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di Gabriele Battaglia - da Pechino - 24 aprile 2012
Nonno Wen” ha cominciato dall’Islanda la sua visita di quattro stati europei. Trecentoventimila anime nell’Atlantico del nord hanno avuto la precedenza sui tedeschi (secondi), svedesi (terzi) e polacchi (quarti) e non tutti l’hanno accolto bene: qualcuno ha scritto “Free Iceland” sul muro di una sala concerti dove il premier cinese avrebbe pranzato, echeggiando il ben noto “Free Tibet”, altri hanno manifestato contro la repressione della setta Falun Gong. La premier Islandese Johanna Sigurdardottir l’ha incalzato sul tema dei diritti umani per poi dichiarare alla stampa che “Wen Jiabao è un riformista, ci siamo trovati d’accordo su molti punti”.

Lui, da parte sua, ha chiacchierato di geologia ammirando i geyser e perfino abbracciato una bambina imbacuccata in un completo invernale rosa, di quelli che fanno sembrare gli infanti nordici dei micro-omini Michelin. Wen abbraccia spesso i bambini, soprattutto nei luoghi in cui è appena capitato qualche disastro (e dove puntualmente lo spediscono a consolare e rassicurare). E l’Islanda, negli ultimi 3 anni, ne ha viste di cotte e di crude.

A cosa è valsa questa faticaccia? I due Paesi hanno firmato sei accordi di cooperazione che riguardano la geotermia (Pechino e Reykjavik hanno già una partnership attraverso Orka Energy e Sinopec per sviluppare il settore in Cina), la ricerca petrolifera nell’Artico, il solare, l’oceanografia e la ricerca polare.
Ma, cosa più importante, ha incassato l’appoggio islandese perché la Cina diventi osservatore permanente nel Consiglio Artico, l’organizzazione che riunisce gli otto Paesi che si affacciano sulla regione polare (Canada, Russia, Norvegia, Danimarca, Islanda, Usa, Svezia e Finlandia): “[Johanna Sigurdardottir] ha detto che l’Islanda appoggia la Cina affinché diventi  osservatore del Consiglio Artico, sostiene la partecipazione della Cina all’esplorazione pacifica nella regione, ed è disposta a rafforzare ulteriormente la cooperazione con la Cina”, recita il comunicato del governo di Pechino.

Il Consiglio Artico è un’organizzazione nata per regolare il rapporto tra gli Stati e le popolazioni indigene dell’area, in direzione dello sviluppo sostenibile e della conservazione ambientale. Oggi è sempre più strategico: metterci un piede dentro significa avere più possibilità di accesso alle risorse della regione polare, in prospettiva sempre più accessibili a causa dello scioglimento dei ghiacci.
Ma oltre alle materie prime e ai banchi di pesca, c’è in gioco quella che promette di essere la via di comunicazione del futuro: il Passaggio a nord-est (Northern Sea Route), cioè la rotta che dal mare del Nord arriva all’oceano Pacifico attraversando il mare Glaciale Artico. Riduce di circa 4mila miglia nautiche la tradizionale rotta in direzione ovest, che passa attraverso il canale di Panama, e non è esposta alla pirateria come il percorso che dal canale di Suez continua attraverso l’Oceano Indiano e il Sudest Asiatico.

Su quella rotta punta molto la Russia di Putin, anche perché il percorso si snoda in massima parte lungo le sue coste settentrionali. Nella regione polare Mosca si concepisce primus inter pares e, tanto per chiarirlo a tutti, dal 2007 la bandiera russa fluttua sul fondale marino, nell’esatto punto in cui si ritiene ci sia il Polo Nord geografico. L’ingresso sulla scena della Cina, con la sua mole e le sue risorse, potrebbe essere ben visto dall’Occidente come contrappeso all’assertività di Mosca. E poi Pechino arriva con gli investimenti, si capisce.

Tuttavia la Cina inquieta. L’anno scorso, un’offerta da parte del tycoon cinese Huang Nubo per comprare 300 chilometri quadrati di terra islandese scatenò il dibattito sulla possibilità che il progetto fosse una copertura per gli interessi geopolitici della Cina. Alla fine la transazione fu proibita (Huang ci sta ora riprovando ripiegando su un semplice affitto). “Non dimenticate che siamo rimasti isolati ai margini del duro Atlantico per secoli. L’Islanda è sempre un po’ preoccupata dalle altre nazioni”, ha detto a Reuters il ministro degli Esteri Ossur Skarphédinsson.
Ma il problema non è solo islandese, bensì di tutti gli Stati artici privi dello status di superpotenza che rischiano lo stritolamento tra pezzi da novanta come Usa, Russia e, adesso, Cina. Il punto, con il nuovo arrivato, è trovare un equilibrio tra soldi cinesi e rischi di penetrazione, in un quadro che si complica per le mosse indipendenti delle singole imprese.

Il norvegese Øyvind Paasche, geologo, esperto di mutamento climatico, direttore del Bergen Marine Research Cluster e collaboratore del sito OpenDemocracy, ci disse quanto segue non più in là della scorsa estate: “Tutti gli otto Stati che compongono il Consiglio Artico hanno elaborato strategie per ottenere i propri scopi. All’interno dei singoli Stati ci sono poi le imprese che, a loro volta, hanno piani specifici, non necessariamente in linea con quelli nazionali. Questo complica lo scenario”.
E in conclusione: “Il Consiglio Artico deve affrontare al più presto questo tema perché quell’ecosistema sta cambiando così velocemente che è difficile capire da che parte cominciare: dal patrimonio ittico, dallo scioglimento dei ghiacci, dai cambiamenti meteorologici?
La scienza politica è molto lenta a comprendere l’evoluzione dell’Artico, che è una sfida per tutti. Gli otto stati artici fanno cartello e tendono a escludere gli altri, ma è fondamentale che anche l’Unione Europea e la Cina riescano a interagire”.

Tratto da: eilmensile.it

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