"Come ho dimostrato ripetutamente, sono disposto a porre fine ai conflitti del passato e a creare nuove partnership per un mondo migliore e più stabile, anche se le nostre divergenze possono essere profonde". Con queste parole il presidente Donald Trump ha celebrato il raggiungimento dei nuovi accordi con Riyad allo U.S.-Saudi Investment Forum della capitale.
Effettivamente, il riassetto geopolitico che sta vivendo tutto il Medio Oriente non ha precedenza nella storia. Ovviamente è solo una questione di business.
Arabia Saudita e Stati Uniti hanno infatti appena raggiunto un accordo di 600 miliardi di dollari per l’intelligenza artificiale e la Difesa.
L’intesa sancisce l'impegno da parte della nuova società statale saudita di intelligenza artificiale, Humain, a costruire un'infrastruttura di intelligenza artificiale nel regno utilizzando diverse "centinaia di migliaia" dei chip più avanzati di Nvidia nei prossimi cinque anni. Ciò lo renderebbe uno dei più grandi ordini di chip di intelligenza artificiale da parte di un'azienda statale, celebrando la portata delle ambizioni grandiose del principe ereditario Mohammed bin Salman, intenzionato a posizionare l'Arabia Saudita come un polo globale dell’IA.
Una prima parte dell’investimento di Humain riguarderà l'implementazione di 18.000 server "Blackwell" di ultima generazione di Nvidia, ha affermato la stessa multinazionale. Il comunicato stampa della Casa Bianca ha elogiato "l'impegno di Riad a investire 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti" e "i legami economici che dureranno per le generazioni a venire".
In ballo c’è anche un accordo da “quasi 142 miliardi di dollari” per fornire all’Arabia Saudita "equipaggiamento e servizi di combattimento all'avanguardia da oltre una dozzina di aziende di difesa statunitensi".
Ciò includerebbe le capacità aeronautiche e spaziali, la difesa missilistica, la sicurezza marittima e di frontiera, la modernizzazione delle forze terrestri e l'aggiornamento dei sistemi di comunicazione. Gli Stati Uniti hanno fatto riferimento anche ai piani della saudita DataVolt di investire 20 miliardi di dollari in centri dati di intelligenza artificiale e infrastrutture energetiche negli Stati Uniti.
Il Paese si è impegnato inoltre a investire 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti nei prossimi quattro anni, la stessa cifra annunciata martedì. Al contempo, gli Emirati Arabi Uniti hanno seguito un'iniziativa simile, impegnandosi a marzo a investire 1.400 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni.
Alcuni tra i più influenti leader del settore tecnologico statunitense si sono riuniti a Riad. Tra i presenti figuravano Elon Musk, Sam Altman di OpenAI e Jensen Huang, CEO di Nvidia. Ma non mancano anche i big dell’alta finanza, come Larry Fink (BlackRock), Stephen Schwarzman (Blackstone) e Jane Fraser (Citigroup).
Il messaggio è arrivato forte e chiaro: Trump ha bisogno di un nuovo equilibrio in medio Oriente che generi fruttuosi investimenti nell’economia Usa e, per la prima volta nella storia, gli interessi di Washington divergono in modo netto con la condotta di Israele.
“Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha bisogno che la guerra di Gaza finisca e che venga definito un percorso credibile verso uno Stato palestinese prima di riprendere in mano la questione della normalizzazione”, ha detto al Financial Times, l’ex negoziatore statunitense, Dennis Ross.
A questo proposito, stando a quanto riportato dal Jerusalem Post, sulla base di confidenze rese da un funzionario di alto livello, durante la sua visita in Arabia Saudita il presidente degli Stati Uniti potrebbe rilasciare una dichiarazione riguardante lo stato di Palestina e il suo riconoscimento (senza Hamas) da parte degli Stati Uniti. Si tratterebbe di una dichiarazione in grado di modificare radicalmente l'equilibrio di poteri in Medio Oriente, portando altri paesi ad aderire agli accordi di Abramo.
Si respira un’aria nuova con Tel Aviv, ma assomiglia sempre più ad un vento gelido e insidioso. Martedì scorso l’accordo siglato tra il tycoon e gli Houthi è stato sconcertante in questo senso. Il gruppo ribelle ha accettato di smettere di sparare alle navi commerciali nel Mar Rosso, comprese le navi statunitensi, ma non di smettere di attaccare Israele.
L’uso della forza non aveva portato a nulla con gli Houthi. Gli oltre 1300 raid non hanno scalfito Hansar Allah, mentre Washington, durante i combattimenti, ha perso un consistente numero di droni Reaper e due caccia F/A-18 Super Hornet, spendendo oltre un miliardo di dollari.
Tel Aviv non era stata nemmeno informata sugli accordi, determinando l’irruenta visita a sorpresa del ministro israeliano per gli Affari Strategici Ron Dermer alla Casa Bianca. Una circostanza dove, secondo il quotidiano israeliano Israel Hayom, Trump, su tutte le furie, avrebbe deciso di interrompere i contatti diretti con Netanyahu in quanto la sua convinzione è che stesse “tentando di manipolarlo”.
Una scissione clamorosa, di cui le prime avvisaglie sono emerso durante la conferenza stampa tenutasi alla Casa Bianca ad aprile. Il presidente ha scelto di non revocare i dazi del 17% imposti a Israele, cogliendo l’occasione per ricordare che il Paese riceve annualmente 4 miliardi di dollari in aiuti statunitensi.
La guerra con l’Iran voluta Israele
Ma il momento peggiore per il leader israeliano è arrivato quando Trump ha rivelato che gli Stati Uniti stavano parlando direttamente con l'Iran, per il quale Netanyahu aspirava all’avvio di una guerra su larga scala col beneplacito Usa. Il conflitto, se dovesse scoppiare con Teheran, avrebbe dagli esiti imprevedibili che gli Stati Uniti non hanno né intenzione di sperimentare, tantomeno gli stati del Golfo.
Trump, nel suo pragmatismo, si è reso conto che ha bisogno di normalizzare il Medio Oriente, con un riconoscimento della Palestina, ma anche ristabilendo le relazioni con l'Iran e in questo senso ha inviato messaggi chiari, facendo rientrare negli Stati Uniti alla base di Diego Garcia, metà dei bombardieri B-2 Spirit.
"Voglio fare un accordo. Ma se la leadership iraniana rifiuterà questo ramoscello d'olivo e continuerà gli attacchi ai suoi vicini, allora non avremo altra scelta che infliggere il massimo della pressione, portando le esportazioni del petrolio iraniano a zero come ho fatto in precedenza", ha detto oggi in tono perentorio un Trump che precisa. "Sono loro a dover fare la scelta e questa è un'offerta che non durerà per sempre".
A Gaza Netanyahu prosegue la guerra genocida sempre più isolato
Allo stato attuale gli Stati Uniti hanno molto più bisogno dei petrodollari di quanto le petromonarchie abbiano bisogno degli Stati Uniti. E fin quando c'è la questione aperta di Gaza con tutto ciò che ne segue, questi accordi non potranno essere stretti.
"Potrebbe essere che Hamas dica 'pausa, vogliamo rilasciare altri 10 ostaggi'. Ok, rilasciateli. Li riceveremo e dopo entreremo. Ma non ci sarà una situazione in cui fermeremo la guerra", ha dichiarato oggi Benjamin Netanyahu nel corso di un incontro con i riservisti feriti, senza destare più equivoci per la propagandistica “causa” della liberazione dei prigionieri che mascherava i veri scopo della guerra.
Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, dopo mesi di stallo, in vista della visita di Trump in Medio Oriente, Hamas ha rilasciato il prigioniero Edan Alexander per sbloccare la situazione e spingere per negoziati rapidi e diretti con gli Stati Uniti, tanto che a Doha si discuterà di una proposta per "un rilascio immediato e completo di tutti gli ostaggi".
Ma l'operazione “i carri di Gedeone” dovrebbe partire all'indomani della fine del viaggio del tycoon, dopo il 16 maggio e Israele non ha alcuna intenzione di porvi fine.
L'intenzione è quella di attaccare ed estendere a tutta la striscia quello che era il famoso "piano dei generali", che consiste nell’affamare Gaza, decretando come la morte dei palestinesi non sia un effetto collaterale, ma semplicemente un obiettivo primario per conquistare l’area.
Il Ministro per la Sicurezza Nazionale, Itamar Ben-Gvir e il ministro delle finanze Bezalel Smotrich hanno dichiarato che gli aiuti che saranno inviati nella striscia (bloccati dai primi di marzo) saranno un decimo di quelli che entravano durante la tregua e sarebbero destinati esclusivamente a propiziare lo sfollamento "volontario" dei palestinesi fuori dalla striscia, cioè una deportazione agli occhi del mondo.
Ma le fratture interne all’interno del Paese si fanno sempre più pesanti e Tel Aviv sembra cadere in una spirale autodistruttiva senza ritorno. L’esercito sta registrando gravissimi problemi nel reclutamento dei riservisti, con punte del 50% di mancata risposta alla chiamata, rendendo molti reparti non operativi. A questo proposito le forze armate hanno confermato di aver avviato una campagna "di routine" della Polizia militare per arrestare chi ha ignorato gli ordini di arruolamento dopo l'ultima tornata di chiamate. Una notizia che ha scatenato una tempesta segnata dalla minaccia dei politici ultraortodossi di far cadere il governo per questo provvedimento.
Ma la guerra genocida è ormai diventata indispensabile per Netanyahu, come garanzia per salvarsi dai procedimenti giudiziari, dalle indagini che sta portando avanti lo Shin Bet e dalle contestazioni inerne.
Sembra che il collasso di Israele per implosione interna, sia appena iniziato.
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