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La riforma della giustizia firmata Marta Cartabia e approvata dalla Camera dei deputati lo scorso 2 agosto desta allarmi in diversi ambiti penali. Se entreranno in vigore, le nuove norme avranno conseguenze disastrose sui processi per reati ambientali. Inquinamento, disastro ambientale, traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività sono solo alcuni dei crimini che rischiano di restare impuniti.
Ma procediamo con ordine. La riforma ha previsto dei termini di durata precisi per l’appello e per la cassazione: a partire dal 2024 i processi potranno durare come massimo 3 anni in secondo grado e come massimo 1 anno e mezzo in terzo grado (inclusa l’eventuale proroga). Se tali termini verranno superati, anche solo di un giorno, il processo si estinguerà con una pronuncia di improcedibilità da pare del giudice. Questo nuovo istituto di “tagliola”, come lo hanno definito molti magistrati, mette a gravo rischio i procedimenti per reati ambientali i quali, a causa delle complicazioni burocratiche, delle grandi quantità di imputati e, soprattutto, della difficoltà nella raccolta delle prove scientifiche, necessitano di tempi molto lunghi: per giudici e pubblici ministeri sarà difficile, se non quasi impossibile, restare nei termini previsti della riforma.
Non sono bastati gli allarmi lanciati dalle associazioni ambientaliste, come WWF, Legambiente, Greenpeace Italia e neanche i numerosi appelli di attivisti e di semplici cittadini che si sono rivolti al Ministero dell’Ambiente e della presunta “transizione ecologica”, per chiedere l’esclusione totale dei processi per eco reati dal meccanismo dell’improcedibilità (come per i reati che prevedono la pena dell’ergastolo) o almeno l’inserimento nella lista dei delitti per cui sono previsti termini processuali più lunghi (come per i reati di mafia, terrorismo, violenze sessuali e cosi via). Richieste rimaste però senza alcuna risposta.
Non è escluso, inoltre, che le nuove norme possano avere valore retroattivo e che quindi possano riguardare anche i processi iniziati prima del 1^ gennaio 2020: a rischio tra questi c’è anche il processo “Ambiente Svenduto”, sul disastro ambientale provocato dalla ex acciaieria Ilva di Taranto. Quest’ultimo, conclusosi in primo grado lo scorso 31 maggio, con una sentenza di condanna per tutti i 47 imputati (dirigenti, politici e rappresentanti delle istituzioni), si è protratto per 5 anni, con un totale di 329 udienze. Se dovesse arrivare in appello, come già è quasi sicuro che accadrà, il processo potrebbe essere a rischio di improcedibilità: un fatto gravissimo, che annullerebbe anni di lunghissime e complicatissime indagini giudiziarie, vanificherebbe il duro lavoro dei magistrati e delle forze dell’ordine e garantirebbe l’impunità ai responsabili, negando giustizia alle vittime, ai familiari delle vittime e a tutti i cittadini. In effetti, parliamo di un disastro ambientale che non solo ha irreparabilmente danneggiato l’ecosistema, ma ha avuto anche gravi conseguenze sulla salute delle persone che vivevano e vivono tutt’ora sul territorio nei pressi di Taranto, in particolare sui bambini e sui neonati. La perizia, disposta dal GIP Patrizia Todisco nel 2012 ha confermato le paure della cittadinanza. È stato attestato, infatti, che le polveri sottili emesse dallo stabilimento hanno causato in media, dal 2004 al 2010, 83 morti all’anno e oltre 600 ricoveri per cause cardio-respiratorie. Secondo il Rapporto di Valutazione del Danno Sanitario (VDS), pubblicato nel 2018, nella zona circostante lo stabilimento, dal 2002 al 2015, sono nati 600 bambini con malformazioni. E a ciò si aggiunge l’aggiornamento dello studio SENTIERI sui comuni di Taranto e Statte, pubblicato dall’Istituto Superiore di Sanità nel 2014, che riporta eccessi di mortalità nel primo anno di vita rispetto alla media nazionale.
Le emissioni delle acciaierie hanno inquinato le falde acquifere, l’aria, il mare e la terra pugliese, provocando danni permanenti all’ambiente e a tutti coloro che abitano quel territorio. Casi complessi come questo necessitano di indagini e processi di lunga durata, per assicurarsi che i colpevoli vengano puniti così come prevede la legge e che le vittime ottengano la giustizia che meritano.
Simile per proporzioni è il caso del processo “Pfas”, iniziato davanti alla Corte d’Assise di Vicenza con la prima udienza avvenuta il 1 luglio 2021 e dedicata alla costituzione delle oltre 200 parti civili. Si tratta del più grande processo per ecoreati attualmente aperto in Italia. In particolare, i capi di accusa sono avvelenamento di acque, disastro innominato e inquinamento ambientale, per i quali sono imputati 15 proprietari, tra vecchi e più recenti, della società chimica Miteni. L’azienda, con sede a Trissino, è accusata di aver provocato il caso di inquinamento delle acque più grave nella storia del nostro Paese. Le vittime che sono circa 315mila persone, distribuite tra le province di Vicenza, Verona e Padova, sono state esposte ad acque contaminate da PFAS (sostanze perfluoro alchiliche), altamente dannose per l’organismo umano. È stato il rapporto del Consiglio Nazionale delle Ricerche, commissionato dal Ministero dell’Ambiente nel 2013, ad individuare nella Miteni S.p.A. il colpevole del disastro ambientale. Oltre che per il processo Ilva, cresce quindi il timore anche per il processo “Pfas”, il quale rischia di non arrivare a sentenza definitiva.
In reazione a questo grave attentato alla giustizia ambientale, diverse associazioni, partiti ed esponenti della lotta per il pianeta si sono espressi a sfavore della pericolosa riforma.
 Come accennavamo prima Legambiente, Libera, Gruppo Abele, WWF e Greenpeace Italia sono stati i primi firmatari di un appello comune, rivolto direttamente al “governo Draghi e alle forze politiche che lo sostengono”. L’appello ha trovato l’appoggio di numerose realtà, ma non è servito a nulla. In Parlamento, è stata la deputata del gruppo Facciamo ECO-Federazione dei Verdi, Rossella Muroni a farsi portavoce di queste richieste. L’ordine del giorno, proposto dalla ex-presidente di Legambiente il 3 agosto, ha spaccato in due la maggioranza alla Camera. La votazione per “inserire tutti i delitti ambientali o almeno il disastro ambientale tra i reati gravi per cui non sono previsti termini che ne determinino l’improcedibilità” si è conclusa, infatti, con 186 no e 181 sì. La richiesta è stata, quindi, bocciata per soli 5 voti. Un fallimento per i deputati che dovrebbero rappresentare le richieste e le preoccupazioni dei cittadini all’interno della Camera. Tutto questo, oltre a preoccupare sullo stato di democrazia del nostro Paese, rappresenta un segnale pericoloso di tolleranza verso la commissione di reati che distruggono definitivamente ed irrimediabilmente il nostro ecosistema, i nostri paesaggi, la nostra terra e quindi la nostra stessa vita.

Foto © Imagoeconomica

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