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È pesante l'eredità lasciata dalle centrali e dai depositi nucleari collocati in siti inidonei nel territorio italiano. E oggi più che mai tale lascito viene aggravato dalla crescita del traffico illecito di rifiuti radioattivi operato dalla criminalità organizzata.
Il nuovo report di Legambiente fa luce sulle conseguenze dell’inadeguatezza dello Stato italiano rispetto alla gestione dei rifiuti radioattivi. Nonostante il referendum del 1987, che ha permesso al nostro Paese di essere uno dei primi ad abbandonare il nucleare, i materiali accumulati in precedenza costituiscono ancora un grande problema.
La prima inchiesta sull’argomento è stata quella del 1995, seguita da molti altri dossier. Quest’ultimi purtroppo però non sono stati sufficienti per scuotere la coscienza dell’opinione pubblica. Fino a pochi giorni fa, infatti, l’entità dell’eredità radioattiva italiana era ancora sconosciuta ai più.
Il 5 gennaio è stata pubblicata dalla Sogin la CNAPI (Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee). La mappa, redatta in base ai criteri previsti nella Guida Tecnica n. 29 dell’ente di controllo ISIN (Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare e la Radioprotezione) e ai requisiti indicati nelle linee-guida della IAEA (International Atomic Energy Agency), ha individuato 67 zone adatte ad ospitare il Deposito Nazionale e Parco Tecnologico per i rifiuti a bassa e media attività. L’attenzione si è risvegliata davanti alla possibilità di essere costretti a diventare siti di stoccaggio per materiale nucleare, ma in pochi si sono chiesti dove questo si trovasse fino ad oggi e come venisse gestito.
Nel report pubblicato l’8 marzo, Legambiente ha presentato il resoconto delle esperienze dei territori che in questi decenni hanno dovuto convivere con la pesante eredità lasciata dalle centrali e dai depositi nucleari.

I rifiuti radioattivi in Italia
“In Italia, secondo gli ultimi dati forniti dall’ISIN2 (Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione) sono presenti circa 31mila metri cubi di rifiuti radioattivi collocati in 24 impianti distribuiti su 16 siti in 8 Regioni”, si legge nel report.
Questi 31mila metri cubi di materiale pericoloso includono: rifiuti radioattivi che emettono radiazioni capaci di danneggiare gravemente sia l’ambiente circostante che l’uomo, combustibile esausto, ossia combustibile irraggiato e successivamente rimosso in modo definitivo dal nocciolo di un reattore, sorgenti dismesse che rappresentano ancora un potenziale radiologico, anche se inferiore rispetto a quello del combustibile irraggiato.
Le origini di questi materiali sono diverse. Oltre all’uso connesso con la produzione di energia, infatti, molti rifiuti provengono da altri settori, come quello sanitario, o da attività industriali e agricole. “Non è dunque un solo problema legato alla pesante eredità del passato nucleare” conclude Legambiente.
I 24 impianti e siti di stoccaggio presenti in Italia sono provvisori, adattati per necessità, ma non idonei a conservare in sicurezza tali materiali. Ad esempio, le ex centrali di Garigliano e di Caorso, entrambe poste in aree ad elevato rischio idrogeologico, oppure il deposito di Rotondella (MT) in Basilicata, dove è stata accertata “una grave ed illecita attività di scarico a mare dell’acqua contaminata, che non veniva in alcun modo trattata”.
“La pesante eredità delle scorie nucleari è ricaduta infatti, fino ad oggi, su questi vecchi siti che si sono rivelati palesemente inidonei a stoccare e tenere rifiuti radioattivi” - scrive Legambiente - “Tant’è che nelle aree individuate come potenzialmente idonee per il deposito unico nazionale, nessun sito già 'nuclearizzato' è rientrato negli stringenti criteri previsti dalla normativa".

I rifiuti radioattivi in Europa
Il problema della gestione dei rifiuti radioattivi coinvolge, però, tutta l’Europa. Sono 126 gli impianti nucleari distribuiti in 14 Paesi (Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Paesi Bassi, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Regno Unito) che ospitano, insieme ai due Stati che hanno abbandonato il nucleare (Italia e Lituania), circa il 99,7% del volume totale in UE. Inoltre, ci sono 90 strutture spente, 3 in fase di decommissioning e 82 utilizzate in ambito di ricerca, distribuiti in 19 Stati Membri e che comunque producono materiale di scarto.
L’associazione ambientalista riporta che “a fine 2016, i rifiuti radioattivi totali erano 3,46 milioni di metri cubi corrispondente a circa 7 litri pro-capite”.
Circa il 90% consiste in materiale a molto basso o a basso livello di radioattività e “per il trattamento e lo stoccaggio di questo sono in funzione 30 impianti distribuiti in 12 Stati Membri”, ma secondo il report “entro il 2030 la quantità di rifiuti con livello di radioattività molto basso raddoppierà, e per le altre classi l’aumento sarà tra il 20% e il 50%”.
“Sono stoccate più di 60.000 tonnellate di combustibile esausto, per la maggior parte in Francia (25%), Germania (15%) e Regno Unito (14%).” - dice Legambiente - “La grande maggioranza di questi rifiuti (81%) è stoccata in piscine di raffreddamento, un metodo di stoccaggio “provvisorio” sicuramente meno sicuro rispetto ad altri tipi di impianti”.
Gran parte degli Stati Membri che hanno strutture nucleari funzionanti collocheranno il combustibile esausto in depositi geologici profondi, mentre solo la Francia e la Russia stanno pensando a rigenerarlo.
Secondo il report, “per quanto riguarda i rifiuti a medio e alto livello di radioattività e il combustibile esausto, si nota una mancanza di piani concreti per il loro smaltimento nella maggior parte degli Stati Membri. Di quelli che hanno programmi nucleari, solo Finlandia, Francia e Svezia stanno lavorando concretamente.”


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I fenomeni d’illegalità nella gestione dei rifiuti radioattivi
L’inadeguatezza della legislazione italiana rispetto all’amministrazione dei rifiuti radioattivi, come se non bastasse, favorisce la proliferazione di attività criminali di smaltimento illecito. Il “flusso” utilizzato per occultare questa speciale tipologia di materiali è quello del riciclo dei rottami ferrosi nella produzione di acciaio. La Commissione parlamentare d’inchiesta sull’ecomafia, nella relazione annuale dell’Ispettorato nazionale per la sicurezza nazionale e la radioprotezione (Isin), ha affermato: “Una costante e sempre maggiore attenzione deve essere rivolta ai depositi incontrollati di materiali radioattivi e ai siti contaminati accidentalmente a seguito di fusione di sorgenti radioattive verificatesi principalmente nel ciclo di produzione siderurgica da rottami metallici”. Inserire materiali contaminati o sorgenti radioattive da smaltire nei flussi di rifiuti gestiti più o meno legalmente è una modalità largamente utilizzata e in continua diffusione.
Ma non è l’unico problema. Fino ad oggi, infatti, è mancato un sistema di tracciabilità dei materiali prodotti dalle strutture sanitarie o in attività industriali. Il monitoraggio avviene sulla base di comunicazioni volontarie da parte dei soggetti che li producono, senza alcun obbligo e, quindi, nessuna sanzione.
Nonostante queste difficoltà, i risultati del lavoro svolto dall’Arma dei carabinieri confermano la presenza di un’illegalità “sommersa”, che si arricchisce a discapito della salute dei cittadini. Una forma di illegalità i cui elementi di diffusione e di pericolosità sono emersi anche dal Rapporto Ecomafia 2020.

Le inchieste fino ad oggi
Una delle prime inchieste fu aperta nel 1995 a Statte, dove vennero ritrovati dal Corpo Forestale 1.140 metri cubi di rifiuti radioattivi, in stato di deterioramento, racchiusi in strutture dello spessore di una lamiera, appartenenti alla società Cemerad. Tra i 14mila e i 18mila fusti, alcuni dei quali hanno tempi di decadenza di 9.999 anni. Nessuna bonifica è stata fatta dal 1995 ad oggi.
Nel maggio 2020, a Portosalvo, Vibo Valentia, durante una complessa indagine della Procura, è stata sequestrata un’area di oltre 100mila metri quadrati nella zona industriale dove erano stati “stoccati” rifiuti speciali e pericolosi, insieme a un consistente numero di “ecoballe”. La zona è stata “interessata dall’abbandono di rifiuti urbani, rifiuti speciali non pericolosi e pericolosi, tra i quali delle sostanze radioattive, più propriamente denominate sorgenti orfane”.
In ultimo, nel febbraio di quest’anno a Lecco, sono iniziate le indagini condotte dal Gruppo d’investigazione sulla criminalità organizzata della Guardia di finanza e dalla Squadra mobile di Lecco. Quest’ultime hanno portato allo smantellamento di un’associazione a delinquere, con forti connessioni con la ‘Ndrangheta, attiva nel traffico illecito di rifiuti. Tra il materiale rinvenuto, ci sono 16 tonnellate di rame trinciato contaminato radioattivamente.

Navi dei Veleni
Sono tante le navi, affondate in maniera sospetta, che secondo testimonianze e documenti investigativi risultano essere state caricate di rifiuti tossici e/o radioattivi. Navi che scompaiono dai radar, insieme ai loro equipaggi, senza motivo e proprio nei punti più profondi dello Jonio o del Tirreno. Secondo la Commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti della XIII legislatura sarebbero 39 gli affondamenti che non convincono, avvenuti tra il 1979 e il 1995.
“Le vicende giudiziarie connesse al presunto affondamento di navi contenenti rifiuti radioattivi nel Mediterraneo (al largo delle coste italiane e in acque internazionali) confermano, in modo clamoroso, quanto Legambiente va denunciando da anni: l’assoluta inadeguatezza dei sistemi di gestione e di controllo dei rifiuti radioattivi nel nostro Paese” recita il primo dossier dell’associazione ambientalista sull’argomento, “Rifiuti radioattivi: il caso Italia. Il libro bianco di Legambiente sull’eredità avvelenata del nucleare”, pubblicato il 19 giugno 1995.

Le proposte di Legambiente
Le proposte di Legambiente, alla luce delle informazioni raccolte nel dossier, sono diverse. Prima di tutto, l’associazione ambientalista ritiene fondamentale dare inizio ad una campagna di informazione chiara e trasparente nei confronti dei cittadini. Questo in funzione del proposito di coinvolgere gli stessi cittadini nelle future decisioni da prendere sulla questione.
È necessario, inoltre, risolvere le lacune presenti nel Programma nazionale rispetto ai brown field, ossia i siti attuali dove si pianifica di costruire delle strutture provvisorie che possano contenere i materiali radioattivi in attesa della costruzione del Deposito unico nazionale. Queste strutture provvisorie, una volta entrato in esercizio il deposito unico, non farebbero altro che sommarsi al resto del materiale da smaltire.
Infine, è indispensabile iniziare a lavorare sulla gestione e sullo stoccaggio dei rifiuti ad alta attività. Le quantità non sono tali da giustificare un deposito apposito per questa tipologia di prodotti, ma deve essere trovata una soluzione.

Foto al centro © Imagoeconomica

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