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Google e Facebook nel 2019 chiesero all’amministrazione Trump l’autorizzazione alla posa di un cavo sottomarino di 13mila chilometri che doveva collegare la costa californiana (Silicon Valley, non per caso) con Hong Kong (neanche qui c’entra il caso). Il progetto era decisivo per la nuova corsa all’oro del XXI-esimo secolo. L’informazione è bene immateriale per definizione ma la sua gestione porta con sé il controllo, la vendita, la distribuzione di dati che, in pratica, riguardano ogni “oggetto” dell’agire umano, individuale e collettivo, e - non c’è da stupirsene - ogni essere umano, che diventa a sua volta, un insieme di bytes, inclusi i suoi pensieri e i suoi desideri.

Una sola parola funge da denominatore comune di tutto ciò: controllo. Ed è grazie a questa parola magica che la tentazione di guadagni smisurati era ed è turbinante e irrefrenabile. Ma per raccogliere gli utili occorreva - ai tempi della richiesta della posa del cavo sottomarino - letteralmente sfondare tutto. La globalizzazione tecnologica poteva ormai abbattere interi Stati, cancellare intere comunità di uomini e storie di civiltà oramai obsolete. Ci voleva dunque un nuovo potere per stabilire un nuovo ordine. E un nuovo potere implicava la liquidazione delle vecchie élites politiche, mentre tutto sarebbe franato.

Come ottenere un nuovo potere e un nuovo controllo? Anche attraverso un internet concorrente delle dimensioni richieste da Google e da Facebook, che “ragionano” non come Stati Uniti, ma come entità sovranazionali che fanno anche una propria politica estera. Google e Facebook non sono soltanto delle compagnie private: sono colossi così imponenti che possono ormai competere con quasi tutti gli Stati del mondo e ricattarli, sottometterli, fino a batterli. Sono tra gli attori principali e, come tali, prendono decisioni politiche.

Anzi, dirigono l’orchestra, ora che Donald Trump non c’è più. Con Joe Biden non c’è più bisogno della posa del cavo che unisce la Silicon Valley ad Hong Kong: Facebook e Google vi hanno rinunciato. Perché sono riusciti a ottenere un grande rimescolamento delle élite mondiali, di quelli che Paul Krugman chiamò i “master of the universe”.

La Silicon Valley e i suoi prodotti, come Google, Facebook, Twitter, sono alleati del Partito Democratico, quello di Biden (e dei Clinton come degli Obama). E hanno deciso che è arrivato il momento decisivo, quello della guerra. Qualcosa, dopo gli straordinari eventi del 2020, non ha ancora girato nel verso giusto nella roulette dell’operazione di trasporto del capitalismo inclusivo in Russia e in Cina. E così Biden ai microfoni della Fox News, alla domanda dell’intervistatore, evidentemente concordata, dice “sì”, Vladimir Putin è un “killer”, concretizzando uno dei momenti più bassi della storia della diplomazia mondiale. Per ora da Mosca arriva la reazione del presidente della Duma, Vjačeslav Volodin, secondo cui Biden avrebbe “offeso i cittadini della Federazione Russa, in un clima d’isteria causato dall’impotenza. Putin è il nostro presidente e gli attacchi contro di lui sono attacchi contro il nostro Paese”, precisa il presidente della camera bassa russa.

Oggi si può dare definitivamente inizio all’ultima fase del grande reset; ora, proprio quando il nuovo Impero, guidato dai trilioni dei Rothschild, dal peso di Israele, dagli amici di Wall Street e della City of London, sta alzando la testa su di noi ed è pronto a liberarsi degli interlocutori ritenuti finora sgradevoli, quelli non allineati. La Russia è oggi l’unico Paese al mondo che può fermare la terza guerra mondiale, ma non potrà frenare la Cina. Non tutta.

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