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Lo scorso venerdì si è tenuto il terzo Belmarsh Tribunal a Washington (i primi due si celebrarono a New York e a Londra), in una sede simbolica: il National Press Club. Si tratta di una sorta di corte alternativa a quella londinese dove si sta decidendo in merito all’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti. Com’è tristemente noto, il fondatore di WikiLeaks rischia oltre oceano una condanna a 175 anni di carcere. E in questi giorni il verdetto pare approssimarsi.

Il luogo prescelto è stato particolarmente significativo, perché lì Assange presentò tredici anni fa il video «Collateral murder», quel terribile materiale che documentava l’uccisione di civili innocenti in Iraq da parte di un elicottero statunitense Apache. Tra le vittime vi furono anche due giornalisti dell’agenzia Reuters e un padre che stava accompagnando i figli a scuola. Quel video fece subito il  giro della rete e suscitò tanto vaste reazioni critiche verso gli Stati Uniti, quanto un’immediata reazione coercitiva da parte di questi ultimi. Assange fu preso di mira e assurse al ruolo di nemico pubblico da buttare in una cella del peggiore penitenziario dell’amico americano.

Quel video fu come il fischio di inizio, dunque, della persecuzione messa in atto in sequenza dalla Svezia, dall’Australia, dalla Gran Bretagna e dagli stessi Usa contro un cronista scomodo per i poteri e le loro macchinazioni all’ombra di  segreti impronunciabili.

Il National Press Club è a due passi dalla Casa Bianca e anche questo ci vuole raccontare qualcosa. Il presidente Biden, pur sollecitato dal collega brasiliano Lula e da quello della Colombia Gustavo Petro, nonché da alcune delle principali testate del villaggio globale che a suo tempo collaboravano con WikiLeaks, per ora tace.

Il Tribunale si ispira agli omologhi voluti da Bertrand Russell e Jean-Paul Sartre, organizzati per indagare sui crimini americani nella guerra del Vietnam. La giustizia andava ricercata con rigore e precisione, fuori dall’ufficialità e dai suoi fariseismi. L’opinione pubblica va coinvolta e resa protagonista.

Dagli interventi è emersa nettissima la denuncia della falsa democrazia esibita da paesi che mascherano i propri misfatti con simulacri istituzionali, peraltro sempre più vacillanti. Assange, infatti, è solo il primo di una lista di ben 360 giornalisti incarcerati in giro per il villaggio globale, cui vanno aggiunti coloro che hanno perso la vita. L’informazione libera, capace di ficcare il naso negli arcani delle Cancellerie e delle guerre, va imbavagliata. Ecco l’ordine esibito. WikiLeaks è il capro espiatorio, l’ammonimento per coloro che intendono scrivere articoli o girare servizi in modo indipendente e tenendo la schiena dritta.

Nel corso degli interventi si sono sentite le voci di chi sta sostenendo tale lotta emblematica come giornalista, avvocato o con durissime battaglie giudiziarie: Steven Donzinger, Jesselyn Radack, Bett Nedsger, Stefania Maurizi, Daniel Ellsberg, Srecko Horvat, Amy Goodman, Jeffrey Sterling, Margaret Kunnstler, Hrafnson Kristinn, Chip Gibbons, Kevin Gosztola, Katrina Vandel Heuval. Alcuni dei nomi.

Si è sentito Jeremy Corbyn, che ha sottolineato come la politica vada sottoposta a verifica attraverso la libera informazione, senza la quale è difficile evocare la democrazia.

Particolarmente emozionante è stato il discorso svolto con una voce stanca e flebile dal padre di Assange, che ha metaforicamente urlato contro l’abbandono della Magna Charta e dello stato di diritto.

Il Tribunale alternativo vuole essere la critica pratica dell’insufficienza degli organismi internazionali, che dovrebbero vigilare e difendere le garanzie per le persone, insieme agli spazi della legittima denuncia dei crimini potenti e dei potenti.

Chi ascolterà un simile angosciante grido di dolore? Parlamento italiano, batti un colpo, per favore.

Fonte: il manifesto/Articolo 21

Tratto da: liberainformazione.org

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