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madri-plaza-de-mayo-webAl via l’atto finale del processo per i crimini della dittatura: 68 imputati per migliaia di morti
di Anna Vullo - 2 dicembre 2012
Buenos Aires. Ci sono volti tristemente noti come el Tigre Jorge Acosta e l’angelo della morte Alfredo Astiz, con la sua maschera d’indifferenza, già condannati all’ergastolo per delitti di lesa umanità nel secondo filone del processo Esma dell’ottobre 2011.

Assieme a loro, nella sala stracolma del Tribunale di Comodoro Py, a Buenos Aires dove si è aperto il terzo atto del maxi processo Esma, compaiono per la prima volta i profili inquietanti di otto piloti dei famigerati “voli della morte”, con cui ai tempi della dittatura argentina (1976-1983) venivano eliminati, gettandoli in mare o nel rio de la Plata, gli oppositori al regime.

In tutto 68 imputati chiamati a rispondere di quasi 800 sequestri, violenze, torture e omicidi commessi all’interno dell’ex Scuola di Meccanica della Marina militare, in quello che si annuncia come il più imponente processo agli aguzzini dell’epoca buia argentina. Durata prevista: due anni, durante i quali verranno ascoltati quasi 900 testimoni. Julio Poch guarda nel vuoto. Sulle ginocchia un cartello a uso mediatico in spagnolo e olandese: “Sono innocente”. Al termine della dittatura Poch si era rifugiato in Olanda, dove viveva con la moglie e lavorava per la linea aerea Transavia. Venne arrestato in Spagna dopo aver confessato, a una cena tra colleghi, di aver pilotato lui stesso gli aerei da cui vennero lanciati in mare centinaia di uomini e donne.

MOLTI DI LORO non avevano altra colpa se non quella di dissentire con i brutali metodi della dittatura. “Vos te vas para arriba”, te ne vai in cielo, annunciava sadicamente ai prigionieri dei centri di detenzione clandestina el Tigre Acosta, incaricato di far funzionare il campo di tortura dell’Esma e sterminare gli oppositori: almeno cinquemila persone, secondo le ricostruzioni dei sopravvissuti. Insegnanti, studenti, sindacalisti, militanti politici venivano narcotizzati, caricati su camion e trasferiti sui voli della morte. Sulle acque melmose del rio de La Plata si apriva il portellone per l’ultimo viaggio. “Cadevano come formiche”, avrebbe raccontato Emir Sisul Hess, ex pilota di Aerolineas Argentinas anch’egli sul banco degli imputati, a un suo sottoposto. “Conosco questi volti: molti sono stati indagati in Spagna”, commenta Baltasar Garzòn, il magistrato spagnolo che si è occupato dei crimini di Pinochet, giunto a Buenos Aires per assistere al giudizio e lavorare come consulente nella Commissione Diritti Umani della Camera. “Dopo Norimberga non credo ci sia stato un processo di queste dimensioni per crimini di lesa umanità”, dice.

In platea siede Lila Pastorizia, ex desaparecida dell’Esma e oggi tra le animatrici del Centro per la Memoria all’interno dell’ex Scuola della marina; stringe mani Lita Boitano dell’Associazione Familiari dei desaparecidos, origini italiane e due figli inghiottiti nel nulla dalla dittatura, tra le protagoniste del processo che portò, a Roma, alla condanna di Guillermo Suarez Mason, conosciuto come el carnicero del Olimpo, il macellaio di Garage Olimpo, noto centro di tortura della capitale argentina.

I PUBBLICI ministeri leggono i capi d’imputazione relativi ai 798 “casi”, svelando la tragedia umana che si cela dietro ciascuno di essi. Come quella della famiglia di Sergio Tarnopolsky, “caduto” il 13 luglio del 1976. Dopo di lui vennero sequestrati sua moglie, suo padre, sua madre e sua sorella Betina, 15 anni appena: tutti scomparsi. Una lettura che non cessa di essere sconvolgente nemmeno per chi segue da tempo i processi contro i crimini della dittatura: poche frasi scarne per descrivere delitti atroci, corpi sfigurati o bruciati vivi, torture contro bambini, ma sufficienti a dare l’idea delle dimensioni e della sistematicità del piano di sterminio messo a punto dalla giunta militare. “Un vero genocidio”, secondo Ana Maria Careaga, una sopravvissuta. Trentamila desaparecidos: angeli caduti a cui va restituita la memoria. Perché non siano volati in cielo, o in mare, invano.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

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