Non bastava l’interruzione dell'afflusso di aiuti umanitari, inclusi cibo, medicine, carburante e gas, attuato da Tel Aviv che stava già condannando la popolazione ad una lenta morte di stenti. Ora la macchina da guerra israeliana ha ricominciato ad irrompere con violenza, spezzando il già fragile cessate il fuoco.
Gli attacchi israeliani hanno causato la morte di almeno 404 persone, tra cui circa 130 bambini, mentre il bilancio delle vittime è destinato a salire a causa delle numerose persone rimaste sotto le macerie.
I raid hanno colpito diverse aree della Striscia, tra cui ospedali, scuole e quartieri residenziali, causando la morte di almeno 404 persone. Tra le vittime, l’undicenne Mohammad Shaban, ucciso in un raid sull’ospedale Al-Ahli di Gaza City. Alcuni degli attacchi hanno colpito rifugi di fortuna con bambini e famiglie che dormivano, “ricordando ancora una volta che a Gaza nessun luogo è sicuro". Lo dichiara, in una nota, la direttrice generale dell'Unicef Catherine Russell.
L’azione arriva dopo che Hamas aveva respinto il cosiddetto “piano-ponte” proposto dagli Stati Uniti, che prevedeva una serie di passaggi per ridurre le ostilità. Il piano prevedeva il rilascio di cinque ostaggi vivi, tra cui il giovane Idan Alexander, e di 10 ostaggi deceduti, in cambio della scarcerazione di un numero non precisato di prigionieri palestinesi. Le modalità e i numeri esatti dovevano essere definiti durante i negoziati. Contemplava inoltre l’introduzione di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza e la cessazione delle operazioni militari, seguendo uno schema simile a quello della prima fase dell’accordo di cessate il fuoco raggiunto a gennaio. Hamas era invece disposta a concedere solo la liberazione del soldato 21enne israelo-americano Idan Alexander e a restituire quattro salme di rapiti con doppia cittadinanza, a patto che si passasse alla fase due dell’intesa sul cessate il fuoco.
Fonti della sicurezza, citate dai media israeliani, riferiscono che l'attacco notturno dell'IDF perseguiva tre obiettivi principali.
Il primo obiettivo era esercitare una pressione militare per sbloccare lo stallo nei negoziati sul rilascio degli ostaggi. Secondo l’IDF e i servizi segreti, i bombardamenti sono stati condotti in aree ritenute non pericolose per la vita degli ostaggi.
Il secondo obiettivo consisteva nel dimostrare che Israele non colpirà solo Hamas come entità militare, ma anche come governo civile. A conferma di ciò, cinque alti funzionari dell’amministrazione civile e politica dell’organizzazione sono stati eliminati, sottolineando l’assenza di distinzioni tra le sue componenti militari e politiche. Inoltre, l’operazione ha inviato un segnale ai mediatori, in particolare all’Egitto, ribadendo l’opposizione di Israele alla permanenza di Hamas come forza governativa o militare nella Striscia di Gaza dopo il conflitto.
Il terzo obiettivo era intensificare la pressione militare, in coordinamento con gli Stati Uniti, sull’intero asse della resistenza sciita, che comprende Houthi, Hamas e Iran. Il coordinamento con Washington risponde anche alla volontà dell’amministrazione statunitense di dimostrare agli attori regionali che le minacce di Donald Trump di "aprire le porte dell’inferno" non erano dichiarazioni prive di conseguenze, ma parte di una strategia concreta per infliggere un costo elevato a Hamas, agli Houthi e all’Iran stesso.
L’Iran ha emesso una dichiarazione in cui condanna fermamente gli attacchi, descrivendoli come una “continuazione del genocidio e della pulizia etnica” nei territori palestinesi occupati. Il portavoce del Ministero degli Esteri iraniano, Esmail Baghaei, ha sottolineato la responsabilità diretta degli Stati Uniti, accusandoli di aver dato il “via libera” alle azioni israeliane.
Anche l’Egitto, uno dei principali mediatori nel conflitto, ha condannato il violento raid, definendolo una “violazione flagrante” dell’accordo di cessate il fuoco e un’“escalation pericolosa” che minaccia la stabilità della regione. Il Ministero degli Esteri egiziano ha ribadito il suo pieno rifiuto dell’aggressione israeliana, esortando la comunità internazionale a intervenire per ripristinare la calma.
La Turchia ha definito gli attacchi una “nuova fase” nella politica di genocidio di Israele, accusando il governo di Netanyahu di sfidare l’umanità attraverso violazioni del diritto internazionale e dei valori universali. Il Ministero degli Esteri turco ha avvertito che tale aggressione minaccia il futuro dell’intera regione.
Nonostante lo sdegno espresso a parole, sembra che l’ennesima azione genocida di Tel Aviv, probabilmente resterà ancora senza risposta, con la tiepida accondiscendenza del verde giardino occidentale.
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- Francesco Ciotti