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di Lorenzo Baldo
Sono morto tante volte, se è per questo. La prima quando il Cile fu stravolto dal colpo di Stato; la seconda quando mi arrestarono; la terza quando imprigionarono Carmen, mia moglie; la quarta quando mi tolsero il passaporto. Potrei continuare”. Questa volta Luis “Lucho” Sepúlveda se ne è andato davvero. E il vuoto che lascia in questo mondo di pagliacci travestiti da pseudo-intellettuali sembra incolmabile.
Resisti al Coronavirus, Luis Sepúlveda!”, aveva scritto il nostro editorialista Saverio Lodato il 2 marzo scorso mentre lo scrittore cileno lottava contro il Covid-19 all’ospedale di Oviedo, in Spagna. “Sono tante le pagine meravigliose che hai scritto - ricordava Lodato . E sui Benetton hai detto cose che nessuno, in Italia, ha mai avuto il coraggio di scrivere!”.
Il sangue Mapuche è forte, e in me scorre quel sangue” aveva detto alcuni anni fa lo stesso Sepúlveda ricordando le origini della madre; era un modo per spiegare la sua resistenza al carcere, alle torture e all'esilio. Nel 2017, in occasione del festival “Pordenonelegge”, durante la presentazione di “Storie ribelli” (Guanda), il volume che raccoglie i ricordi di una vita vissuta intensamente, Lucho aveva toccato alcune corde della sua anima. Quella raccolta di testi, narrati con la sua magnifica penna, descrivevano una terra unificata dalla lingua: il Sudamerica. “Una lingua giovane - aveva spiegato Sepúlveda - che è nata da un incontro traumatico tra civiltà europea e popoli originari, fatta di tante culture diverse, è la mia unica patria possibile”. Ma quell’“incontro traumatico” continuava a riprodurre dolori mai sopiti che “pensavamo fossero conclusi”, raccontava amaramente Sepúlveda ricordando la vicenda di Santiago Maldonado, un artigiano ventottenne di Buenos Aires che sosteneva la lotta del popolo Mapuche, scomparso nei possedimenti patagonici del gruppo Benetton. Le sue parole sorvolavano quei 900mila ettari di terra di proprietà della potente impresa tessile italiana fondata nel ‘65 da Luciano, Gilberto, Giuliana e Carlo Benetton.
Nel 1991 i Benetton avevano acquisito per 50 milioni di dollari 900mila ettari di terre dalla compagnia Tierras Del Sur Argentino, principale proprietaria terriera nella Patagonia argentina. Poi, nel ’94, il presidente Carlos Menem aveva venduto quelle terre ai Benetton ad un prezzo alquanto irrisorio.
Ma quelle terre - si infervorava Sepúlveda riaprendo una ferita mai sanata - appartenevano e appartengono al popolo Mapuche, gli indigeni araucani che vivono in Patagonia da tempi immemorabili, ben prima dell’arrivo dei colonizzatori spagnoli. E, com’è noto, la terra è di chi l’abita. Nessuna legge potrà mai contraddire questo principio universale”.
Di fatto quei territori non servivano solo - come era stato ipocritamente affermato - a far pascolare pecore da lana per i capi delle linee di abbigliamento di Benetton. Stiamo parlando di terre ricchissime di materie prime e che, soprattutto, permettono il controllo delle risorse idriche della zona.
Vero è che quando il gruppo Benetton si è appropriato dei luoghi ancestrali dei Mapuche, non ha avuto alcuna remora nel procedere con gli sgomberi forzati di interi villaggi, sfollando le famiglie e sostituendole con quasi 300mila pecore da lana, per meri fini di marketing. Che Sepúlveda aveva avuto il coraggio di denunciare.
Prima di morire Lucho stava lavorando al nuovo romanzo “Agua mala”, di stampo fortemente ambientalista, che lanciava nuove sfide al Sudamerica: dalla grande industria della pesca e dell'allevamento, fino alla riconquista della sovranità nazionale da parte del radicalismo religioso.
Ma è nella prefazione al graphic novel di Désirée e Alain Frappier “Là dove finisce la terra. Cile 1948-1970” (Add editore) che scopriamo il viaggio nella memoria di cui parla Sepúlveda, “la memoria del Paese che abbiamo avuto, conosciuto, amato, e che - trattenendone il ricordo, con tutto il suo intenso desiderio di giustizia - un giorno recupereremo: quel giorno torneremo a essere cittadini liberi del Paese dove finisce la terra”. Quel sogno - a tratti utopistico per un paese in eterno conflitto con se stesso come il Cile - non ha mai abbandonato Sepúlveda, per tutta la sua esistenza. Una vita vissuta con amore, passione, rabbia, dolore, riscatto, in una continua escalation di morte e rinascita: l’ideale politico che diventa un impegno civile totalizzante, per poi finire martoriato dalla dittatura di Pinochet con indelebili lacerazioni del corpo e dell’anima per lui e per la donna della sua vita, la poetessa Carmen Yáñez. E poi ancora l’esilio, la sua strenua difesa degli ultimi, dei diseredati, degli oppressi, con la forza inesauribile della parola e della scrittura.
A chi gli chiedeva insistentemente quale fosse il ruolo dello scrittore Sepúlveda rispondeva schietto: “Prima sono un cittadino, poi sono uno scrittore che narra e descrive ciò che vedo”. Per poi aggiungere: “La favola è il genere che mi permette più degli altri di rimanere fedele ai sogni, perché mi consente attraverso il ricorso agli animali di allontanarmi dal comportamento umano , mantenendo la giusta distanza”. Una “giusta distanza” da quel comportamento umano raccontato magistralmente in capolavori come “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”, “Il mondo alla fine del mondo”, “Patagonia express” e tanti altri. Fino ad arrivare alla straordinaria “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”.
Ed è nella sua ultima favola “Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa” (Guanda) che ritroviamo l’ultimo vibrante e appassionato saluto di Luis Sepúlveda. “Non avremmo mai fatto il grande viaggio e saremmo rimasti lì, condannati per sempre a fuggire dall’avidità degli uomini. A migrare da un capo all’altro degli oceani per metterci in salvo”. (…) “Attraversai per l’ultima volta il canale fra la costa e l’Isola Mocha. I lafkenche radunati sulla riva mi guardarono in silenzio. Non avrebbero più chiamato 'Trempulkawe!' perché le balene vecchie portassero i corpi dei loro morti sull’isola, al ngil chen-maywe, il luogo dove ci si riunisce per intraprendere il grande viaggio che non avremmo mai fatto. E con nove arpioni conficcati nel dorso guadagnai il mare aperto, in cerca di altre baleniere, perché adesso ero io a inseguirle. Io, la forza di chi non ha più nulla da perdere”.
Prendi il largo, Lucho, quel grande viaggio è appena iniziato.
(17 Aprile 2020)

Foto © Imagoeconomica

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