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Giallo su un fascicolo svanito. L’ex pm Capaldo: “Qualche prelato sa”. Purgatori: “Muore Ratzinger e si apre l’inchiesta, coincidenza non da poco”

Finalmente la Santa Sede ha deciso di aprire un’inchiesta sul giallo di Emanuela Orlandi, la quindicenne scomparsa il 22 giugno 1983 nella Città del Vaticano. Per farlo, ha aspettato 40 anni e non ha nemmeno anticipato la cosa alla famiglia. Si vedrà. Sul giallo, intanto, in questi giorni si stanno rispolverando tutte le ipotesi investigative già battute in questo infinito lasso di tempo. Numerose sono le piste, numerosi i depistaggi e altrettanti gli attori presumibilmente coinvolti nella vicenda. Si parla di un giro di pedofilia. Ma anche di un sequestro legato all’attentato a Papa Wojtyla. Si parla dello IOR; di un ricatto finanziario che avrebbe a che fare con il crack del Banco Ambrosiano; di più casi di rapimenti di ragazze avvenuti quell’anno. E poi di altissimi prelati e al contempo di criminali della Banda della Magliana e servizi segreti. Tanti elementi, forse nemmeno così scollegati tra loro. Come in tutti i misteri della nostra Repubblica, i tasselli ci sono, ma vanno assemblati. La difficoltà sta nel come farlo.
Soprattutto in un caso in cui non è nemmeno dato sapere se la vittima sequestrata sia morta o addirittura ancora in vita, come ipotizzò L’Espresso in un’inchiesta del 2017 che la vedeva nascosta dalla chiesa a Londra.
Nel caso della povera Emanuela di certo c’è solo - e non è poco - che tutte le strade investigative percorse da familiari, giornalisti, e inquirenti portano dritte dritte dentro le mura del Vaticano, dove la giovane viveva e dove scomparve quel pomeriggio di inizio estate di quarant’anni fa. In questi giorni i maggiori giornali e televisioni sono tornate a parlare del giallo, intervistando chi, per anni, si è occupato di dare risposte alla famiglia della ragazza.
Uno di questi è sicuramente il magistrato Giancarlo Capaldo, allora procuratore aggiunto di Roma.
Credo che Emanuela sia entrata, con l'ingenuità dei suoi quindici anni, in un gioco troppo più grande di lei”, ha detto in una lunga intervista a La Stampa, commentando la notizia dell’apertura del fascicolo da parte del promotore della giustizia vaticana Alessandro Diddi e della Gendarmeria.
Capaldo ha indagato sulla scomparsa della figlia del commesso della casa Pontificia per anni e ritiene che la ragazza “sia stata sequestrata a fini di ricatto e poi riconsegnata da Renato De Pedis (capo della Banda della Magliana, ndr) a qualcuno inviato dal Vaticano” e di temere che “successivamente, sia morta”.
Il giallo finì sulla sua scrivania oltre dieci anni fa. Per circa sette anni Capaldo si occupò del caso ma solo per i primi quattro, dall’estate 2008 al mese di marzo 2012, dice, ebbe “la libertà di indagare”. Poi accadde qualcosa che lo portò a dover scavalcare, senza successo, una parete invalicabile. “La mia amarezza più grande è stata quella di essere arrivato a un punto di svolta e non essere riuscito a realizzarla per l'intervento di forze sconosciute, anche se individuabili”, ha affermato. L’inchiesta di cui era titolare finì per essergli sfilata da sotto il naso quando Giuseppe Pignatone, al tempo procuratore Capo di Roma, avocò a sé le indagini. L’avocazione avvenne a seguito di una fase molto delicata delle investigazioni, caratterizzata da una sorta di “trattativa” partita dai vertici della Gendarmeria del Vaticano.
La vicenda segnò particolarmente la famiglia della giovane, tant’è che Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, e figura cardine nello sforzo di ricerca della verità sul mistero, l’ha ricordata di recente anche al canale Today.it. Il periodo in questione è il 2011-2012. L’allora capo della gendarmeria vaticana Domenico Giani e il suo vice Alessandrini si erano recati in procura da Capaldo per chiedere che venisse traslata la salma del boss De Pedis, sepolto nella cripta di sant'Apollinare, al cimitero di Prima Porta a Roma, perché, ha ricordato Orlandi, la cosa “imbarazzava la chiesa”. Capaldo, però, avrebbe chiesto in cambio di “avere una mano sulle indagini che stava facendo su mia sorella”. E questi avrebbero risposto di essere “disposti a dargli un fascicolo in cui c’erano, a detta loro, nomi di personalità che avrebbero potuto avere un ruolo”. Gli stessi avevano però avvisato che oltre quei nomi non si poteva andare. Questo, ha osservato Orlandi, “faceva capire che sapevano i nomi che c’erano sopra”. Ma c’è un altro episodio segno di nota in cui si parla di sempre di un dossier redatto da mani del Vaticano riguardante il giallo.
Ed è sempre Pietro Orlandi a farne cenno ricordando quanto gli disse Paolo Gabriele, l’ex maggiordomo di Papa Ratzinger: “Mi riferì di aver visto sul tavolo di Padre Georg, che allora era il segretario di Ratzinger, una cartellina trasparente con scritto ‘rapporto Emanuela Orlandi’”. Gabriele, che finì al centro dello scandalo Vatileaks che inguaiò Papa Benedetto XVI al punto da costringerlo alle famose dimissioni, non potè fotocopiarlo perché spillato. E oggi che la giustizia Vaticana ha aperto l’inchiesta non potrà essere sentito perché deceduto nel 2020.
Ma “il fascicolo esiste”, ha ribadito Orlandi. “E probabilmente Giani, comandante della Gendarmeria, è stato incaricato di crearlo”.
Oggi Monsignor Georg Ganswein, nel suo nuovo libro sostiene che non esiste alcun dossier in Vaticano su Emanuela e che Capaldo aveva frainteso la visita di Giani e Costanzo Alessandrini in procura. Eppure due anni fa lo stesso Ganswein avrebbe confermato a Laura Sgrò, legale della famiglia Orlandi, che esiste un fascicolo e che si trova “in segreteria di Stato”.
Ovviamente anche l’ex procuratore Capaldo non è d’accordo con le conclusioni dell’ex assistente di Papa Ratzinger. “Difficilmente posso aver frainteso la visita dei gendarmi inviati dal Vaticano, soprattutto perché solo successivamente all'incontro hanno sciolto la loro riserva”, ha detto a La Stampa.
Capaldo, all’epoca dell’incontro con la Gendarmeria, fece presente ai due emissari che alla procura interessava intanto sapere se poteva avere risposte riguardo a Emanuela, se era ancora viva o meno. “Si sono rincontrati una quindicina di giorni dopo e la risposta è stata ‘Va bene’ ma a un patto - ha ricordato Pietro Orlandi - che la Procura avesse imbastito una storia verosimile che togliesse qualunque responsabilità del Vaticano”. “Quello già fu un’ammissione di responsabilità - ha commentato - perché gli dissero chiaramente che tutta la verità non potrà e non dovrà mai uscire”.
A un certo punto, sempre nel 2012, Capaldo “fece una dichiarazione pubblica dicendo che ci sono in Vaticano persone che sono a conoscenza di quanto accaduto e per quanto riguarda la tomba non riteneva al momento necessario aprirla”.
Fu allora, ha rammentato Orlandi, che “intervenne il capo della procura di Roma, Giuseppe Pignatone, che si dissociò da quelle dichiarazioni e gli tolse l’inchiesta, l’avocò a sé. E dichiarò pubblicamente che per quanto riguarda la tomba, la apriremo. Cioè fece quello che voleva il Vaticano non chiedendo nulla in cambio”. Lo stesso Pignatone, poi, “archiviò tutto”.
Mi sono opposto all'archiviazione, spiegando che dovevano essere espletati ancora molti interrogatori e approfondite le circostanze della scomparsa di numerose altre ragazze”, ha ricordato Capaldo a La Stampa.
Ma non è detta ancora l’ultima parola.
Secondo l’ex magistrato, “in Vaticano ci sono ancora persone che conoscono la verità, alcune direttamente e altre indirettamente. E conoscere la verità, con particolari dettagli, per taluni è stato decisivo nella carriera”. Ci sarebbero alti prelati a conoscenza di fatti riguardanti il sequestro, dunque. E di ciò ne sono convinti anche la famiglia Orlandi e l’avvocatessa Laura Sgrò che dal 2018 chiedono che vengano ascoltati alcuni importanti personaggi tuttora in vita. Tra questi lo stesso monsignor Ganswein; Don Piero Vergari, ex rettore di Sant’Apollinare (vale a dire il complesso dal quale sparì Emanuela Orlandi); il cardinale Tarcisio Bertone, che fu segretario di Stato al tempo della vicenda dell'apertura della tomba dove era sepolto De Pedis; monsignor Carlo Maria Viganò, che raccontò di aver ricevuto una prima telefonata la sera del rapimento, il Cardinale Sandri, anche lui quella sera era in segreteria di Stato e fino a poco tempo fa era prefetto per la congregazione delle Chiese Orientali; il cardinale polacco Stanislao Dziwisz, già segretario personale di Giovanni Paolo II; il vescovo Emery Kabongo, già vice di Dziwisz per Wojtyla; i monsignori Josez Kowalczyk e Tadeusz Rakoczy. E infine, tra gli illustrissimi delle stanze vaticane, il Cardinale Re, che la procura ha tentato invano di interrogarlo per anni, decano del collegio cardinalizio e ai tempi sostituto alla segreteria di Stato. Re era una figura molto vicina al Santo Padre al punto che è stato lui, lo scorso 5 gennaio, a celebrare il suo funerale. E riguardo alla figura controversa di Ratzinger, Pietro Orlandi ha un giudizio molto duro. “Nel suo pontificato non ha mai accennato nulla”, ha detto a Today.it.
Eppure Papa Benedetto XVIera quasi sempre a cena con Papa Woytila”, che al tempo del rapimento era in piena carica. “Ratzinger era quasi il braccio destro. Quindi no può non aver saputo di questa storia”. E soprattutto era Papa quando ci fu la “trattativa” per spostare la salma di De Pedis. C’è chi ha ipotizzato che le dimissioni di Ratzinger del 2013 fossero in qualche modo dovute anche al giallo Orlandi. Sono ipotesi, attualmente, senza fondamento. Ma, come ha detto il giornalista Andrea Purgatori, che ieri su Atlantide ha condotta una puntata dedicata al mistero, l’apertura dell’inchiesta della giustizia vaticana subito dopo la morte del pontefice “è una coincidenza non da poco”.
Intanto Pietro Orlandi spera di essere sentito per poter verbalizzare finalmente tutto quello che ha scoperto e raccolto in questi 40 anni: dai nomi, ai documenti, fino alle possibili piste da approfondire. L’inchiesta è stata aperta il 9 gennaio ma il fratello di Emanuela non è stato ancora convocato per deporre. Lo stesso vale per Laura Sgrò.

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