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terra fuochi ansadi Amalia De Simone
Già tre morti tra i 500 studiosi che hanno lavorato sulla tratta campana
C’è un sito archeologico ogni 500 metri lungo i primi 200 Km della linea Tav Roma-Napoli. La scoperta è stata fatta dai tanti archeologi che per anni hanno lavorato su quel percorso che lo hanno precisato in alcune relazioni. Anche il gruppo ferrovie dello stato evidenzia centinaia di ritrovamenti in tutta Italia la maggior parte dei quali proprio sulla tratta Roma-Napoli, precisando che per quel percorso la voce "archeologia" ha inciso per il 5% dell’intero costo dei lavori. I reperti sono stati tutti catalogati e i siti coperti. Quella tratta per buona parte coincide anche con la cosiddetta terra dei fuochi e cioè un area compresa tra la provincia di Napoli e il casertano avvelenata dallo scarico abusivo ultraventennale di rifiuti tossici e dalla continua presenza di roghi velenosi. Sulla linea Tav, come nel caso di molte grandi opere vanno fatti obbligatoriamente scavi di archeologia preventiva. Le società che eseguono in subappalto il lavori della Tav per conto della Italferr (società delle Ferrovie che si occupa di infrastrutture) bandiscono così appalti che vengono aggiudicati da cooperative di archeologi e imprese. Il coordinamento scientifico dei lavori è della Soprintendenza che valuta e approva anche i curricula dei singoli archeologi. "Molti di noi si sono ammalati e qualcuno è morto - spiega l’archeologa Lidia Vignola, lanciando l’allarme -. È difficile perfino fare una conta perché molte malattie collegate al lavoro che abbiamo svolto si manifestano con il passare del tempo. So che ce ne sono tanti anche in altre parti d’Italia. Uno dei colleghi più cari che ho è morto di cancro proprio qualche mese fa". Il racconto di Lidia è sconvolgente: gli archeologi lavoravano affondati nel terreno avvelenato a contatto costante con polveri di amianto, con le ruspe in azione che sollevavano terreno in continuazione. "Le stime di Ana Campania (sezione regionale dell’associazione nazionale archeologi) contano già tre morti per cancro tra i 500 archeologi che si sono alternati al lavoro sulla tratta campana della Tav. - spiega Tommaso Conti, presidente di Ana Campania - È chiaro che come accade per gli ammalati di tumore della terra dei fuochi non si sa se sarà dimostrabile un nesso causale tra le condizioni di lavoro svolto sulla Tav per l’archeologia preventiva e le malattie e i decessi. Vorrei fare un appello a tutti i colleghi che hanno lavorato in queste zone di tenere sotto controllo la loro salute perché molte patologie possono manifestarsi anni dopo e insorgere in maniera latente e silenziosa. Purtroppo qui abbiamo lavorato tutti in condizioni di grave rischio. Sarebbe opportuno che preventivamente le società che si occupano dei lavori per conto delle Ferrovia dello Stato o le stesse Ferrovie comincino a fare bonifiche accurate così come normalmente le fanno per scongiurare la presenza di ordigni bellici. Soprattutto alla luce dei nuovi lavori che partiranno per la tratta Napoli-Bari". Anche Tommaso ha lavorato sulla Tav e racconta che furono loro a ritrovare e segnalare in un sito archeologico una discarica di amianto: "Passarono un anno e otto mesi prima che l’Arpac si occupasse di mettere in sicurezza la zona".

Scarichi continui
"Qui scaricavano di continuo - spiega Tsao Cevoli, all’epoca presidente dell’associazione nazionale archeologi - vedevano dei buchi e gettavano rifiuti, invece quei buchi erano scavi archeologici". "Noi facevamo scavi di archeologia preventiva, previsti quando si devono realizzare delle opere e ad un certo punto abbiamo anche trovato uno dei più importanti villaggi preistorici della civiltà occidentale - incalza Lidia - Ora è coperto dalle rotaie della tav". Passiamo accanto ai capannoni in lamiera che ancora oggi contengono i reperti archeologici ritrovati nei cantieri Tav: "Non sappiamo in che condizioni sono - spiega Tsao - quei capannoni erano malsani, pieni di muffa, bollenti d’estate e freddi d’inverno. Spesso arrivavano topi, rettili e insetti e dovevamo conviverci". Nel lungo giro intorno al percorso della tav vediamo tunnel e binari sfregiare campi coltivati e pascoli attraversati da greggi di pecore e capre. Un paesaggio ostaggio di barriere di rifiuti maleodoranti e dei regi lagni, dei canali costruiti in epoca borbonica e diventati degli sversatoi. Ai lati delle strade amianto, sacchi, fusti e perfino carcasse di auto. "Guarda là... stanno raccogliendo le patate. Noi le mangiavamo sempre perché restavamo ore ed ore sugli scavi e lavavamo la verdura con l’acqua con cui si irrigano i campi. Come abbiamo fatto? - si rammarica Lidia - non non potevamo immaginare conseguenze così gravi. Quando abbiamo cominciato a capire, chi si è lamentato con società, cooperative e soprintendenza è stato messo da parte. Loro non potevano non sapere in che condizioni si lavorava".

Il ricatto
Abbiamo provato a contattare la soprintendenza per provare ad avere chiarimenti o una replica sulla questione ma nessuno ci ha risposto. "Eravamo tutti sotto ricatto - continua Lidia - 80 euro lordi per una giornata di lavoro che a volte non finiva nemmeno con il buio. Se facevamo scoperte interessanti andavamo avanti illuminando gli scavi con i fari delle auto. Bisognava approfittare delle giornate buone perché se pioveva restavi a casa senza paga e per quelli come noi che lavorano senza tutele e garanzie sopravvivere diventa complicato. Dopo tanti anni di studio e sacrifici lavorare in queste condizioni è avvilente, ti aiuta solo la passione ma quando poi vedi gli amici ammalarsi e morire tutto diventa veramente insopportabile". Emilio Russo la passione ce l’aveva davvero e sapeva che doveva lavorare per la sua bella famiglia e così sul cantiere ci è andato fino all’ultimo giorno. Si era ammalato di melanoma. Il suo calvario è durato meno di tre anni. "Emilio era innamorato del suo lavoro: aveva scavato ovunque in Italia e all’estero e per un lungo periodo anche sulla Tav". Ha gli occhi lucidi sua sorella Maria Rosaria, soprattutto perché deve reggere lo sguardo triste della giovanissima moglie di Emilio e di una sua amica. "Ci raccontava che lavoravano su terreni maleodoranti e spesso tornava a casa con la pelle molto irritata. Lo faceva per passione perché le condizioni economiche erano assurde. Quando si è ammalato abbiamo subito pensato che ci fosse una connessione con la vergogna dei rifiuti e i veleni. So che anche altri suoi colleghi sono in quella stessa situazione. Bisogna parlare, denunciarlo: capisco che ognuno voglia tenersi stretto il lavoro ma quello che sta capitando a chi fa scavi di archeologia preventiva non è giusto".

Il tarlo della memoria
Lidia ha il tarlo della memoria, per questo dice di aver voluto fare l’archeologa e per questo motivo ha scritto un libro sul lavoro degli archeologi nella terra dei fuochi: "Non me lo pubblicherà mai nessuno... invece io volevo spiegare cosa è accaduto, il ricatto e l’omertà delle società e della soprintendenza". Dice che lo deve a se stessa, ai suoi colleghi, a quelli che arriveranno dopo di loro, per non dimenticare.

Tratto da: corriere.it

Foto © Ansa

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