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fossaceca ritaKenya
di Paolo G. Brera

Ricostruito l’assalto nella missione di Mijomboni durante il quale è stata assassinata la radiologa italiana La Fossaceca ha affrontato i banditi che minacciavano la sua famiglia. È morta per un colpo di pistola al petto.
Che se la prendessero con mamma e papà, ecco cosa non ha potuto sopportare Rita Fossaceca, il radiologo 51enne dell’ospedale Maggiore di Novara in missione in Kenya per gestire l’orfanotrofio e l’infermeria della onlus Pro Life. Sabato sera, quando ha cercato di difenderli l’hanno uccisa con una pistolettata in pieno petto nella villetta di Watamu, a pochi chilometri dal Villaggio del fanciullo di Mijomboni in cui aveva appena terminato le sue due settimane di volontariato. Le ha sparato per rabbia e sfrontatezza uno dei balordi di una delle tante bande di rapinatori che stanno sistematicamente assaltando le ville degli stranieri con violenza inaudita. Dieci giorni fa hanno tagliato una mano col machete persino al corrispondente consolare italiano a Watamu, Giovanni Parazzi: «Davanti alle ville ci sono sempre guardie private ma servono a poco, non possono portare armi e al massimo possono darsela a gambe e chiamare la polizia».
Forse qualcuno ha tradito: i rapinatori probabilmente sapevano che quella era la loro ultima occasione. Rita e gli altri cinque volontari italiani - tra i quali «babu Giovanni», come lei stessa e i bambini dell’orfanotrofio chiamano affettuosamente suo padre; e mamma Michelina Di Lella, che aveva paura di volare ma stavolta si era fatta forza e le aveva regalato il sogno di esserle accanto - sarebbero ripartiti ieri per Malpensa, arrivederci Kenya e alla prossima. Invece i banditi hanno saltato il muro di pietra della villetta alla periferia di Watamu e hanno puntato dritto sugli anziani, urlando di dare loro tutto quello che avevano. E per convincerli hanno alzato subito le mani, picchiando duro. È a quel punto, quando li ha visti strattonati e minacciati e colpiti, che la dottoressa ha fatto scudo alla madre urlando a quei pazzi di fermarsi e di metter giù le mani e le armi. Ed è partito un colpo secco al petto.
Erano partiti per il Kenya venerdì 13 da Malpensa: accanto a Rita e ai genitori c’erano lo zio materno, don Luigi Di Lella; e due infermiere, Paola Lenghini e Monica Zanellato. Papà, mamma e zio della dottoressa sono ricoverati a Malindi in condizioni non gravi ma rese più difficili, nel caso del padre, da una cardiopatia. Le due infermiere, strattonate e ancora scioccate ma in buone condioni fisiche, rientreranno in Italia mercoledì. Il corpo di Rita, invece, rientrerà coi genitori e lo zio nei prossimi giorni, appena saranno dimessi. Originaria di Trivento, in provincia di Campobasso, Rita Fossaceca lavorava al Maggiore di Novara come responsabile della radiologia interventistica nel  reparto diretto da Alessandro Carriero, fondatore di For Life. Degli uomini che l’hanno uccisa per «pochi spiccioli e un iPad», per ora non ci sono tracce.


La vittima
L’Africa nel cuore e l’ultimo sogno portare in Italia quelle bambine
Doris e Sofia erano due keniane che la radiologa considerava come figlie. “Spero di farle studiare da noi”, aveva confidato a un collega
di Franco Vanni
Novara. Uno degli ultimi messaggi di Rita Fossaceca, inviato a una collega dell’ospedale di Novara: «I bambini mi danno soddisfazioni inimmaginabili. Non vedo l’ora che le piccole diventino ragazze e che possano studiare in Italia, o dove sognano di farlo». Le piccole sono due bambine kenyane, ospiti dell’orfanotrofio di Mjomboni, dove Rita è stata uccisa. Si chiamano Doris e Sofia, hanno poco meno di dieci anni. «Erano le sue figlie, da quando cinque anni fa decise di adottarle a distanza, mantenerle, seguirle», racconta Alessandro Carriero, medico a Novara come Rita e fondatore della onlus For Life.
L’accordo raggiunto da Rita Fossaceca con le autorità kenyane era che le bambine al compimento dei 18 anni sarebbero venute a vivere in Italia. «Le sentiva tramite Skype ogni settimana - racconta Anna Gambaro, medico e vicina di stanza di Rita per tanti anni al reparto di Radiologia - alle bambine non faceva mancare nulla. Festeggiava a distanza i loro piccoli successi in orfanotrofio e appena poteva le andava a trovare. La chiamavano “mamma”».
Rita Fossaceca è morta a 51 anni nel posto che più amava al mondo, facendo quello che aveva scelto di fare. Nell’orfanotrofio vicino a Malindi passava le ferie. Vale a dire, il solo tempo libero dalla vita di ospedale, dove negli anni era arrivata a essere responsabile della Radiologia interventistica. Una carriera sempre vissuta come missione. «Il giorno in cui fu promossa - ricorda Carriero - mi disse: Alessandro, ora finalmente possiamo fare sul serio nell’aiutare gli altri».

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Rita Fossaceca, la dottoressa molisana uccisa in Kenya. Nella foto anche don Luigi Di Lella, lo zio sacerdote (© Ansa)


La missione, intesa nel senso proprio di aiuto ai poveri, era il suo sogno fin da bambina, a Trivento, paese da 5mila anime in provincia di Campobasso. E rimase la sua bussola anche negli anni di studio a Medicina, all’Università di Chieti e Pescara. «Ci conoscemmo il primo giorno di lezioni. Mi disse: “questo è un passaggio, la meta è l’Africa”», scrive ora su Facebook un’ex compagna di corso. Se l’Africa era la meta, la famiglia per Rita era il rifugio. Soprattutto da quando il lavoro la aveva portata a Novara, a vivere sola in un appartamento modesto, a 750 chilometri dalla casa dei genitori. Come era riuscita a convincere due infermiere del suo reparto a seguirla in Kenya, così aveva fatto con i genitori. I testimoni raccontano che Rita sia morta per proteggere la madre dalla minaccia di un macete. Rita aveva un compagno. «Lo amava, ne parlava poco, proteggeva il suo amore», dice un’amica.
«Era l’orgoglio della nostra famiglia. Un esempio e un onore per tutto il paese», dice Tonino, cugino di Rita, che vive a Trivento. Il sindaco, Domenico Santorelli, la ricorda come «una donna straordinaria, un medico eccellente, una persona speciale che con la sua fede, il suo impegno e la sua dedizione totale ha reso migliore l’umanità». E si prepara ad accoglierla per l’ultimo saluto, quando il corpo sarà volato in Italia.
Rita era credente. Di più, «faceva vivere il Vangelo», come dice il vescovo di Novara, Franco Giulio Brambilla. La sua guida era Don Luigi Di Lella, lo zio sacerdote. Era con lei al momento dell’agguato. È stato lui, senza paramenti e con le lacrime agli occhi, a celebrare l’estrema unzione per la nipote che adorava. Un raccoglimento durato un attimo appena, fra i venti bambini a cui Rita aveva deciso di donare la vita, le guardie armate, i feriti.
«Quello che l’assassino di Rita non ha potuto uccidere è il suo messaggio - dice il dottor Carriero, commosso - avrebbe voluto che noi continuassimo a fare del bene. E lo faremo». Domani, alle 12, l’ospedale maggiore della Carità di Novara si fermerà per un minuto. «Uno soltanto, di più Rita non avrebbe voluto», sorride una collega. E ricorda che «la finestra del suo studio, al padiglione C'era sempre l’ultima a restare illuminata. Per lei il lavoro non finiva nemmeno quando era terminato». Un lavoro che, finiti i turni in ospedale, proseguiva all’Università del Piemonte orientale. Il presidente della Scuola di Medicina, Giorgio Bellomo, presto le avrebbe comunicato la nomina a professore associato. Ma non era la carriera a preoccupare Rita. Erano le mucche. Perchè le mucche portano latte. E il latte, nell’orfanotrofio di Mjomboni è vita. «Dopo una serie di giri nelle fattorie, abbiamo acquistato una mucca - scrive Rita a Carriero prima di morire - è incinta, avremo un vitellino. E, finalmente, il latte per il villaggio».

Tratto da: La Repubblica del 30 novembre 2015

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