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Nel centro gestito dall’uomo rimpatriato con volo di Stato, anche donne vittime di violenze sessuali davanti ad altri detenuti

Osservando la foto che gli è stata mostrata, i 43 migranti, in prevalenza egiziani e bengalesi, arrivati al Cara di Bari, lo hanno riconosciuto subito: si tratta di Najeem Osema Almasri, il capo della polizia giudiziaria libica ricercato dall’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità.
I 43 migranti richiedenti asilo sono stati trattenuti in Albania, poi trasferiti in Italia in seguito a una sentenza della Corte d’Appello di Roma. Ma la loro battaglia è solo all’inizio. La loro odissea inizia in Libia, un paese che da anni rappresenta una trappola mortale per chi cerca di raggiungere l’Europa. Secondo le testimonianze raccolte dal deputato del Pd Marco Lacarra e da altri rappresentanti istituzionali che li hanno incontrati, molti di loro hanno trascorso del tempo nel famigerato centro di detenzione di “Bir Lel Gama”, un vero e proprio inferno alle porte di Tripoli. Un incubo in cui uomini, donne e bambini venivano sottoposti a violenze sistematiche, usate non solo come strumento di repressione ma anche come mezzo per estorcere denaro alle famiglie dei prigionieri. Le vittime, oltre a riconoscere Almasri, hanno raccontato di essere state picchiate, bruciate, sottoposte a scosse elettriche e legate per lunghi periodi, mentre diverse donne subivano violenze sessuali sotto gli occhi degli altri detenuti. Una giovane donna bengalese di 26 anni - ha spiegato “Il Fatto Quotidiano” - ha mostrato le cicatrici delle bruciature sulle mani come prova delle torture che le sono state inflitte. Nonostante il mandato di arresto nei confronti di Almasri, lo scorso gennaio l’uomo era stato fermato a Torino, ma incredibilmente è stato rilasciato e rispedito in Libia con un volo di Stato, su decisione del governo di Giorgia Meloni. Quando i migranti arrivati a Bari hanno visto la sua foto, non hanno avuto dubbi: lo hanno riconosciuto immediatamente come l’uomo che impartiva ordini nel centro di detenzione dove venivano torturati.
Purtroppo, la storia di questi migranti non si è ancora conclusa e sembra essere lontana da quello che si spera possa essere un lieto fine. Il loro futuro, infatti, è ancora incerto. Il rischio di essere respinti e rimandati nei paesi da cui sono fuggiti è altissimo. La normativa italiana sulle procedure accelerate di frontiera gioca a loro sfavore: nonostante le torture subite, non sono stati considerati vulnerabili durante le prime valutazioni della commissione territoriale per l’asilo. Hanno solo pochi giorni per presentare ricorso contro il diniego della loro domanda, ma molti non sanno leggere e nessuno ha spiegato loro chiaramente il funzionamento delle procedure. Dunque, il tempo stringe, e il pericolo di un rimpatrio forzato, che potrebbe riportarli nelle mani di chi li ha già torturati, è reale oltre che imminente. Gli avvocati e gli attivisti che li assistono denunciano un sistema che rende quasi impossibile per questi migranti far valere i propri diritti. Secondo Filippo Miraglia, responsabile immigrazione e asilo dell’Arci, il problema è anche nella mancanza di informazione e nel poco tempo concesso per il ricorso. A ciò si aggiunge la questione, già sollevata dalla Corte di Giustizia Europea, dei cosiddetti “paesi sicuri”: l’Albania è ritenuta tale dall’Italia, ma i racconti dei migranti smentiscono questa classificazione.

Fonte: Il Fatto Quotidiano

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