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romero-oscardi Maurizio Chierici - 22 aprile 2014
Mentre la Tv distribuisce i miracoli di Medjugorje predicati da Paolo Brosio, il papa annuncia un santo al quale manca un miracolo “teologicamente dimostrato”: Giovanni XXIII sugli altari assieme a Wojtyla. Bergoglio rompe la regola già sconsiderata nella beatificazione di padre Puglisi assassinato dalla mafia. Nessun prodigio oltre all’amore che sfidava le ombre nere.
Un anno fa il papa chiede la beatificazione di Romero, vescovo del Salvador sgradito ai cardinali romanocentrici. Frenavano il postulatore Vincenzo Paglia, presidente del Concilio Pontificio per la Famiglia. Memoria rinnegata mentre il piccolo pastore è venerato nelle chiese luterane, chiese anglicane: ne ricordano il martirio il 24 marzo, giorno di quei colpi sull’altare. Ma all’ingresso della piccola cattedrale di Sao Felix do Xingu, Amazzonia brasiliana, anche Pedro Casaldaliga espone il ritratto del piccolo pastore “santo del popolo e delle Americhe”. Stravaganza che non sopporta il cardinale Ratzinger, allora prefetto per la dottrina della Chiesa.

Nel motto dello stemma il vescovo catalano promette di “nulla possedere, nulla chiedere, nulla tacere”. Si confonde fra gli indios della diocesi: berretto da baseball, sandali infradito che “avviliscono la dignità episcopale”. Altra cattedrale: nella navata di fianco all’altare di San Salvador il sorriso di Romero era soffocato dagli ex voto per grazia ricevuta. Risalivano al soffitto, si insinuavano fra le statue dei santi dimenticati dalla colonia spagnola: barbe e parrucche fluenti. La visita di Giovanni Paolo II (1996) lo seppellisce nei sotterranei. Politici e colonnelli diffidavano dei devoti che frequentavano cattive compagnie. Romero difendeva i senza niente, quindi nemico insidioso dei padroni di tutto. Un ufficiale (svanito negli Usa della famiglia Bush) alla fine lo uccide. L’arrivo in Vaticano di un papa dalla fine del mondo cambia l’aria delle sacre stanze. Bergoglio ha sofferto la crudeltà dei governi in divisa. In silenzio organizzava la fuga delle vittime predestinate. Pagine segrete che i sopravvissuti riportano alla luce. Ma la disperazione di Romero restava lontana dall’infelicità della borghesia argentina. Salvador, paese piccolo, schiavitù dei contadini nelle mani delle grandi famiglie nutrite dalla bonanza dell’Amministrazione Reagan (6 milioni di dollari al giorno alle squadre della morte) per punire il “tradimento” di un vescovo passato dalle tentazioni Opus Dei al “comunismo dei senza dio”.
Un delirio esportato nell’Europa degli affari. In coda alle omelie elencava i nomi dei mandanti delle stragi: militari e latifondo contro preti, suore, contadini, ragazzi colpevoli di aiutare i disperati nella speranza della dignità per tutti. E Roma guardava da lontano. Quasi un segnale per chi non lo sopportava. Una volta siamo andati a trovarlo nelle due camerette del seminario trasformate in residenza vescovile. Stavamo lasciando San Salvador: dieci delitti ogni notte non fanno notizia nelle nostre soffici città. Ascoltiamo l’ultima omelia. Invita i militari a disobbedire all’ordine di sparare sui senza niente: “Sono vostri fratelli, parlate lo stesso dialetto, cresciuti nelle stesse campagne…”.
Sconvolti dall’estremo coraggio vogliamo sapere: ma non è un’utopia? “Se non credessi nell’utopia sarei vestito così?”. Poi gli abbracci dell’arrivederci. “Quando i giornalisti se ne vanno la luce si spegne. Nell’ombra può succedere tutto…”. Ed è successo. Aspettiamo l’annuncio di Francesco.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 22 aprile 2014

In foto: il monsignor Oscar Arnulfo Romero

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