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Modellini, riproduzioni di portaerei Usa piazzati nel deserto Taklamakan, nello Xinjiang': sarebbero questi i bersagli che l'Esercito popolare di liberazione (Pla) cinese avrebbe scelto in una recente esercitazione, immortalata nelle immagini satellitari riportate dallo Us Naval Institute.
In particolare, sono stati riprodotti fedelmente una portaerei e due cacciatorpedinieri missilistici guidati, classe Arleigh Burke, non a caso in dotazione della Settima flotta Usa nel Pacifico occidentale, comprese le acque intorno a Taiwan.
Pochi giorni fa, stando all’ultimo rapporto annuale sulle capacità militari della Repubblica popolare preparato dal dipartimento della Difesa per il Congresso degli Stati Uniti, è emerso che la Cina sembra voler dotarsi di almeno mille testate atomiche entro il 2030 e oltre 700 entro il 2027.
“(I cinesi) sembrano aver deciso di andare in una direzione diversa: una volta avrei detto che stavano gradualmente incrementando le dimensioni dell’arsenale, ora sembrano cercare di portarlo a un livello diverso”, ha osservato una fonte anonima del Pentagono, citata dal “Washington Post”.
I segnali sono fin troppo evidenti, Pechino si prepara ad un inevitabile scontro militare con gli Stati Uniti; una evidenza oramai non più oscurata nemmeno dai canali diplomatici ufficiali.
Nessuna delle parti sembra voler cedere posizioni sulla questione dell’isola di Taiwan, considerata dalla Cina una regione appartenente alla propria sfera di influenza; oggi dominata da uno spirito indipendentista, che l’ha tuttavia trasformata effettivamente nell’ultima trincea dell’occidente atta a contenere l’inesorabile crescita egemonica del dragone sul piano economico e politico.
Oltre agli ingenti aiuti militari forniti da Washington, come confermato dalla presidente Tsai Ing-wen, lo scorso 28 ottobre, militari americani sarebbero già presenti sull’isola, impegnati nella formazione delle forze armate taiwanesi.
"Gli Stati Uniti si sono impegnati ad aiutare Taiwan a provvedere alla propria autodifesa", aveva precedentemente affermato Sandra Oudkirk, che ha assunto la carica di capo dell'American Institute di Taiwan a luglio.
Lo stesso Joe Biden, aveva clamorosamente ammesso che gli Stati Uniti sarebbero stati pronti ad accorrere in difesa di Taiwan, e “si sarebbero impegnati a difendere l'isola che Pechino reclama come propria”.  Una posizione in piena sintonia con i propositi dei falchi repubblicani, che, stando alle dichiarazioni sul Washington Post di Elaine Luria (vicepresidente della commissione per gli affari esteri della Camera), avevano introdotto a febbraio il Taiwan Invasion Prevention Act per concedere al presidente l'autorità di agire contro un'invasione dell’isola.
Nemmeno l’incontro tra il ministro degli esteri cinese Wang Yi ed il segretario di Stato americano Antony Blinken, a margine del G20 a Roma, sembra aver raffreddato gli animi.
Come riportato dal Global Times, Wang ha ammonito che "la questione di Taiwan è la più delicata tra la Cina e gli Stati Uniti, e se la questione è gestita male, porterebbe un danno sovversivo ai legami complessivi tra Cina e Stati Uniti", sottolineando che “il vero status quo della questione di Taiwan è che c'è solo una Cina, e Taiwan è una parte della Cina, e la terraferma e Taiwan appartengono a uno stesso paese”.
“Danni sovversivi ai legami complessivi Cina-USA" che secondo Lü Xiang, ricercatore all'Accademia cinese di scienze sociali, includerebbero “una guerra tra i due paesi” o altre conseguenze catastrofiche.
Lü ha affermato che è improbabile che gli Stati Uniti fermino le loro mosse provocatorie sulla questione di Taiwan e, in futuro, le tensioni militari nello stretto di Taiwan potrebbero intensificarsi ulteriormente.
Tensioni che rischiano sempre più di generare collisioni catastrofiche tra le forze armate dei due paesi, come denunciato anche da Wu Shicun, che dirige il National Institute for South China Sea Studies, il quale ha rievocato un incidente del 2018 tra un cacciatorpediniere statunitense e un cacciatorpediniere cinese: le navi erano transitate a meno di 41 metri (134 piedi) l'una dall'altra nel Mar Cinese Meridionale.
"Se lo stesso scenario accadesse a due sottomarini nucleari, questo diventerebbe un enorme disastro", ha ammonito Wu, in chiaro riferimento al sottomarino americano che il 2 ottobre si è schiantato contro un oggetto che, secondo la Marina degli Stati Uniti, era una montagna sottomarina nel Mar Cinese Meridionale.
Un’ipotesi purtroppo, niente affatto fantascientifica, tenendo conto che, secondo il South China Sea Probing Initiative, gli Stati Uniti hanno inviato ben 11 sottomarini nucleari nel Mar Cinese Meridionale solo nel 2021!
Mentre i media occidentali incalzano sulle incursioni di aerei cinesi nella zona di identificazione dell’isola di Taiwan, sono passate inosservate le parole di Wu Shicun, che dirige l'Istituto nazionale cinese per gli studi sul Mar Cinese Meridionale. L’esperto ha affermato che, solo quest'anno, gli Stati Uniti hanno effettuato circa 500 voli di ricognizione sul Mar Cinese Meridionale, che raggiungono quota 2000 se si aggiunge l’area del mar cinese Orientale e del Mar Giallo.
Si tratta di un incremento di attività di oltre il 100% rispetto allo scorso anno, quando il South China Sea Probing Initiative (SCSPI) ha segnalato poco meno di 1.000 voli da ricognizione.
Mentre le prime pagine dei giornali “mainstream” sono dominate dalla discussione sterile ed ipocrita dei capi di governo sul cambiamento climatico alla COP26 di Glasgow, diventa sempre più imminente un conflitto militare e nucleare di misura globale. Per dirla con le parole di Manlio Dinucci sul Manifesto: “Difendono il clima mentre preparano la fine del mondo”.

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