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dittatura-argentina-webdi Elisa Finocchiaro - 4 ottobre 2012
Un generale, tre colonnelli e due ufficiali superiori della marina argentina sono stati riconosciuti colpevoli di crimini contro l’umanità e condannati all’ergastolo per l’uccisione e la tortura di 85 prigionieri nei tristemente famosi centri clandestini di detenzione, durante il periodo della dittatura, fra il 1976 e il 1983. Si stima che la dittatura argentina abbia causato 30.000 vittime. I processi, sono cominciati soltanto nel 2008, quando Kirchner fece abolire la legge che garantiva l’impunità a chi commise quei crimini. Da allora sono 61 i processi conclusi, con 270 condanne.Altri 15 processi sono ancora in corso.

Eppure molti dei militari responsabili del centro di detenzione di Susana, El “Vesubio”, sono morti a casa, di vecchiaia, dichiarandosi eroi della patria. Susana Reyes la conobbi due anni fa, una bellissima donna, tutto quello che aveva passato non sembrava aver segnato minimamente il suo corpo. Nel ’77 era stata sequestrata insieme al marito Osvaldo dai militari e rinchiusa nel “Vesubio”, a Buenos Aires: “Io non facevo la lotta armata, io facevo alfabetizzazione. Stavamo festeggiando la novità della gravidanza, quando irruppero in casa e ci sequestrarono”.

Osvaldo non è mai uscito vivo dal Vesubio, mentre Susana, incinta, venne rilasciata, dopo tre mesi di tortura: “Mi trovavo nella fortuna di essere tra i pochissimi sopravvissuti ai centri di detenzione e tortura, per giunta con un figlio accanto, cosa ben rara, perché a quei tempi i bambini li rubavano. Eppure questa grazia mi faceva sentire estremamente in colpa. Dovevo costruire qualcosa, qualcosa di collettivo, mettermi in quella giustizia che non viene giudicata nei tribunali.”

E così nel ’98 Susana creò una scuola primaria per più di cento ragazzi di strada. “Per me questi ragazzi sono i desaparecidos di oggi, perché tutti gli sono indifferenti, e perché soffrono la violenza, la violenza della strada. Sono il risultato del piano liberista che la dittatura inaugurò e che culminò con il crack economico”, mi disse Susana. Juan Pablo, suo figlio, quello che Susana aveva avuto in pancia da detenuta, mi mostrò il videoclip musicale che gli studenti avevano girato durante il laboratorio di video: “il nostro è un mondo al contrario, dove il cattivo continua a vivere e il buono muore, dove se sei piccolo sei solo, dove il tuo amico domani può diventare tuo nemico”, cantavano i ragazzi.

I ragazzi della Arancibia svolgevano una infinità di lavori: lavavano macchine, aprivano portiere, raccoglievano cartoni, si prostituivano, anche. Julian ad esempio aveva quindici anni e due lavori. Dalle nove all’una di mattina andava a scuola. Dalle quattro di pomeriggio alle otto lavorava in una falegnameria, e dalle nove di sera alle cinque di mattina faceva il garzone in una fioreria.

Nei giorni in cui conobbi Susana, era appena cominciato il processo contro i responsabili – i pochi rimasti ancora in vita – del Centro clandestino di detenzione Vesubio, così andai con loro in tribunale, per assistere all’apertura del processo.

Eravamo dietro ad un vetro, e aldilà del vetro, davanti a noi, stavano schierati i militari imputati, dall’aspetto tronfio, sebbene imbiancati. Erano soltanto alcuni degli aguzzini di Susana, Osvaldo, e tanti altri. Nessuno di loro si dichiarò pentito, erano convinti di aver protetto la patria dai sovversivi. Peccato che nella cella accanto a quella di Susana ci fosse anche un ragazzino di 14 anni. Peccato che tanti avessero soltanto l’età dei ragazzi della “Isauro Arancibia”.

Tratto da: ilfattoquotidiano.it

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