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Giustizia è fatta ma c’è ancora molto da fare. In cella finiscono gli ex gerarchie José María Lete, Rogelio Garmendia e Pedro Buzó

Non posso ignorare il volto di Marisa Fleitas mentre mi raccontava, un paio di anni fa, tutta la sofferenza che dovette sopportare quando era adolescente, quando insieme ad altri giovani fu trasferita contro la sua volontà al quartiere militare (Battaglione di Fanteria 10), nel dipartimento di Treinta y Tres, in territorio uruguaiano, nell’aprile del 1975.

Marisa Fleitas, con la serenità che la caratterizza, ha avuto la gentilezza di accettare l'intervista del programma “Enigmas”, di Radio Sarandí. Non posso non ricordare la sua preziosa testimonianza, soprattutto ora che è stato reso noto che la giustizia ha processato e condannato al carcere tre militari per torture contro quei giovani che facevano parte del gruppo studentesco a cui apparteneva anche Marisa. All’interno del programma ha parlato a me e alla conduttrice Erika País con trasparenza, umanità, senza alcun revanscismo e con molta sensibilità; quella sensibilità che in quei giorni di aprile del 75 era assente nei repressori che non esitarono un istante a oltraggiare e torturare adolescenti, per il solo fatto di essere militanti della gioventù comunista ed attivisti di una legittima resistenza contro la dittatura civico militare, ergo, contro il terrorismo di Stato.

Marisa Fleitas oggi è una donna adulta. Non posso dimenticare le sue parole che erano la inequivocabile voce dei 39 adolescenti prigionieri nello stabilimento militare, dove il potere folle, deviato e terrorista diffondeva la propria malvagità. Brutalità messe in atto da membri in uniforme dell'esercito uruguaiano, come José María Lete, Rogelio Garmendia e Pedro Buzó, oggi processati e condannati al carcere con gravissime accuse. Il primo è accusato di essere “coautore di ripetuti reati di privazione di libertà, aggressione violenta, abuso di autorità contro i detenuti e lesioni gravi”; il secondo di “abuso di autorità contro i detenuti, lesioni gravi e privazione di libertà”; e l’ultimo di “reiterati reati di abuso di autorità contro i detenuti e lesioni gravi”.

Ai microfoni di “Enigmas” Marisa Fleitas, che in quell’oscuro 1975 aveva solo 13 anni e sua sorella Alicia 15, ha rappresentato ognuno dei suoi compagni di studi: adolescenti torturati dal potere del terrore di turno i cui esponenti - di un’epoca vergognosa e ripugnante, ingiustificata nella sua stessa natura e in cui l'abuso d’ufficio era normale - ora saranno in prigione; il che significa che tutta quella foga di autoritarismo di quel tempo non è stata ancora risolta né tanto meno superata, in questo periodo democratico.

Perché? Perché purtroppo la cultura dell'impunità è ancora annidata nell'anima istituzionale di una società ancora divisa tra la sensibilità di rivendicare giustizia, verità e memoria, e il negazionismo, l'indifferenza di alcuni settori e membri del sistema politico e della casta militare. E ora, dulcis in fundo – e come se non bastasse – l’intrigo più sfortunato e inopportuno installato nel nostro paese per bocca dell'ex guerrigliera ed ex personalità politica della sinistra uruguaiana Lucía Topolansky alias “La Tronca”, spalleggiata dal marito José “Pepe” Mujica Cordano. Quest’ultimo, niente altro che un referente locale, regionale e mondiale di una lotta rivoluzionaria del passato.

Entrambi, con le loro dichiarazioni, hanno provocato un vero e proprio sconcerto, suscitando indignazione e ripudio, perché non è cosa da poco affermare che “alcune testimonianze dinnanzi alla giustizia, in casi di reati di lesa umanità, erano false” (seminando dubbi su tutta l’azione della Giustizia sul tema). Questo potrebbe anche essere preso come una sorta di immolazione; o come una sorta di tradimento di una lotta popolare e legittima per avere giustizia; o come un'operazione puramente e semplicemente più a favore dei militari che di coloro che si trovano dal lato opposto. Situazione e contesto molto confusi.

Guardando l’intero disegno e non solo il particolare, apprendere che la giustizia ha disposto questi tre procedimenti con detenzione nel caso degli adolescenti di Treinta y Tres, non ci esime da alcune responsabilità, ad esempio quella di non arrenderci, raddoppiare gli sforzi affinché la lotta persista su vari fronti: in primo luogo, per non lasciarci sopraffare dalla cultura dell'impunità e dai suoi promotori (in particolar modo dopo aver espresso pubblicamente dubbi sulle testimonianze nei processi dei repressori); in secondo luogo, affinché il governo entrante non deluda le sue promesse di esaurire tutti gli sforzi più impensabili per trovare i luoghi di sepoltura dei desaparecidos negli stabilimenti militari; e inoltre, affinché i repressori scontino le loro condanne nella prigione di Domingo Arena e non entrino nell’ottica di un possibile revisionismo che potrebbe portare agli arresti domiciliari come alternativa per loro. E infine, che tutto ciò che riguarda i repressori, a partire dalle istituzioni, sia affrontato con etica, con coscienza rivoluzionaria e con la saggezza di un governo - di coalizione di sinistra - che non deluda. Vale a dire che non si ripeta la parsimonia e l'ambiguità che hanno caratterizzato (in tema di Diritti Umani) i tre governi di sinistra del passato, sotto l'amministrazione di personaggi come Tabaré Vázquez e José Mujica, quest’ultimo che recentemente, ed anche anni fa, con affermazioni sconsiderate ha intensificato (?) le sue civetterie con la casta militare e, quel che è peggio, con la pesante impunità promossa dai suoi ranghi.

Non posso né ignorare né dimenticare il volto, né le valorose parole di Marisa Fleitas, nell’intervista sugli adolescenti del quartiere militare di Treinta y Tres, perché dietro c’è una storia molto forte e drammatica del recente passato che ci coinvolge tutti, senza tempo né confini ideologici, almeno tra noi che lottiamo - ieri ed oggi, in particolar modo - affinché giustizia sia fatta, sui repressori e chi li protegge.

Non possiamo accontentarci del fatto che gli adolescenti torturati siano stati risarciti con le condanne detentive emesse, perché le cicatrici profonde che ognuno di quei giovani studenti portano ancora adesso, sono indescrivibili (nonostante il tempo trascorso). In nessun momento possiamo ritenere che il carcere sani o possa riparare il danno subito. È stata fatta giustizia, ma c’è ancora molto da fare sempre in materia di repressori e di desaparecidos.

Un terrorismo di Stato lascia enormi conseguenze, a diversi livelli e in diversi ambiti; per non parlare di tutto ciò che ha provocato a livello emozionale in quei 39 giovani. Giovani che con coraggio hanno affrontato le circostanze, sin dal momento che furono strappati dalle loro case e dai loro affetti dalla crudeltà dei militari, convinti erroneamente di avere a che fare con mostri giganteschi, divoratori di vite ed istituzioni o con demoni usciti dello stesso inferno. Nemmeno per un attimo, i membri in uniforme del piano Condor ebbero il discernimento necessario per capire che questi ragazzi erano solo studenti, con idee chiare e sufficiente coraggio per difendere con orgoglio le proprie idee.

Ma quegli uomini in uniforme, oltre a macchiare la loro uniforme e loro stessi come persone che rappresentavano uno Stato, sono sprofondati negli abissi del crimine, aggredendo impunemente degli adolescenti che oggi finalmente possono vedere con i loro occhi che giustizia è stata fatta.

Ma per quello che hanno vissuto sulla propria pelle, non ci sarà giustizia alcuna che possa riparare le ferite nelle loro anime.

E se qualcuno ha avuto o ha l'ardire di pensare il contrario, si sbaglia di grosso.

Foto tratta da sitiosdememoria.uy 

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