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L’OPEC+ ha da poco deciso di tagliare la produzione di circa 2 milioni di barili di petrolio al giorno: il Ministero dell’Energia dell’Arabia Saudita ha dichiarato che Riyad ridurrà la produzione di 500 mila barili al giorno, gli Emirati Arabi Uniti di 144 mila, l’Iraq di 211 mila, il Kuwait di 128 mila, il Kazakistan di 78 mila, Oman di 40mila, Algeria di 48mila, a partire da maggio 2023.

Contemporaneamente, nel quadro del conflitto ucraino, il vice primo ministro russo Alexander Novak aveva già annunciato che anche la Federazione Russa sta estendendo la sua decisione di tagliare volontariamente la produzione di 500.000 barili al giorno da marzo fino alla fine del 2023.

Questi tagli seguono una tendenza che è andata crescendo dalla fine della pandemia, quando i prezzi record dell’energia sono stati guidati da un’impennata globale della domanda, mentre il mondo ha abbandonato la recessione economica causata da COVID-19, in particolare a causa della forte domanda di energia in Asia.

Il fatto che l’OPEC tenti di controllare i prezzi del petrolio tramite una riduzione della domanda è cosa nota, ma in questo periodo nuovi fattori hanno influenzato, e non poco, le politiche di questo cartello guidato dall’Arabia Saudita, primo fra tutti quello del graduale disimpegno occidentale nell’area.

Tensioni fra USA e Arabia Saudita

Il calo della produzione suggerisce che il pluridecennale patto “petrolio in cambio di sicurezza”, tra Washington e Riyad, stabilito tra il presidente Franklin D. Roosevelt e il re saudita Ibn Saud, a bordo dell’incrociatore Quincy, fin dal lontano 1945, si stia sgretolando.

Gli Stati Uniti ora importano molto meno petrolio saudita rispetto al passato; a questo si accompagnano varie azioni statunitensi, tra cui il desiderio di Washington di un accordo nucleare e una politica distensiva verso l’Iran, e la riluttanza a rispondere a un attacco iraniano a una raffineria di petrolio saudita ad Abqaiq, avvenuto nel settembre 2019.

Ultimamente è seguita poi una dichiarazione del segretario all’Energia degli Stati Uniti, Jennifer Granholm, che ha affermato che sarebbe stato difficile per gli Stati Uniti ricostituire la sua riserva strategica di petrolio quest’anno, sebbene l’amministrazione Biden avesse precedentemente affermato che lo avrebbe fatto, riducendo conseguentemente la domanda.

Questo mancato rispetto dei patti da parte americana ha aggravato, e non poco, le relazioni fra i due paesi, indebolendo gli storici legami militari e strategici. Il fatto è che le ultime mosse americane hanno minato la fiducia di Riyadh negli USA, che ora non considera più un’affidabile garante della sicurezza e degli interessi geo-economici dell’area.

A questo fa da sfondo la “transizione ecologica” annunciata dall’Occidente, una transizione che va nella direzione di una maggiore indipendenza da una materia prima come il petrolio ed un conseguente graduale disimpegno dall’area: infatti, in Occidente prevale l’opinione che la transizione energetica porterà al collasso i paesi produttori di petrolio.

Petrolio e transizione energetica

Una conclusione fatta senza fare i conti con chi attualmente ha in mano le chiavi del mercato dell’energia, secondo Jason Bordoff 1 e Megan O’Sullivan 2, esperti analisti. A loro avviso, la quota dell’OPEC nella produzione di petrolio durante questa transizione, di durata prevedibilmente pluriennale, crescerà. Se i leader occidentali non riusciranno a sincronizzare i tagli all’offerta e alla domanda, la transizione diventerà molto caotica, facendo aumentare quindi l’influenza dei paesi produttori OPEC+ 3.

Molto probabilmente, i prezzi del petrolio e della benzina lieviteranno quest’anno, soprattutto con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali statunitensi del novembre 2024, quando questi prezzi diventeranno una questione politica chiave. Con la capacità di limitare gli aumenti dei prezzi aumentando le forniture al mercato, Riyad aumenterà la sua influenza su Washington.

Le continue inadempienze dell’Occidente e l’inaffidabilità del sistema occidentale soggetto a continue crisi finanziarie, non ultima quella bancaria di quest’anno, sintomo di un imminente recessione4 hanno portato i paesi produttori ad un taglio dell’offerta ma, badate bene, solo quella indirizzata ai Paesi occidentali.

È notizia recente, infatti, che l’Arabia Saudita continuerà a fornire quantitativi di petrolio contratti con l’Asia: questo è quanto afferma un resoconto dei media, che ha rivelato che la compagnia petrolifera saudita, Saudi Aramco, una delle più grandi compagnie produttrici al mondo, intende fornire tutti i quantitativi contrattuali agli acquirenti dell’Asia settentrionale, nonostante il taglio alla produzione.

Fine del mondo unipolare?

Un messaggio chiaro e inequivocabile viene lanciato agli USA, secondo un rapporto britannico redatto da Helma Croft, responsabile della strategia delle materie prime presso la Royal Bank of Canada Capital Markets: “Il mondo non è più unipolare”.

Cambiano i mercati di riferimento anche in risposta alla transizione ecologica, e i continui contatti diplomatici di Arabia Saudita con Iran, Cina e Russia confermano questa tendenza.

L’Arabia Saudita è determinata a mantenere la stabilità regionale destreggiandosi abilmente nei rapporti con i partner chiave. Ha bisogno di collegamenti con gli Stati Uniti perché l’America gli fornisce armi, addestra i suoi militari e protegge le sue rotte di navigazione intorno alla penisola arabica, ma Riyadh ha bisogno anche della Cina come principale acquirente di petrolio e della Russia come partner chiave dell’OPEC+.

Gli Stati del Golfo sentono sempre più la necessità di badare a sé stessi e di garantire stabilità nella regione. Si privilegiano gli interessi nazionali: di conseguenza, la politica fiscale interna così come le relazioni diplomatiche, al di fuori dell’ombrello di sicurezza statunitense, portano a una temporanea convergenza con Russia e Cina, che potrebbe anche rafforzarsi in futuro diventando stabile e determinando nuovi equilibri nei rapporti di forza nella scacchiera internazionale.


NOTE


1 Jason Eric Bordoff è un esperto di politica energetica americano e un ricercatore specializzato nell’intersezione tra economia, energia, ambiente e sicurezza nazionale.

2 Meghan L. O’Sullivan è un’ex vice consigliere per la sicurezza nazionale in Iraq e Afghanistan. È Jeane Kirkpatrick Professor of the Practice of International Affairs presso la Harvard Kennedy School e membro del consiglio del Belfer Center for Science and International Affairs presso la Kennedy School.

3 Gli attuali membri dell’OPEC sono: Algeria, Angola, Guinea Equatoriale, Gabon, Iran, Iraq, Kuwait, Libia, Nigeria, Repubblica del Congo, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Venezuela. Un gruppo più ampio, chiamato appunto OPEC+, formato alla fine del 2016 per avere un maggiore controllo sul mercato globale, sulla produzione e sui prezzi, comprende oggi anche: Russia, Messico, Kazakistan, Azerbaijan, Bahrein, Brunei, Malesia, Oman, Sudan, Sudan del Sud.

4 fonte: www.money.it

Tratto da: clarissa.it

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