiamo gestire la questione? Mi sembra proprio di no. Forse la chiave per sbloccare questo scontro di realtà opposte è soffermarci un po’ a riflettere e analizzare le cause del delitto, le particolarità della violenza sociale e la forma in cui si gestisce e si affronta la vita di chi ha infranto la legge.
Forse lasciarci prendere da una cieca sete di vendetta ogni qualvolta ci ritroviamo vittime di delinquenti costituisce la miglior medicina per un problema che oggi lo Stato uruguaiano deve assumere e risolvere con urgenza? Mi sembra di no. E' possibile che rinchiudere persone sia l’unico modo di “sanare” dai mali le vie di Montevideo? Non credo. Allora, guardando al futuro, insisto: non è veramente vitale fare un passo indietro nelle rivendicazioni estreme, analizzare con calma la situazione attuale e studiare a fondo i pro e i contro delle politiche carcerarie vigenti tutto ciò che riguarda le vere cause della violenza sociale che impera sovrana? In questo contesto, Unidad Popular, uno dei partiti dell’opposizione (di sinistra) da un prezioso contributo attraverso la pubblicazione “Rompiendo Rejas”. Il primo numero affronta direttamente il tema del sistema carcerario, descrivendo la situazione attuale e facendo conoscere le loro proposte. Il lancio della rivista (elaborata con la collaborazione di un’equipe multidisciplinari) ha avuto luogo a Montevideo, poco tempo dopo che il governo, per propria iniziativa, aveva ospitato nella propria sede dei dibattiti per discutere “sull’insicurezza cittadina e convivenza pacifica” a cui hanno partecipato tutti i partiti politici. Un ciclo di incontri dove più che idee o soluzioni coerenti si è sentito solo inveire per un inasprimento delle pene ed una criminalizzazioni di alcuni settori della società. In conclusione è stato un completo fiasco politico ben lontano dal proporre soluzioni e che ha incentivato l’odio e diviso l società in due: quella dei buoni e quella dei cattivi.
A inizio ottobre nel quartiere Carrasco Norte di Montevideo è stato ucciso un uomo che in un atto di solidarietà cercava di evitare una rapina. Il delinquente gli ha sparato colpendolo in testa dandosi poi alla fuga. Il killer non si è preoccupato delle conseguenze che poteva avere il suo gesto, perché il delinquente non tiene conto delle sanzioni penali nel momento in cui impugna un’arma e va a rubare. Perché per il delinquente quella è la sua forma di vita. Una forma di vita che derivano da una serie di circostanze vissute. Una vita in contrasto con quella del resto della comunità e che si erige sui pilastri del risentimento verso una “società” che reprime, esclude, emargina, perseguita, calpesta e rinchiude.
Al giorno d'oggi ogni fatto delittuoso che avviene in città tra la cittadinanza risveglia un inevitabile sentimento di vendetta, sottilmente espresso nelle rivendicazioni di giustizia e pace. Lodevole il desiderio di pace, lodevole il desiderio di giustizia. Ma si insinuano anche richieste più dirette e più specifiche: che i delinquenti siano rinchiusi, che la polizia sia ancora più repressiva, che il governo rimuova il Ministro dell’Interno di turno per incompetenza. E poco manca che si chieda pure che sia ristabilita la pena di morte.
Una società dei buoni e dei cattivi dove ci sono i delinquenti da rinchiudere e le persone che desiderano vivere in pace, farsi la propria vita indifferenti verso le cause all’origine di questa violenza. Un’indifferenza che non fa altro che distanziarci dal vero cuore del problema.
È un dato di fatto che ci sono persone disadattate che non sanno dare valore alla vita, né alla proprietà e che vivono nella violenza quotidiana, ma non dobbiamo dimenticare che nella nostra società la violenza sociale ha altre sfumature. Una delle quali riguarda quelle persone che in qualche momento della loro vita, sono caduti o hanno smarrito la strada dandosi alla delinquenza per sopravvivere. Spesso la loro è una storia di povertà, di mancanza di opportunità, di educazione e di assoluta indifferenza verso la vita stessa. Al punto che l’unico punto di relazione con la società, quando sei ormai immerso nel mondo della delinquenza, si racchiude in questa premessa: c’è chi mi vuole rinchiudere o uccidermi, io non lo permetto e allora mi difendo e uccido prima io”. Senza mezze parole. Perché il raggionamento è di sopravvivenza.
I dirigenti di Unidad Popular: Eduardo Rubio, Gustavo López e Gonzalo Abella, negli incontri alla Torre Ejecutiva nel mese di settembre si sono sentiti obbligati moral e ideologicamente ad assumere un ruolo totalmente avverso alla maggior parte dei presenti. Unidad Popular ha impostato la tematica all’ordine del giorno da una visuale completamente opposta a quella dei leader politici di tendenza tradizionale (di destra) e dello stesso governo.
Eduardo Rubio, deputato di Unidad Popular, in occasione della tavola rotonda organizzata in Parlamento, per presentare la rivista “Rompiendo Rejas”, ha ricordato alcune istanze emerse nei dibattiti sopra citati realizzati: “Ci dava fastidio la visione della Torre Ejecutiva dei cattivi da un lato e tutti noi dall’altro. Da quella parte ci sono i cattivi, i poveri, i delinquenti, qui ci siamo noi che dobbiamo salvare la società così come è. Una visione veramente reazionaria! Ragione per cui noi abbiamo scelto un altro punto di vista, quello degli oppressi, di coloro che soffrono la violenza quotidiana di una società che esclude, sfrutta, condanna la miseria”.
Da parte sua, Gustavo López, membro del Coordinador Nacional de la Unidad Popular, presente ai dibattiti alla Torre Ejecutiva ha segnalato che due delle questioni più “laceranti” per il loro schieramento politico sono le persone che vivono in strada e le condizioni delle persone private dalla libertà, citando statistiche del Mides (Ministero dello Sviluppo Sociale) che fanno capire che si è verificato un aumento del numero di persone di entrambi i sessi che vive in strada.
Sul tema carcerario López ha puntualizzato: “Nelle carceri uruguaiane, oltre ad essere privati della libertà, vengono private anche del nutrimento, privati del sonno, di relazionarsi con la propria famiglia, persino privati della possibilità di studiare. Il sistema penale uruguaiano è selettivo per il fatto che ad essere perseguitati sono i poveri ed i giovani”.
Non sbagliano quindi i tecnici di Unidad Popular quando scrivono che: “Le scienze sociali offrono prove schiaccianti che dimostrano che le società più violente sono allo stesso tempo le società più disuguali e su questo aspetto conviene ricordare che l'America Latina è il continente più disuguale del pianeta: ogni anno vengono uccisi 140.000 persone nel continente americano, la media di uno ogni quattro minuti, il tasso di omicidi più alto del pianeta. Quando vengono a meno le condizioni basiche per lo sviluppo umano, come l’educazione, l’abitazione, il lavoro e di conseguenza vengono degradati i valori di identità e si promuove invece la perversa equivalenza tra l’essere e l’avere, i livelli di insicurezza aumentano esponenzialmente”.
E aggiunge: “I settori maggiormente vittimizzati dall’incremento di delitti violenti sono nella sua amplia maggioranza i settori popolari. Il che deriva in un vero scontro di poveri contro poveri. La realtà conferma che il rischio di finire vittima di un delitto aumenta proporzionalmente alla povertà. L’aumento dei delitti, in particolare quelli esercitati con violenza comporta naturalmente una maggior richiesta di sicurezza e infonde la paura nel corpo sociale. I media –potenti apparati ideologici al servizio dell’ingiusto ordine dei capitali economici- amplificano le notizie “da fonti della polizia” da un’ottica dello “spettacolo morboso” rafforzando la dimensione soggettiva dell’insicurezza. Quanto espresso sopra funge da spazio di legittimazione per attuare politiche dal taglio repressivo e conservatore, di “mano dura” immediata, riforme legislative che prevedano l’inflazione punitiva, la restrizione della libertà e la messa in discussione del provvedimento di misure alternative alla prigione. In questo modo prende piede nell’immaginario sociale una specie di consenso conservatore, reazionario e repressivo che rimanda a complessi e multicausali problemi legati alla violenza sociale, al codice penale ed alla punizione con componenti di vendetta come unica risposta. Queste misure sono esplicitamente inutili per ridurre gli atti delittuosi o la paura, anzi, così come lo dimostrano inequivocabilmente i dati della nostra realtà, le politiche di penalizzazione eccessiva comportano l’aumento dei detenuti ed i problemi che ne derivano”.
Si legge ancora che “in Uruguay, tra il 1990 ed oggi, la popolazione reclusa è aumentata di oltre un 150% che porta il nostro paese ai primi posti nel continente in quanto al numero di detenuti per abitante. Undicimila persone sono private dalla loro libertà nel nostro paese: purtroppo la maggior parte sono giovani e poveri, è quindi palese la selettività del sistema penale. Le carceri nel nostro paese sono veri stabilimenti di tortura dove vengono sottomessi ad ogni tipo di umiliazioni e si rendono vulnerabili i più elementari diritti umani. I rapporti degli organismi internazionali del settore indicano le carceri uruguaiane come le peggiori dell’orbe. Ben lontane dal compiere una funzione di “riabilitazione” o “risocializzazione” le carceri propiziano le condizioni per degradare la propria condizione umana”.
Fiorella Campanella, sociologa e docente di carceri e membro dello staff multidisciplinario della rivista di Unidad Popular, è stata ancora più precisa: “La società nel suo insieme e alcuni dirigenti politici cercano di guardare altrove quando si parla del sistema carcerario. Bisogna essere lì per vedere cosa succede. Il degrado là dentro raggiunge livelli impensabili”.
Ma ha aggiunto anche: “Nel momento in cui le persone non hanno la possibilità di soddisfare le proprie necessità basiche e condizioni materiali dignitose, la violenza continuerà ad aumentare. L’esclusione, la frammentazione e l’emarginazione rispondono ad un modello economico e politico che privilegia una minoranza a danno della maggioranza. Questa maggioranza è esclusa dal poter accedere ad una vita degna, ad una buona educazione, ad un lavoro degno o ad essere in grado di far fronte alla propria quotidianità”.
Nella tavola rotonda al Parlamento, la nostra collega di Antimafia Dos Mil, Erika País, ha fatto riferimento a esperienze vissute negli anni novanta nel carcere femminile in via Cabildo a Montevideo, evidenziando che in quel tempo si raggiunse un basso livello di reincidenza e che un gruppo di recluse decise di lavorare contro la violazione dei diritti umani che avveniva nel sistema carcerario in quel momento.
Nonostante la situazione delle persone private della loro libertà negli anni '90 fosse diversa si poteva già prevedere un futuro peggioramento. Se guardiamo il panorama attuale la situazione infatti è terrificante. E non lo dice soltanto Unidad Popular, ma questa visione è condivisa da tecnici non appartenenti a questo schieramento politico, come ad esempio l’ex ‘Commisario Parlamentare’ per il sistema penitenziario Dr. Alvaro Garcé e quello attuale, l’avvocato e giornalista Juan Miguel Petit.
Alvaro Gracé, in una recente intervista alla stampa locale è stato categorico: “L’indice di morti ha superato ogni limite storico. Oggi il tasso di omicidi all’interno del sistema carcerario supera di 30 volte la media degli omicidi in generale (otto ogni 100.000 abitanti) e se facciamo il calcolo esclusivamente nel COMCAR, il livello di morti è praticamente comparabile a quello di un territorio che vive un conflitto armato. In realtà c’è un conflitto permanente tra persone armate e realmente non capisco la mancanza di risposta da parte delle autorità del ministero di fronte a questa crisi”. Garcé ha sottolineato che le carceri “oggi sono una bomba di tempo” proponendo di tagliare gli episodi di violenza con delle misure a breve, medio e lungo termine.
Il suo successore nella carica di Commisario Parlamentare Dr. Juan Miguel Petit, a metà giugno di quest’anno, ha riferito in un rapporto presentato alla Comisión de Seguimiento del Sistema Carcelario: “la situazione che si vive nei moduli 8, 10 e 11 del Comcar è esplosiva e grave. Questi moduli ospitano circa il 18% del sistema penitenziario totale. Le condizioni di reclusione sono molto negative, vi è l’ozio compulsivo, isolamento, reclusi che non escono dalla cella per settimane in un clima di scontro e violenza che genera costantemente fatti di sangue. Dal mese di aprile ad oggi sono morti sei reclusi in quei settori e ci sono stati numerosi scontri con feriti anche gravi”.
Secondo quanto riferito dalla stampa il Dr. Petit, in quei giorni presentò al Ministero dell’Interno “diverse comunicazioni con delle raccomandazioni concrete per far fronte alle gravi carenze che intendiamo che non solo si devono, ma possono anche, essere risolte mediante un’azione istituzionale ben definita. Fino ad oggi le misure intraprese non implicano un cambio sostanziale di questa realtà che interessa circa la quinta parte del sistema penitenziario complessivo. L’insieme delle misure adottate ed i tempi in cui diventano esecutive sono inadatte ad una situazione che interessa 1.800 persone in condizioni di reclusione e, soprattutto, non contemplano un programma socioeducativo che permetta di far fronte alle situazioni che hanno portato queste persone a commettere atti violenti”.
Antecedentemente a questo rapporto, il Dr. Petit avrebbe dichiarato in riferimento ai moduli più conflittuali: “L’attuale clima di deterioro e violenza può essere superato solo con un progetto educativo”.
Adesso è utile riprendere il punto di vista del rapporto tecnico di Unidad Popular, in particolare il capitolo “Educación en contextos de encierro” (Educazione in un contesto di reclusione). Docenti membri della Comisión de Trabajo sobre Violencia Social y Seguridad Ciudadana, della rivista “Rompiendo Rejas” hanno dichiarato che: “Una delle principali difficoltà che si trovano ad affrontare docenti e studenti in condizioni di reclusione sono i meccanismi di funzionamento affinché diventi effettivo il fatto educativo, dovuto alle dinamiche interne dei centri di reclusione che certamente non sono pensate per accogliere dei modelli di natura pedagogica. Le situazioni sono diverse secondo il centro penitenziario in questione; le carceri di Libertad (nel dipartimento di San José, che dista circa 50 km dalla capitale uruguaiana, e utilizzato in passato dai militari della dittatura come centro di reclusione per prigionieri politici) e Comcar, sono quelle che presentano le peggiori condizioni per uno sviluppo educativo. In primo luogo, lo spazio fisico dove si tengono lezioni sono le celle, cioè, il progetto educativo si svolge tra le sbarre. Che implica una contradizione persino ontologica”.
Rimanendo sul tema, il rapporto di Unidad Popular indica con chiarezza un aspetto preoccupante: “uno dei maggiori impedimenti all’ora di accedere allo spazio educativo è il filtro della polizia, vale a dire, che aspetta alla polizia decidere se la persona può uscire dalla cella per studiare, ponendo sempre in primo luogo la questione “della sicurezza”. L’educazione è vista come un premio-castigo, non come un diritto umano. Coloro che sono sanzionati –secondo l’entità della sanzione- non avranno diritto di uscire a studiare ed è un fatto al quale ci opponiamo con determinazione. A questo proposito, i tecnici indipendenti del Ministero dell’Interno devono svolgere un ruolo attivo per evitare l’arbitrarietà del personale della polizia. Che ci sia un progetto di Educazione è considerato dalla maggior parte dei direttori “semplicemente una direttiva” che deve essere compatibile con la sicurezza. Consapevoli che la sicurezza è il compito che aspetta al funzionario di polizia in un centro di detenzione, sarà conveniente che questa funzione non ostacoli il corretto svolgimento del programma educativo. Premettendo che le esperienze sono diverse, un’altra problematica che si presenta è che le persone private della libertà rinchiusi in settori diversi all’interno dello stesso centro penitenziario, non possono stare insieme al momento di seguire le lezioni. Ciò pregiudica nel periodo scolastico, giacché ci sono continuamente trasferimenti di settore. Succede anche che molte volte ci sono trasferimenti proprio verso altri centri penitenziari e ciò contribuisce alla diserzione educativa. Vi è una burocrazia pesante e lenta in quanto alla documentazione e accreditamento degli studenti”.
L’esposizione di Unidad Popular mostra una corrente umanista nei riguardi della realtà del sistema carcerario. Una corrente umanista che si oppone decisamente alla corrente predominante nella società uruguaiana.
La reclusione non è la soluzione. E tanto meno lo è mortificare le persone private dalla libertà. Perché ciò ci degrada come umanità e degrada le istituzioni, oltre a incorrere in ripetute violazioni degli articoli della Costituzione della Repubblica.
Spesso parliamo di violazioni di diritti umani. E non pochi si chiederanno sui diritti umani delle persone che hanno perso i loro cari per mano della delinquenza. La risposta è che anche se effettivamente sono stati violati i diritti dei cittadini, quando persone disadattate esercitano violenza nelle strade a scopo di rapina (che a volte degenera in omicidi orrendi), ciò non giustifica che lo Stato addotti un comportamento simile al loro o che agisca in modo illegale. Perché? Perché la violenza sociale ha una sola radice: il non essere capaci di comprendere che quando l’essere umano vive discriminazioni, quando si sente escluso, quando soffre molteplici sofferenze, frutto delle differenze economiche e di opportunità di vita; tra altri mali imposti da settori sociali insensibili e dominanti grazie al capitale finanziario che regola la loro vita, può perfettamente prendere la strada sbagliata che lo porta al delitto. Sarebbe come lasciar intendere o accettare molto sottilmente che trasgredire e non rispettare il prossimo è una forma di vita, o ancora di più: è l’unico modo di sopravvivere.
L’ex giudice penale e attuale presidente dell’Istituzione Nazionale dei Diritti Umani, Mirtha Guianze, rispondendo ai diversi attori del sistema giudiziario ha detto: “L'Uruguay ha l’abitudine della reclusione; sembra che la reclusione appunto sani tutti, ma non risolve tutto. C’è un indice allarmante di reclusione che molte volte parte dai bambini che per diverse ragioni rimangono sotto la custodia dell’Istituto del Bambino e dell’Adolescente dell’Uruguay (INAU)”.
Il tema, così come viene affrontato in queste pagine, può risultare arido per molti e polemico per altri. Può essere complicato, imbarazzante e persino scomodo per certi interessi. Credo però sia tempo di assumerci le nostre responsabilità su questo tema.
Realizzare che tutti siamo responsabili del bene e del male che accade nella nostra società e questo non deve essere motivo per lacerarci le vesti. Ma piuttosto potremmo iniziare ad assistere persone e famiglie di scarse risorse (poveri e marginali) in quartieri di zone rosse, come il Marconi, il Cuarenta Semanas o Cerro Norte). Impossibile che accada perché sono quartieri dominati dalla malavita, dalla povertà e dalla disperazione.
Negli ultimi giorni c’è stata ogni sorta di manifestazione reclamando repressione e ancora più repressione. È stato chiesto al Ministero dell’Interno più presenza e più risposta della polizia nelle strade. È stata criticata duramente la gestione del Ministro dell’Interno Eduardo Bonomi ed i partiti di opposizione, prevalentemente quelli tradizionali, stanno strumentalizzando la sua interrogazione parlamentare. Quotidiani e telegiornali hanno versato fiumi di inchiostro e dedicato lunghi minuti di programmazione, rispettivamente, per diffondere report speciali o coperture dei fatti violenti degli ultimi tempi. Sono state promossi e ospitati dibattiti in tutti i mezzi di comunicazione e le reti sociali si sono dimostrate molto attive. Sono state lanciate critiche al Potere Giudiziario incrementando l'odio. La chiave si trova proprio nella sottigliezza di promuovere politiche sociali preventive e non escludere chi è emarginato e rinchiuso.
Perché non dobbiamo dimenticare che l’atto di delinquere è l’inesorabile conseguenza di una concatenazione di situazioni generate dagli spazi vuoti che le istituzioni dello Stato hanno lasciato negli ultimi dieci anni, puntualmente nei quartieri dove le carenze (di ogni tipo e forma) predominano quotidianamente fino a convertirsi in una forma di vita o in una cultura di vita che guarda la società che lo circonda con risentimento e ostilità. E le politiche sociali di prevenzione, di un governo progressista (di “sinistra”) dove sono rimaste ancorate? Sicuramente nell’inerzia, perché altrimenti non saremo arrivati al punto in cui siamo.
Non dobbiamo dimenticare che quando vengono “rinchiuse” persone, lo Stato ha degli obblighi (ai quali non sta adempiendo), ma anche la società ce l’ha. Ed è quello il concetto che ci viene difficile da assimilare. Non dobbiamo dimenticare che quando “rinchiudono” persone o giovani (e anche bambini), un giorno torneranno in libertà. E se “loro” hanno vissuto in un “inferno” la catena del deterioramento non si spezzerà, ma si amplificherà.
Tutto rimarrà al punto di partenza, non ci sarà la tanto augurata pace. È così difficile rendersi conto allo stato dei fatti che, mentre avviene tutto questo nella società uruguaiana, c’è già chi - facendo parte del crimine organizzato e di gruppi mafiosi del narcotraffico -, ne traggono (e trarranno) un buon vantaggio da questo panorama attuale?
Se ciò che ci auguriamo è vivere in una società pacifica, dobbiamo prima lavorare per costruire una società giusta senza disuguaglianze. Non è sufficiente piangere i nostri morti e colpevolizzare indiscriminatamente.
Sarebbe un posizione comoda ed egoista (oltre che ipocrita).
(10 ottobre 2016)
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