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Il tycoon vuole la Groenlandia per la sicurezza USA. Mosca rafforza la difesa militare, Pechino prepara la “Via della Seta Polare”

Continua a crescere l’interesse del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, nei confronti della Groenlandia: la vastissima isola, politicamente legata alla Danimarca, è straordinariamente ricca di risorse naturali e vanta una posizione geografica strategica, soprattutto in relazione alle nuove rotte commerciali che potrebbero presto emergere. Insomma, cresce l’attenzione perché crescono gli interessi e, a quanto pare, non solo da parte degli Stati Uniti. Ma procediamo con ordine e partiamo dalle ultime dichiarazioni della premier danese Mette Frederiksen, che ha voluto mettere le cose in chiaro: “Siamo stati molto chiari, con il sostegno dei nostri partner europei: la Groenlandia è parte del nostro territorio e non è in vendita. Tutti gli Stati - ha aggiunto Frederiksen - devono rispettare la sovranità degli altri Stati: se il tema è la sicurezza nella regione artica, si può trovare un'intesa con gli USA, con una loro maggiore presenza in Groenlandia”. Le parole della premier danese sono innanzitutto una risposta a quelle precedentemente pronunciate dal presidente Trump, il quale ha motivato la sua volontà di chiedere l'annessione dell'isola più grande del mondo con queste parole: “Penso che la prenderemo”, aggiungendo che i 57mila residenti dell'isola “vogliono stare con noi”. Peccato che un recente sondaggio condotto dalla società di ricerca Verian per il quotidiano groenlandese “Sermitsiaq” e il giornale danese “Berlingske” abbia evidenziato che, in realtà, la stragrande maggioranza dei groenlandesi è contraria all'idea di un'annessione agli Stati Uniti. Secondo i risultati - ha reso noto Reuters - l'85% degli intervistati desidera rimanere parte del Regno di Danimarca, solo il 6% è favorevole all'annessione agli USA, mentre il 9% è ancora indeciso. Ai risultati del sondaggio si sono aggiunte anche le parole del primo ministro dell’isola, Múte Egede, che, attraverso un post condiviso sui social, ha precisato: “La Groenlandia appartiene al suo popolo. Il nostro futuro e la lotta per l'indipendenza sono affari nostri”. Ad ogni modo, l’interesse di Trump per la Groenlandia non è un capriccio estemporaneo, ma si inserisce in una più ampia competizione globale per l’Artico, una regione strategicamente cruciale e sempre più accessibile a causa del cambiamento climatico. L’isola, tre volte più grande del Texas, come dicevamo, è ricca di risorse naturali, dalle terre rare al petrolio, e la sua posizione geografica la rende un tassello fondamentale nelle dinamiche geopolitiche tra Stati Uniti, Cina e Russia. Trump ha spiegato che il desiderio di “acquisire” l’isola sarebbe legato anche a necessità di sicurezza nazionale. Parole che hanno immediatamente scatenato la reazione indignata della Danimarca, oltre che di diversi leader europei, che non hanno esitato a definire l’idea irrealistica e irrealizzabile. Ciononostante, l’amministrazione Trump - ha fatto sapere il “Wall Street Journal” - sembra aver già avviato delle discussioni su come potenziare la presenza statunitense nella regione, valutando anche un rafforzamento delle strutture militari già esistenti. Gli Stati Uniti, infatti, hanno già una base aerea nel nord della Groenlandia, la Pituffik Space Base (ex Thule Air Base), che ospita un’importante stazione radar per il sistema di allerta missilistica. Inoltre, la Groenlandia è parte del cosiddetto GIUK gap, un corridoio strategico tra Groenlandia, Islanda e Regno Unito, che durante la Guerra Fredda era sorvegliato attentamente per monitorare i movimenti militari sovietici. 

La presenza cinese che non piace a Washington

Oltre agli aspetti militari, l’interesse per la Groenlandia sembra essere spinto soprattutto dalle sue immense risorse naturali. Attualmente, la Cina domina il mercato globale delle terre rare e sta investendo pesantemente nelle infrastrutture e nei giacimenti groenlandesi, con l’obiettivo di rafforzare la sua presenza economica nell’area. Gli Stati Uniti, preoccupati dalla crescente influenza di Pechino, hanno già bloccato nel 2018 un tentativo cinese di finanziare tre aeroporti in Groenlandia.


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Donald Trump © Imagoeconomica


Inoltre, Pechino ha costruito nel tempo un monopolio quasi totale sul mercato delle terre rare, controllando il 90% della produzione globale. Un esempio emblematico della presenza cinese in un territorio che interessa anche a Trump è la società Shenghe Resources, il cui principale azionista è il Ministero delle Risorse Naturali cinese. Nel 2016, l’azienda ha acquisito una partecipazione del 12,5% in Greenland Minerals Ltd, una compagnia australiana impegnata nello sviluppo del progetto minerario di Kvanefjeld in Groenlandia. Altro elemento fondamentale nella competizione per l’Artico è il riscaldamento globale. Lo scioglimento dei ghiacci sta ridisegnando l’intera area, rendendola sempre più accessibile. Questo fenomeno ha due conseguenze dirette: da un lato, facilita l’estrazione di risorse minerarie e petrolifere che fino a pochi decenni fa erano irraggiungibili; dall’altro, apre nuove rotte commerciali. Il progressivo scioglimento dei ghiacci sta infatti permettendo l’apertura di nuove vie marittime attraverso l’Artico, riducendo la dipendenza dai tradizionali canali di transito come Suez e Malacca. D'altronde, la Cina ha già promosso la cosiddetta “Via della Seta Polare” per sfruttare queste nuove opportunità commerciali, dando vita a un’iniziativa che, ovviamente, Washington sta monitorando con grande sospetto.


Gli interessi della Russia

Anche la Russia sembra voler cogliere l'opportunità che si sta presentando. Per questo motivo, come gli Stati Uniti, Mosca ha rafforzato la sua presenza militare nella regione e intensificato la cooperazione con la Cina. Negli ultimi anni, l’Artico è stato teatro di un’intensa attività militare, con esercitazioni e pattugliamenti che hanno coinvolto non solo la Russia, ma anche la NATO e la Cina. I sottomarini nucleari russi hanno condotto esercitazioni missilistiche vicino ai confini di Norvegia, Finlandia e Svezia, tutte nazioni che ora fanno parte dell’Alleanza Atlantica. Parallelamente, la NATO ha organizzato giochi di guerra nelle acque artiche, mettendo in campo esercitazioni anfibie e operazioni militari su larga scala.
Ad ogni modo, pare che, sul territorio artico, la Russia sia avvantaggiata rispetto ai suoi antagonisti grazie a un’ampia rete di basi militari. Se dopo il crollo dell’Unione Sovietica l’interesse per l’Artico era diminuito, negli ultimi anni Mosca ha riaperto molte delle installazioni dell’era sovietica, modernizzandole e rendendole operative. La base russa di Nagurskoye, situata nell’estremo nord, è solo un esempio di questa rinnovata presenza: è attrezzata per ospitare truppe per lunghi periodi e può accogliere caccia a reazione e bombardieri strategici con capacità nucleari. Un altro esempio è la flotta di rompighiaccio. La Russia possiede infatti oltre 30 navi di questo tipo, molte delle quali a propulsione nucleare, mentre gli Stati Uniti ne hanno soltanto tre, di cui una ormai obsoleta. Come per gli altri Paesi, anche per la Russia il ruolo economico che potrebbe giocare la zona artica è fondamentale. Per questo motivo, Mosca ha investito pesantemente nello sviluppo delle infrastrutture artiche, con porti e terminal per il trasporto di gas naturale liquefatto (LNG). Progetti come Yamal LNG e Arctic 2 LNG, realizzati con il supporto cinese, sono diventati fondamentali per l’economia russa, specialmente dopo le sanzioni occidentali seguite all’invasione dell’Ucraina nel 2022. Pechino, in cambio, riceve forniture energetiche strategiche, contribuendo a ridurre la sua dipendenza dai mercati mediorientali. La conclusione, dunque, è facile da intuire. L’Artico, che al momento sembra essere una regione promettente dal punto di vista economico, potrebbe presto trasformarsi in un nuovo fronte di conflitto, che si aggiungerebbe a quelli già esistenti.


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Vladimir Putin © Imagoeconomica


Mafie, narcotraffico e criminalità organizzata

Oltre a essere oggetto di forte interesse per le grandi superpotenze, l’Artico sembra attirare sempre più anche la criminalità organizzata. Per questo motivo, il professor Antonio Nicaso, esperto di mafie e autore di numerosi libri scritti insieme al magistrato Nicola Gratteri, oggi alla guida della Procura della Repubblica di Napoli, parlando di Trump e della questione artica durante un’intervista con Il Fatto Quotidiano, ha spiegato: “La sbruffoneria è sempre stata una delle caratteristiche di Trump, sin da quando faceva lo showman in televisione. Con le sue sparate, però, sta puntando i riflettori su una questione che esiste: la grande importanza strategica non solo della Groenlandia, ma di tutto l’Artico”. Poi, Nicaso, che da oltre trent’anni vive e lavora tra il Canada e gli Stati Uniti, ha precisato: “Stiamo parlando di territori ricchi di gas, metalli, petrolio e terre rare. Questo non riguarda soltanto la Groenlandia, ma anche altri contesti riconducibili al Canada, agli Stati Uniti e alla Norvegia”.
Nicaso ha sottolineato che anche la regione polare sta diventando sempre più attrattiva per le mafie che operano su scala globale. Questo perché la logica è sempre la stessa: dove ci sono denaro e sviluppo, arrivano anche i clan mafiosi. Le organizzazioni più attive sono quelle già radicate nei Paesi artici. I cartelli messicani, per esempio, che dominano il traffico di droga negli Stati Uniti, si stanno espandendo fino all’Alaska e al Canada. La mafia russa è altrettanto presente, grazie ai forti legami con il governo di Mosca. Le Triadi cinesi, poi, operano in una sorta di franchising criminale, espandendo i loro affari lungo le nuove rotte commerciali. “Anche se per il momento non ci sono riscontri di un interesse relativo all’Artico - ha precisato Nicaso parlando delle mafie italiane - la ’Ndrangheta ha una vera e propria roccaforte criminale in Canada, oltre che una potenza economica di primo livello”.
Circostanza che, molto presto, potrebbe indurre anche le varie organizzazioni criminali italiane a interessarsi della questione artica. Come se non bastasse, negli ultimi tempi è stata rilevata una crescente presenza criminale anche nelle zone remote del Canada settentrionale, storicamente abitate da popolazioni indigene. Questo fenomeno ha preceduto un drammatico aumento dei casi di overdose da fentanyl e altre droghe sintetiche tra i nativi, in particolare le Prime Nazioni e gli Inuit. “Nel Northwest Territories - prosegue il professore Nicaso - la polizia canadese ha recentemente fermato alcuni esponenti degli Hells Angels, che hanno dichiarato di essersi spinti fin lassù per vedere il mare Artico”. Gli Hells Angels sono una banda di motociclisti nata negli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale. Celebri per i tatuaggi, le giacche di pelle e le Harley-Davidson, nel tempo hanno trasformato la loro natura, diventando un’organizzazione criminale strutturata. Oggi il Dipartimento di Giustizia statunitense li considera a tutti gli effetti un gruppo criminale, mentre in Canada sono riusciti a imporsi nel narcotraffico, dominando in particolare le province dell’Ontario e del Québec. “Gli Hells Angels sono forti anche ad Anchorage, in Alaska - ha ricordato Nicaso, sottolineando che nella regione operano anche i cartelli messicani -. Ormai controllano gran parte del traffico di cocaina. La produzione in Colombia è in piena espansione e, nonostante le guerre interne al cartello di Sinaloa e il conflitto con il cartello di Jalisco, i narcos messicani continuano a detenere la fetta principale del mercato. Questo ha permesso loro di radicarsi in aree strategiche come la British Columbia, non lontana dall’Artico”. Inoltre, l’influenza dei cartelli si estende anche più a nord. Ne è una prova la condanna a 28 anni inflitta a Miguel Baez Guevara, alias “Javi”, boss del cartello di Sinaloa, responsabile dell’importazione di eroina, metanfetamina e cocaina in Alaska.

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