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kazimi sayed abbasdi Valerio Cataldi
“Io direi che siete molto fortunati perché fate questo mestiere in un contesto di pace, sicuro. In Afghanistan per un giornalista lanciare una notizia e farla arrivare alla gente può costare anche la sua vita.” Abbas Kazimi (in foto a destra) è in Italia da poche ore quando ci incontriamo. Respira un’aria diversa, dice “mi rendo conto che qui sono al sicuro.” L’aereo che l’ha portato via da Kabul è atterrato a Milano e lungo la strada ha avuto tempo per percepire la differenza. Sulla sua testa pesa una condanna a morte pronunciata da pochi giorni dal sedicente “stato islamico di Afghanistan” i talebani, che sono tornati ad essere forti e che non gradiscono l’esistenza di una stampa libera che Abbas dice sia in effetti la sola vera conseguenza positiva della guerra lanciata dall’occidente nel suo paese contro la minaccia integralista.

Abbas Kazimi è vicecaporedattore di Tolonews, la principale emittente tv dell’Aghanistan. La sua storia arriva al seminario di Redattore Sociale con un po’ di fatica. Uscire dall’Afghanistan con un visto non è semplice, mentre per chi deve scappare per salvarsi la vita è molto più facile pagare e affidarsi ai trafficanti di uomini. Per riuscire a portarlo in Italia abbiamo dovuto insistere a lungo.

“Voi sapete che in Afghanistan ci sono tanti gruppi di integralisti che commettono delle violenze atroci contro i civili. Anche gli ex mujaheddin hanno un enorme potere politico in questo momento. Quando questi gruppi commettono un crimine, noi giornalisti che abbiamo il dovere di raccontare quello che succede, possiamo pagare questo dovere in modo molto caro.”

Abbas Kazimi viene dal paese nel quale l’occidente ha preteso di “esportare” la democrazia. Ci porta l’esperienza del pericolo di lavorare in un contesto nel quale gli integralismi sono tornati a prendersi potere e controllo di grandi porzioni di territorio, ma ci porta anche un esempio di giornalismo che il nostro paese libero non conosce. È un “misuratore di realizzazione delle promesse” fatte in campagna elettorale dal governo di unità nazionale attualmente in carica. Si chiama “dalle parole ai fatti”, un sito internet consultabile da tutti gli afghani (govmeter.tolonews.com) e dice che nei 428 giorni di governo solo il 7 per cento delle promesse sono state realizzate, il 30 per cento sono in “lavorazione” mentre il 61 per cento sono completamente inattive e tra queste ci sono le principali istanze che riguardano i diritti umani.

“Tutto questo ci ha reso la vita piuttosto difficile. Il governo non ha affatto gradito l’esistenza di questo sito. L’ostilità del potere si è manifestata subito, ma è diventata davvero concreta nel momento in cui ha deciso di non difenderci dalle minacce di morte dei talebani”.

In ottobre Tolonews manda in onda una serie di servizi da Kunduz nel quale racconta delle violenze e dei crimini commessi dai talebani che hanno occupato la città. Il 18 ottobre racconta delle violenze commesse nell’ostello femminile dell’università dove molte studentesse erano state sequestrate e violentate. Tolonews è la sola emittente che ha raccontato quei fatti. Due giorni dopo il sedicente stato islamico di Afghanistan ha emesso un comunicato formale nel quale mostrava le fotografie di tutti i giornalisti e dei dipendenti di Tolonews indicando ognuno di loro come “obiettivo militare”, l’accusa è che l’emittente fa propaganda a favore degli invasori americani, viene finanziata dall’occidente e lavora contro la Jihad. I talebani invitano il popolo afghano ad isolare il canale tv e tutte le persone che ci lavorano.

“Tutti i dipendenti di Tolonews hanno subito le conseguenze di queste minacce, dice Abbas. La vita di ognuno di noi è cambiata radicalmente. I più esposti hanno lasciato il paese, gli altri hanno iniziato a vivere e a lavorare nel terrore. Le violenze dei talebani le conosco da tempo, so cosa significa vivere in un paese dove non sai mai se sopravviverai fino al giorno dopo, ma diventare un obiettivo militare è un altra cosa. La paura nasce dalla paura che vedo negli altri, nelle persone che hanno smesso di avere contatti con me per paura di essere colpiti a loro volta.”

Abbas Kazimi ha 25 anni, i lineamenti di un ragazzino e lo sguardo dritto di un uomo. La sua storia viene ascoltata con grande attenzione da una sala affollata nel seminario di Redattore Sociale.
“Continuerò a fare il mio mestiere” dice Abbas. “La minaccia dei talebani non mi deve impedire di andare avanti. Voglio continuare a fare questo lavoro finché potrò.”
Gli applausi fragorosi riempiono d’orgoglio Abbas Kazimi che per la prima volta è uscito dall’Afghanistan e per la prima volta si è confrontato con giornalisti di un mondo diverso e lontano dal suo. Per la prima volta è entrato in una chiesa in queste ore, più per curiosità che per altro, e per la prima volta ha mangiato mozzarella che chiama “il formaggio della pizza”. Respira un’aria diversa Abbas Kazimi che sa che le minacce sono reali e che il rischio è più che concreto e sa anche che per andare avanti, per continuare a fare questo lavoro bisogna essere vivi. “Il mio paese vive una condizione che spesso il mondo non vuole riconoscere. La ragione per cui tanti afghani vengono in Europa a chiedere protezione internazionale è questa: scappano dalla morte e dalle violenze di questi gruppi radicali che non si fermano di fronte a niente e che sono sempre più forti. Quello che l’Europa deve capire, e di cui io voglio farmi portavoce, è che l’orrore che ha colpito Parigi e che oggi fa tanta paura all’occidente è lo stesso che terrorizza e uccide nel mio paese da tanto tempo. La guerra degli americani, che pure ha portato benefici, non è riuscita a fermarli. Oggi più che mai è necessario che tutti vedano e sappiano quello che succede nel mio paese.”
Abbas Kazimi ha una bella stretta di mano, va via insieme a Syed Hasnani che vive in Italia e mi ha fatto conoscere Abbas. In questi giorni ha tradotto le sue parole e ha messo da parte la sua incredibile storia di rifugiato che è iniziata quando aveva dieci anni e sua madre lo ha fatto scappare dai campi di addestramento dove volevano chiuderlo i talebani. Una storia identica a quella che riportano oggi alcuni giornali italiani, riprendendo un servizio di Tolonews.
(29 novembre 2015)

Tratto da: articolo21.org

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