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brasile-bandiera-mondiali2014di Maurizio Chierici - 8 giugno 2014
In origine fu Uruguay ‘30. Poi Brasile ‘50 e Cile ‘62 tra i due tornei in Messico, nel ‘70 e nell‘86, l’emblematico Argentina ‘78. Storie di mondiali latini dai governi in divisa
La novità della Coppa del mondo è un’America Latina in borghese, finalmente governi senza divise e polizia che contengono e non schiacciano le proteste. Che non si spengono: rabbia dei 45 milioni di senza niente, neanche l’acqua in casa. Non sopportano i capitali “sperperati” nello splendore dei 12 campi da gioco che galleggiano come astronavi. I paesi attorno danno una mano con i loro agenti travestiti da ultrà nella speranza che gli scontenti della sesta potenza industriale del mondo non rovinino la sagra dei gol.

La prima volta è successo nell’Uruguay del 1930, Svizzera sudamericana inginocchiata dalle giornate nere di Wall Street, Borse che precipitano nella prima crisi del secolo. La borghesia uruguayana aveva ammorbidito i militari con la cultura di mille librerie invidiate dalla Buenos Aires di Borges. Paese improvvisamente moderno disegnato dal presidente José Battle Ordonez, massone per dovere: nessun capo di Stato arrivava alla poltrona se non esce dalle logge cresciute a Montevideo nell’Ottocento del Garibaldi eroe anche di questo mondo. A differenza dei paesi attorno dove il cattolicesimo accompagna il potere, l’Uruguay ritocca il calendario: Natale diventa “festa dei bambini”, Pasqua “festa del turismo”. Il presidente che accoglie gli Azzurri sbarcati dal piroscafo Conte Verde si chiama Juan Capisteguy. Debolissimo. Il partito Colorado sta preparando le sue dittature. Si annuncia l’elezione del presidente Gabriel Terra il quale subito monta un colpo di Stato, cambia la Costituzione, scioglie il Parlamento, ammutolisce la stampa. L’Italia di Mussolini respira aria a casa.

Nel 1950 è il Brasile padrone di casa, ma l’agitazione politica non cambia. Si gioca mentre brucia un’altra campagna elettorale. Se adesso Dilma Rousseff, Partito dei Lavoratori, spera nella rielezione di ottobre, 64 anni prima Getulio Vargas scalava il secondo mandato con una rincorsa travagliata. Liberal, tra virgolette, nel ‘30 rovescia il presidente con un colpo di Stato imponendo una giunta militare che guida nella scrittura della nuova Costituzione detta “polacca” per la somiglianza con la Carta dei colonnelli neri di Varsavia e un po’ ispirata alla magna charta del Salazar portoghese amico di Franco. In Alte uniformi e camicie da notte Jorge Amado racconta, nel travestimento di un accademico delle lettere, i dubbi di Getulio Vargas: con Hitler o con gli alleati? Sceglie Washington e riapre la corsa alla seconda presidenza. Quel 1950. Sui brasiliani, sfiniti dalla politica, si abbatte la sciagura della sconfitta: l’Uruguay di Ghiggia e Schiaffino infilano i padroni di casa fra le lacrime del Maracanà, mentre il Vargas presidente viene lapidato da giornali impietosi. La coalizione lo abbandona, l’economia non si raddrizza e la corruzione dilaga. I militari insorgono, Getulio si uccide. Le tragedie continuano nel continente degli uomini forti.

Buenos Aires 1978: il silenzio degli oppressi fa più rumore del tifo dei padroni di casa. Generale presidente dopo un colpo di Stato, Videla avvolge l’Argentina nella rete delle prigioni segrete. Trentamila ragazzi non ne usciranno mai. Indignazione che scuote il mondo del pallone. Campionissimi come Johan Cruijff e Paul Breitner (Olanda e Germania squadre favorite) restano a casa per far capire il sacrilegio di un torneo costruito fra i lager. Non se la sentono di ricevere la Coppa della vittoria dalle mani sporche del dittatore. Videla, l’ammiraglio Massera non erano soli. Appoggio invisibile dell’Amministrazione Reagan e la collaborazione della P2: Licio Gelli superstar allunga la propaganda al Giornale degli Italiani che si pubblica a Buenos Aires, proprietà Rizzoli-Corriere della Sera feudo della loggia deviata. Con la valigia pronta, non parte Enzo Biagi: voleva raccontare il paese della paura, ma il direttore P2 del Corriere videla-coppa-mondo-argentina(Franco Di Bella) pretende scanzonati articoli di colore. Enzo non ci sta. Anni dell’operazione Condor disegnata da Kissinger. L’internazionale della repressione riunisce i generali del cono sud: Pinochet, Videla, Aparicio Méndes (Uruguay) e il Paraguay di Stroessner da sempre al potere. Chi scappa non ha speranza: mezzo continente lo insegue. Ma in Brasile sta per succedere qualcosa: il generale Figuereido annacqua l’autoritarismo, mentre l’Uruguay dei generali P2 ospita il Mundialito, torneo per le squadre campioni del mondo. Spettacolo mediocre. Cambia qualcosa solo nelle abitudini italiane: a Montevideo comincia la marcia su Roma di Berlusconi. La ragnatela P2 strappa alla Rai la diretta delle partite. La legge lo proibisce, eppure Artemio Franchi, vicepresidente Fifa, tessera P2 402 favorisce i passaggi che lasciano a mani vuote la Tv pubblica: solo la Fininvest può raccontare la Coppa. Craxi dà una mano e l’informazione per sempre cambia. Come nella Buenos Aires di Videla, anche la Montevideo dalle logge armate scatena polemiche a casa nostra. Castagner, allenatore della Lazio e Santarini, difensore della Roma, firmano un documento contro repressione, torture e fame nel paese dei militari. Ma Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport (gestione P2) si imbarcano nell’esaltazione del Mundialito “più affascinante del mondo”. Cosa dire della cornice politica del Campionato Messico 1986? Meno feroce, ma non diverso dalla Coppa giocata fra le nuvole nel 1970: non solo le rivolte dei popoli indigeni diseredati, nelle piazze anche gli studenti dell’Università Metropolitana, Unma, laboratorio delle inquietudini che formano la vocazione di un giovane professore di filosofia, Rafael Sebastian Guillén Vicente. Cambia nome nelle montagne del Chiapas: Subcomandante Marcos. Nessuna novità sociale e politica perché, per 70 anni, ogni potere resta nelle mani del Partito rivoluzionario istituzionale, matassa burocratica dei notabili che emarginano i diseredati e reprimono la libertà. Se ne vanno nel 2002, tornano nel 2012, chissà se la storia ricomincia.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano dell'8 giugno 2014

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