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di Giulietto Chiesa
L’incontro di San Pietroburgo tra Putin e Xi Jinping ha segnato, al di là di ogni dubbio, un altro passo in direzione di una strategia comune dei due massimi paesi asiatici per contrastare l’offensiva ondivaga degli “Stati Uniti di Donald Trump”

La sottolineatura è obbligatoria innanzitutto perché di “Stati Uniti” ormai ce n’è più d’uno e nessuno ancora sa quale prevarrà. Ma, appunto per questo, è importante notare che in attesa di questo chiarimento futuro, Russia e Cina fanno le loro scelte autonome e le presentano insieme sui tavoli internazionali.
L’asse Pechino-Mosca è sempre di più una realtà ben percepibile. E non solo e non tanto per la mole delle relazioni finanziarie, commerciali, industriali, militari che legano sempre di più i due colossi, quanto perché - come si è visto molto chiaramente al vertice di San Pietroburgo - Mosca e Pechino hanno posizioni letteralmente coincidenti su tutti i più importanti dossier internazionali del momento e, a quanto è dato capire, anche del futuro prevedibile.
La loro geopolitica è identica sulle principali questioni: dalla crisi coreana, al rapporto con l’Iran, alla disputa venezuelana. Aggiungerei anche per quanto concerne la politica verso l’Europa, dove Vladimir Vladimirovic e Xi non fanno che ripetere di desiderare un’Europa come interlocutore forte e affidabile, distanziandosi in modo evidente dalla politica di Washington. Gli sciocchi commentatori europei, che continuano a descrivere le posizioni “asiatiche” come ostili, non riescono a uscire dallo schema della Guerra Fredda, che è ormai del tutto relegato nel passato. Orfani di quella, cercano un padre-padrone che non c’è più invece di diventare adulti.

Dei tre dossier appena citati, due (Venezuela e Iran) hanno un contenuto “energetico” evidente. Da esso dipende non soltanto il prezzo del petrolio (sebbene per Mosca è desiderabile resti alto, mentre per la Cina è più importante che resti il più stabile possibile), ma soprattutto dipende la riduzione delle tensioni internazionali. Gli Stati Uniti, insieme a Israele, sono infatti le due principali sorgenti di instabilità. È dalle loro inquietudini che possono venire scintille.

Paradossalmente, ma solo a prima vista, sono proprio Cina e Russia - che nei documenti del Pentagono vengono ormai indicati esplicitamente come degli avversari con cui l’America è destinata a collidere - a gettare acqua sul fuoco. E non solo a parole. La Cina, com’è noto, ha nei suoi forzieri qualche trilione di dollari del debito americano. Potrebbe usarli per colpire l’avversario nella guerra ibrida già in corso, ma non lo fa.

Il perché è chiaro e, per esempio Xi Jinping ne ha parlato proprio a San Pietroburgo in presenza di Putin: "siamo tutti troppo 'connessi' gli uni con gli altri per desiderare uno scontro: non lo vogliamo noi, non lo vuole Washington".

Il messaggio asiatico è chiaro. Nell’interesse di tutti conviene dilazionare le rese dei conti e aspettare che venga il sereno. Ma a Washington, appunto, non c’è soltanto Trump. La tattica di Mosca e Pechino è dunque quella di prendere tempo, in attesa che si chiariscano le molte cose che ancora chiare non sono. Per intanto la Russia si libera dei certificati di credito del Tesoro americano e compra oro, come fanno tutte le banche centrali del mondo che si fidano sempre meno del dollaro. E la Cina, per due volte di seguito non si è presentata alle aste per l’acquisto del debito americano.
Segnali non indifferenti, ma calibrati, per respingere le mosse più clamorose delle diverse bande che scorrazzano tra Wall Street, Langley, il Pentagono, e il Dipartimento di Stato. L’unica preoccupazione (ma che non è emersa affatto a San Pietroburgo) è quella, che trapela da diversi commenti , di una parte dell’establishment russo, che tasta il polso dell’alleanza con Pechino pensando a un futuro in cui, con la crescita impetuosa del Paese di Mezzo, apparirà chiaramente che la Russia è debole mentre la Cina è troppo forte.

Tratto da: it.sputniknews.com

Foto © Reuters/Dmitri Lovetsky

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