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Adriana Calvo Laborde è ancora viva. I suoi frutti sono presenti, infrangendo la linearità del tempo, e parla attraverso i suoi figli con voce rinnovata alle generazioni future. Le sue parole sono essenziali perché fanno parte dell'albero di una storia che, in maniera transgenerazionale, ci spiega chi siamo e in quale direzione andiamo. Ci danno l'opportunità di scegliere ancora cosa vogliamo essere.  
Come Adriana, i suoi figli portano incisa nel corpo una mappa del terrore. Sanno dov’è, quando e dove opera. Loro resistono all'apatia generalizzata di una società debole che guarda con indifferenza e continua ad andare avanti, naturalizzando così gli orrori quotidiani. Resistono, con il calore degli abbracci dei compagni di lotta, di quelli che ci sono ancora e di chi non c’è più, ma che formano parte di quel tesoro unico e prezioso che pochi hanno l'onore di conoscere e, ancora di più, di meritare.
I figli di Adriana Calvo e Miguel Laborde hanno testimoniato nella causa nota come ‘dei pozzi’ (*1). Nella giornata numero 60, martedì 29 marzo, sono state sentite le testimonianze di Martina, Teresa e Santiago Laborde. Nei loro sguardi il fuoco eroico dei loro genitori e di tutta la generazione di sopravvissuti al genocidio. Sono loro ad aver aperto e tracciato  l'unica strada possibile, che fino ad oggi ci permette di vedere un raggio di luce nella notte. Le loro parole sono frecce infuocate che incendiano la coscienza. La storia recente dell'Argentina è rappresentata in ogni gesto, pausa, pianto o espressione disperata che rammentano. Non si tratta solo del loro ricordo da bambini del terrore vissuto dai loro genitori durante la dittatura. C’è dell’altro. Ciò che persiste in questo presente. Che continua ad esistere impunemente in mezzo a una società anestetizzata dalla paura e che cerca un'uscita, vigliacca ed errata, insistendo nel guardare altro, per voltare pagina.  
Ma il seme della nostra libertà continua a diffondersi nel vento, al di sopra di quella marea di acqua sporca che tende a trascinare molti e a scioglierli nei labirinti infiniti della nostra mediocrità individuale. Prima o poi, i nostri sogni e desideri troveranno finalmente terreno fertile dove attecchire ed un luogo per crescere. Tutto il vissuto diventerà apprendistato e ‘Nunca más’ sarà la pietra miliare di una società nuova.

Le testimonianze
“Dopo 46 anni continuiamo siamo ancora qui ad esigere giustizia, che arriva tardi e con il contagocce. Ho potuto vedere virtualmente il living della casa di queste merde come Berges (*2) e mi ha fatto rivoltare lo stomaco. Uno li immagina in una stanza buia, non sa che sono ai domiciliari. Cioè si sa, ma no, la testa non lo vuole accettare. Te li immagini dietro le sbarre, in un posto oscuro e senza luce, invece sono seduti nel living di casa, bevendo del vino, mentre noi stiamo testimoniando”.
Queste le parole di Martina Laborde, nell’unico modo possibile per raccontare questa storia. Con una crudezza ed una  emozione incontrollabili. Con rabbia, impotenza, lucidità si è seduta a dare la sua testimonianza, con speranza: “Dopo 46 anni si sono seduti sul banco degli imputati un pugno di militari, senza che   siano mai stati giudicati civili, giornalisti, responsabili di mezzi di comunicazione, impresari e preti. Senza di loro la dittatura ed il genocidio non sarebbero stati possibili. Perché nessun popolo accetta, normalizza una simile aberrazione se non attraverso la menzogna e l'inganno. Sono riusciti a giustificare l’ingiustificabile, sono riusciti a far sì che la società  “abbia naturalizzato” e “naturalizzi”  la violenza e che sono tutti liberi. E loro continuano ad ostentare lo stesso potere che avevano prima, e finché non saranno giudicati tutti i responsabili non credo che cambieranno molto le cose nel nostro paese, perché continuano a mettere in campo  strumenti sempre più sofisticati  per ingannarci. E non c’è bisogno di una dittatura per imporci dei modelli economici che ci portano alla rovina, alla povertà e alla fame. Facciamo tutto da soli e votiamo i nostri oppressori”.
Dopo oltre un’ora è stata la volta di Teresa Laborde, la sorella minore di Martina e Santiago. E benché tutti conosciamo la sua storia, si è presentata in modo eloquente per assolverre  alle formalità del processo e comunque per non farci dimenticare: “Ciao, buon giorno, sono stata vittima diretta della dittatura. Nella mia famiglia sono sempre stata Teresa, nata in prigionia, ma a dire il vero se fossi nata in prigionia avrei vissuto in condizioni migliori, perchè la verità è che sono nata desaparecida e torturata”.
Teresa racconta la sua storia e ci proietta dentro un mondo che molti pretendono che rimanga lontano ed occultato
nel tempo. Tuttavia è presente e futuro, una storia che resta viva e che risorge sempre, ogni volta che viene raccontata  con ancora più forza. Come una missione segreta, continua a forgiare un punto di introspezione in ognuno di noi quando ce la troviamo di fronte, fino a definirci se siamo bianco o nero, tutto o niente: "Quella realtà parallela che ho vissuto mi ha fatto chiedere come può essere che la gente viva normalmente mentre quei militari sono ancora fuori. Io non ho mai capito come il mondo continuasse a girare. La stessa cosa succede sicuramente ai papà e alle mamme di Tehuel, a tutte le ragazzine e le madri che non ci sono…, Anche la polizia è complice di questo. La polizia è complice di tutto, così come anche i mezzi di comunicazione.


vittime pozzo bandfield laizquierdadiario


Quello che stanno facendo è che la soglia di tolleranza alle violazioni dei diritti umani sia sempre più alta. Se un torturatore di bebè, torturatore di donne incinte, ladro di neonati, torturatore per gusto (è sempre per gusto), se un sadico di quella razza  è comodamente seduto nella sua casa (*2), se una persona che ha leso tanti diritti è seduta nella sua casa, allora qualsiasi cosa è possibile. Qualsiasi cosa. E tutta la società continuerà a rimanere appesa a questa corda se non si fa veramente giustizia, se non si ha la possibilità di scriverre la storia della verità e di mandarli in prigione, perché io vorrei sapere per quale impedimento giuridico non vengono spediti in prigione.
E quale impedimento giuridico impedisce di andare a perquisire i luoghi dove sappiamo ci possono essere indizi su tutti gli infanti mai ritrovati. Se ci sono tante testimonianze che dicono che erano ricattate anche da preti, perché non controllano se in qualche chiesa, se in qualche posto, il potere ecclesiastico ha un registro di quello che hanno fatto con tutti quei bebè. Sono gli unici che possono farlo, sono gli unici, non mancano le prove, non manca niente, niente glielo impedisce”.
Nel pozzo di Banfield esisteva una maternità clandestina da dove sono passate 16 donne incinte. Teresa è l'unica neonata sopravvissuta a quel calvario che è riuscita a recuperare la sua identità. Nella sua testimonianza non ha mai omesso di ricordare ognuno dei bambini che non sono ancora stati trovati, né di ringraziare per il coraggio tutte le donne che, nonostante fossero indifese, la protessero evitandole di essere separata da sua madre. "Quando dicevano 'qualcosa avranno fatto’ sono sicura che intendevano dire che se li erano portati via, perché 'qualcosa avranno fatto', e la risposta è fermamente sì. Facevano qualcosa di fondamentale, ovvero mettersi al posto dell’altro.  Mentre oggi vogliono farci credere che non è possibile.
Ora ci vogliono far credere  che non siamo così, che siamo essenzialmente egoisti… Non è vero. Non è vero perché, se in quelle condizioni estreme di sopravvivenza  le compagne di mia mamma le davano il loro piatto di brodo caldo che ricevevano ogni tre giorni, è perché in realtà siamo essenzialmente empatici. Solo che dovremo metterlo in pratica un po' di più ed i 30 mila desaparecidos che si portarono via lo erano, anche perché sentiamo le testimonianze dei figli, delle figlie, dei fratelli ed erano operai che difendevano i diritti dei lavoratori, o erano avvocati che difendevano i diritti delle donne o dell’infanzia. Ognuno ed ognuna dei 30.000 faceva qualcosa, qualcosa che dovremmo fare tutti noi”.
Infine, è stata la volta di Santiago Laborde, l’altro fratello. Salvato in un primo momento da una vicina, che lo prese dalle braccia dei repressori quando andarono a sequestrare sua mamma Adriana. E dopo salvato nuovamente, quando tornarono per la seconda volta a cercare suo padre Miguel, il quale, per nasconderlo, lo passò alla casa adiacente attraverso la staccionata. Santiago, come le sue sorelle, ricorda anche la tragica sparizione di
Julio López  (testimone chiave di un processo contro il militare Etchecolatz, ndr.) come un punto di inflessione nella lotta e le numerose minacce che arrivavano a chi promuoveva i processi. “La mamma e le sue compagne dell'associazione erano viste come eroine che non si fermavano di fronte a niente. La notizia di López fu un brutto colpo e faceva anche paura. In quel momento non avevo figli  ma  nipoti, e ti chiedi  fino a che punto vuoi spingerti, ed il punto è stato raddoppiare. Raddoppiare la posta in gioco ed eccoci qui, a processarli dopo 40 anni  nelle loro case”.
Santiago analizza con equilibrio l’incidenza dei processi promossi dai familiari delle vittime. Fa un bilancio, con una prospettiva dei fatti accaduti, riconosce il valore del risultato ottenuto dai suoi genitori, dai loro compagni e li paragona, per esempio, con altri paesi come la Spagn, dove non si è mai arrivati a giudicare i crimini del Franchismo: "Qui non possono uscire a comprare il pane. Non possono uscire a comprare un arrosto, non possono riunirsi con i loro amici se ce l’hanno. Rimangono nelle loro case e moriranno nelle loro case.
E così, sia la mia famiglia, le mie sorelle e io stesso, abbiamo vissuto un’infanzia che ti faceva provare, non so se è la parola giusta, vergogna, ma non eravamo la normalità; la cosa positiva è che 40 anni dopo quelli che sono una vergogna sono loro. Quelli che provano vergogna nel portare il cognome dei loro genitori sono loro. Noi lo portiamo con molto orgoglio, non abbiamo niente da nascondere, diciamo il nome ed il cognome completo. Io so che c'è un'organizzazione che si chiama ‘historias desobedientes’ composta da figli di genocida, i quali,  a causa della vergogna per il cognome dei loro genitori, devono cambiarlo”.

Abbiamo memoria, ma anche loro ne hanno
Sono nato nel ‘76. Chi scrive fa parte della generazione dei figli di Adriana Calvo e dei neonati sequestrati durante la dittatura, che videro sostituita la loro identità e che ancora non sono stati ritrovati. Per questo motivo, nonostante io abbia un'esperienza di vita completamente differente, ho un doppio interesse nello scrivere questo articolo. In qualche modo, così facendo, si completa anche parte del percorso che tutti dobbiamo fare per riuscire a ritrovarci in un punto comune della storia.
Solo da adulto sono riuscito a realizzare quello che significa, per questa generazione, essere nato e cresciuto nel contesto dell'orrore di un sterminio. In un modo molto meno doloroso delle vittime dirette, ho cercato di sviscerare, in ogni step, parte di una storia seppellita sotto le pietre, per potere scoprire e realizzare col tempo, che quella storia era anche la nostra. In realtà, la nostra attuale incapacità  di risolvere le molteplici crisi e le psicosi emergenti in questo presente, non c’è dubbio che si riassumono ed abbiano  origine in questo trauma non risolto.
Ho frequentato Adriana Calvo per un breve periodo, essendo io studente e lei docente e ricercatrice presso la facoltà di ingegneria di Buenos Aires. Ricordo  sempre il giorno che sono entrato nel suo ufficio, aveva su una parete l’ articolo di un giornale molto conosciuto che parlava di Teresa, sua figlia. Per la prima volta ho compreso chi avevo di fronte e ho sentito qualcosa, che poi ho capito essere il peso della storia che cadeva su di me, tutta insieme.
Ho continuato il mio percorso, mi sono laureato, ho trovato un lavoro e ho continuato il mio progetto di vita. Non avrei mai immaginato che i miei anni da studente sarebbero stati contemporanei al periodo precedente a quello che avrebbe visto l’inizio dei processi dove, grazie ad Adriana ed altri, si riuscì a far condannare Etchecoltaz, per la prima volta, per genocidio. Cioè, mentre noi seguivamo i corsi  e facevamo strada nella nostra vita, Adriana ed i suoi compagni lavoravano per arrivare a quella giustizia riparatrice della storia.
Da allora mi sono sentito avvolto da una sensazione di inadeguatezza. La storia mi era passata accanto senza che io riuscissi a comprenderla. È da lì che ho cominciato a realizzare che l'orrore vissuto dalle vittime è allo stesso livello della nostra ignoranza. Ora vivo cosciente, o almeno ci provo, e vedo, in questo presente sgretolato in mille pezzi, la società che lotta per sopravvivere ai margini. So che coloro che negano queste calamità sono uguali a coloro che hanno vissuto il genocidio, negandolo nel suo momento. La loro vittoria si estende sotto forma di un manto infetto di ignoranza e pazzia. E mano a mano che ci copre, ci ammala e ci  uccide. In fondo, non è altro che la conseguenza del vivere sempre subordinati ad un stesso terrore che agisce libero, nascosto nella moltitudine.
I crimini di cui siamo testimoni avvengono nella piena luce del giorno, davanti a tutti. Per sconfiggerli bisogna prima affrontarli. Il terrorismo di Stato, quando è impersonato da qualche rappresentante della società, da qualche genocida militare o complice civile della dittatura che vediamo seduto nel banco degli imputati, rappresenta una scena che dobbiamo assimilare, come frutto del coraggio di coloro che, pur essendo stati vittime, sono riusciti a superare se stessi per aprire a noi il cammino. Sono quei pochi che oggi continuano a indicarci un orizzonte di uscita ed a mò di esempio, dimostrano all'umanità che dobbiamo essere all’altezza di rispondere. Dopo, tutto tende a sciogliersi nell'amalgama di una democrazia malata che tutto tollera e della quale, pertanto,  il peggio deve ancora venire fuori. 
Le testimonianze dei tre fratelli Martina, Teresa e Santiago Laborde rappresentano oggi un altro pezzo fondamentale nel puzzle dei processi per lesa umanità e del percorso di ricostruzione della memoria. Sono elementi di una storia che si assembla come in un'orologeria senza tempo, nella coscienza collettiva. Ne fanno già parte, a partire dalla prima attestazione di Adriana nel giudizio contro la giunta, dalle parole di Miguel suo padre e quelle di tutti i compagni sopravvissuti e dei familiari.  A tutti loro è dedicato questo articolo.
"Rivendico la lotta degli ex prigionieri desaparecidos, dei familiari, delle nonne, delle madri la cui lotta si identifica in questi fazzoletti colorati, che ci saranno sempre anche quando loro non ci saranno più. Facciamo questo affinché tutto questo non si ripeta mai più. Affinché mai più ci siano  campi di concentramento, né voli della morte, né manganelli elettrici e sequestri di neonati”.
Le parole finali di Martina Laborde, così come quelle pronunciate dai suoi fratelli, riflettono l'emozione e la profondità del nostro sentire.
E ci porta anche fare una riflessione che dipenderà da noi farla divenire un avvertimento, cioè che come popolo non abbiamo la capacità di rispondere con la giusta determinazione ad ogni appello alla lotta che si rinnova ora e sempre, fino a  che ci sarà giustizia.
"Non tutto è conservato nella memoria, conviviamo con i complici ed i soci di genocida. Ci hanno governati e possono governarci ancora. Non sono fantasmi, sono qui, li votiamo, vengono acclamati: noi abbiamo memoria ma loro anche".
Sono 30.000.
Per le generazioni future, affinché “nunca más” sia “nunca más” (“mai più”).
Né oblio, né perdono, né riconciliazione.
Fino alla Vittoria Sempre! Sempre! Sempre!

Note:


(1*) Processo ‘I pozzi’. Il processo ‘Pozzo di Banfield’ riguarda 254 vittime. Quello di ‘Pozzo di Quilmes’ 175. Il Pozzo di Banfield funzionava anche come luogo di maternità clandestina, dove la maggior parte delle donne partoriva. Il processo affronta,  in modo congiunto, anche  i crimini commessi nel Centro Clandestino dell'Infierno, operativo nell'Unità Regionale II della Brigata di Investigazioni di Lanús, che dipendeva dalla Direzione Generale di Investigazioni della Polizia Bonaerense. In totale sono 18 gli accusati, 442 le vittime e comprende 468 testimonianze. 

(2*) Berges, Jorge Antonio, ex medico della Polizia della Provincia di Buenos Aires in Argentina, condannato per delitti di lesa umanità commessi durante il Processo di Riorganizzazione Nazionale. Implicato nel Terrorismo di Stato, ha partecipato direttamente alle torture, come nel caso di Jacobo Timerman, al quale teneva la lingua affinché non annegasse mentre lo torturavano. Era anche responsabile del parto delle donne incinte sequestrate.

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