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A distanza di 47 anni dal sequestro di Laura Franchi, riportiamo di seguito la sua testimonianza e quella delle sue due figlie, anche loro vittime di sequestro, rese nel corso della 12ª udienza del processo “Los Pozos”. Andremo a ricostruire questa storia, frammentata dall'apparato repressore del terrorismo di Stato, da 3 prospettive differenti. Da precisare che al momento dei fatti María Laura aveva appena 3 anni e mezzo e Silvina era ancora in gestazione nel ventre di sua madre. Pertanto, dal punto di vista dell'orrore inflitto, per loro il percorso della ricerca di giustizia, memoria e verità, parte direttamente da un punto di zero assoluto. Tuttavia, la verità si è fatta strada lungo il percorso intrapreso da queste tre donne, con la forza necessaria a portarci oggi vicini ad un'istanza riparatrice, attraverso la giustizia. E nonostante sia purtroppo trascorso così tanto tempo, questo è un altro dei grandi capitoli che sicuramente rimarrà impresso come un'altra grande vittoria della dignità umana sui peggiori crimini che il genere umano sia stato in grado di concepire.

Laura Franchi
Il 23 novembre del 1974 Laura Franchi, incinta di Silvina, viene sequestrata dalla polizia mentre faceva un picnic con un gruppo di amici e compagni nella zona del delta. Tra le persone portate via con la forza c’erano dei minori, tra loro sua figlia María Laura. L'obiettivo principale dietro l’arresto del gruppo era quello di cercare di ottenere informazione riguardo suo marito Mario Stirnemann, che militava nel PRT (Partito Rivoluzionario dei Lavoratori). Mancava ancora un anno e mezzo al colpo di Stato in Argentina, ma le forze di sicurezza iniziavano già a mettere in atto la metodologia del genocidio, facendo piazza pulita in quegli ambienti individuati come bersaglio.    

Furono portati dapprima al commissariato di Quilmes dove furono interrogati sotto tortura da personale specializzato. Tra i più colpiti Juan José Stirnemann, fratello di Mario e cognato di Laura, che "fu ridotto a un relitto umano". Laura rimase circa due giorni con sua figlia nella cucina del commissariato, cercando di contenere e alleggerire il più possibile tutto l'orrore che le circondava. Da dove si trovava poteva veder passare le vittime sottoposte a tortura dopo gli interrogatori o osservare i loro oggetti personali ammucchiati nel cortile del commissariato, raccolti durante la perquisizione nelle loro abitazioni eseguite contemporaneamente agli interrogatori. In quello stesso spazio, dovevano anche convivere con gli ufficiali che si presentavano con i loro indumenti macchiati di sangue per ubriacarsi tra un interrogatorio e l’altro.   

Maria Laura fu usata come elemento di ricatto per i suoi familiari e quei momenti non sono rimasti impressi nei suoi ricordi, ma nell'inconscio, da dove sarebbero emersi in modo naturale gradualmente. Dopo due giorni fu affidata a sua nonna materna e visse sotto la sua tutela fino all’esilio in Francia, dove si videro costrette ad andare.   

Sua madre Laura fu trasferita da Quilmes a Banfield. Durante questo periodo gli interrogatori aumentarono. Per la sua condizione di donna incinta, l'apparato repressore ebbe la "gentilezza" di affiancarle un medico che le sentisse il polso in modo da poter indicare ai repressori fin dove potevano spingersi con gli interrogatori. 

A Banfield venne "legalizzata" (registrata, ndr,) e successivamente trasferita nella prigione di Olmos. Passò dalla clandestinità ad essere accusata di associazione illecita e di far parte di un gruppo sovversivo. Quando era in stato avanzato di gravidanza il Dottor Leone (*), a carico del dispensario della prigione, le fece una visita ginecologica così violenta che le provocò un'emorragia. Fu portata d’urgenza in un posto semi abbandonato, molto sporco, dove la incatenarono ad una lettiga. Una custode che era sempre al suo fianco come guardia, si lamentava che non voleva più stare in quel posto perché c'erano topi. Grazie alla visita di un medico che chiese a Laura i propri dati a causa della situazione tanto delicata, la sua famiglia fu informata. L’intervento dei familiari fece sì che fosse trasferita in un policlinico.


franchi laura


Si scatenò una serie di scontri tra il personale medico che voleva offrire assistenza a Laura, e il personale della polizia che entrava nel reparto maternità per portarsela via. Contro la decisione del medico fu trasportata nuovamente ad Olmos, su richiesta del dottor Leone. Ma pochi giorni dopo dovettero tornare nuovamente al policlinico per il parto. Così nacque Silvina, durante il parto la madre rimase incatenata alla lettiga con la guardia che aspettava alla porta. La piccola nacque con un problema di lussazione ai fianchi che obbligava Laura a rimanere lì per poter stare insieme. Ma nuovamente il dottor Leone, di forte ideologia fascista, fu contrario e la obbligò a ritornare alla prigione di Olmos. A Laura era rimasta della placenta nel ventre, e dovette essere sottoposta ad intervento chirurgico nel dispensario della prigione. Dopo l'operazione ebbe una fortissima cistite e urinava sangue. Anni dopo realizzò che fu quella cistite tanto dolorosa a causare nel tempo la perdita di un rene.

Alla fine del 1976 Laura fu trasferita da Olmos alla prigione di Devoto sotto regime di massima pericolosità. Silvina venne affidata a sua nonna, che aveva già a carico l’altra figlia María Laura. Le visite diventarono molto sporadiche, attraverso un vetro e potevano parlare solo per mezzo di un telefono. Gli organismi di Diritti Umani chiesero un elenco dei detenuti registrati e da quel momento Laura figurava nell’elenco "ufficiale" dei prigionieri politici in Argentina. Avendo doppia cittadinanza, la situazione di Laura fu affrontata anche dall’Italia e il console le fece visita in carcere. Dopo sei anni di detenzione finalmente le offrirono l’opzione di restare in carcere o andare in esilio all’estero.

Tra i paesi che concedevano il visto le proibirono di andare in Italia, per cui Laura dovette scegliere tra differenti destinazioni che non conosceva e alla fine decise la Francia. Prima di andare via cercarono di farle firmare i verbali di morte di suo marito, assassinato nella repressione di novembre del ‘75. L'incertezza era totale e non c'era praticamente informazione di quello che stava avvenendo nel paese, quindi decise di non firmare niente per non fornire un elemento legale su qualcosa che lei non aveva chiaro come fosse successo. Il prezzo da pagare fu doloroso, perché a causa di quella scelta non le permisero di andare in esilio insieme alle sue figlie, e dovette andare da sola.  

Durante il viaggio le tesero una trappola nello scalo in Brasile, servendosi di un individuo che occupò il sedile al suo fianco, e cercò di farla scendere invitandola a prendere un caffè. Ma a bordo il capitano proibì di scendere dall'aeroplano, sospettando che poteva succedere qualcosa. Tempo dopo, venne a sapere che scomparivano persone anche grazie al coordinamento dell’apparato repressivo con altri paesi. 

Giunta in Francia Laura non conosceva assolutamente niente della sua nuova destinazione. Per sua sorpresa, nell'area di ritiro bagagli, un'ex compagna che era stata detenuta insieme a lei, le si avvicinò insieme ad un gruppo di membri di organismi di Diritti Umani. L'emozione fu enorme. Laura cominciava così una nuova tappa, ma la lotta sarebbe andata avanti per cercare di riportare le sue due figlie vicino a lei.

María Laura Stirnemann
María Laura iniziò a raccontare cronologicamente i suoi ricordi man mano che emergevano con il tempo. Provava ancora la stessa sensazione del giorno del sequestro e il trauma inconscio di quanto vissuto nel commissariato. Ha sofferto numerose crisi ed altri problemi che l’hanno portata ad essere sotto cura psichiatrica. Sua nonna, che si prendeva cura di lei nella città di Olavarría, la raccomandò al sacerdote che la sottopose ad esorcismo, ma in vano.  

Da quando sua madre era stata portata alla prigione di Devoto non ci furono più visite e non ebbe più contatto con lei. "Quando feci la prima comunione chiesi per posta al signor Videla di liberare la mia mamma affinché potesse venire alla festa. E mi rispose con una lettera dicendomi che non poteva liberare la mia mamma, ma che potevo andare a vederla e che quando fossi cresciuta avrei capito perché quelle persone erano in carcere. Riuscì a vedere mia mamma con il mio abito della comunione… Fu tanto importante perché erano circa 5 anni che non potevo toccarla”.


stirnemann maria laura


In Francia il primo obiettivo di Laura era recuperare le sue figlie e lottò con tutte le sue forze per riuscirci. María Laura e Silvina riuscirono ad andarci insieme alla nonna l’anno seguente, il 2 aprile 1982. Per loro fu molto traumatico stare con qualcuno che praticamente non conoscevano. Maria Laura non aveva praticamente ricordi del periodo di reclusione in cui erano state insieme, ma era sempre latente nel subconscio e i ricordi sarebbero emersi gradualmente. “Ebbi una relazione con un ragazzo che aveva problemi di dipendenza e ho sofferto violenza di genere. Un giorno mi fece fare una roulette russa, perché voleva che io gli dimostrassi una prova d’amore. Mi mise una pistola alla testa e sparò. Nel momento preciso che apro gli occhi mi arriva un ricordo. Prendo coscienza, ricapitolo e vedo una scena uguale. Al commissariato di Quilmes avevano fatto una roulette russa con me per far parlare mio zio. Noi eravamo state prese insieme a lui e lui veniva torturato per avere informazioni su mio padre e facevano pressione su di lui servendosi di me. Da quel momento in poi mi venivano come dei flash, dei ricordi. Alcuni mesi dopo ebbi un incubo e vidi mia mamma appesa ad una fune con qualcosa in testa, mentre la mettevano in acqua. Allora ricordai situazioni che aveva vissuto la mia mamma. In altre occasioni piangevo, quando ebbi mia figlia non potevo sentirla piangere. E lì mi sono ricordata che mi facevano ascoltare i pianti della gente che torturavano. Quella è un’altra forma di tortura, farmi presenziare torture per fare pressione sulle vittime”.

Già adulta decise di tornare in Argentina per scoprire la sua identità e riorganizzare il suo progetto di vita. Studiò antropologia e, lavorando negli scavi, riuscì a capire nel più profondo del suo essere che necessitava trovare suo padre per conoscere la sua vera storia. "Quello che ci avevano raccontato di mio papa è che lui era andato con una compagna in Brasile e ci aveva abbandonate (...) Cercai dati su di lui e investigavo. Riuscii a trovare i suoi resti nel cimitero di Lomas de Zamora. Quando riuscì a farlo dissotterrare e dargli sepoltura grazie agli antropologi forensi, constatai che era stato un omicidio, perché lo dimostravano gli indizi sul corpo. Cercai di far aprire un processo contro lo Stato, ma l'avvocato mi spiegò che erano vigenti le leggi sull’amnistia. Lasciammo in sospeso il fascicolo fino a quando le leggi fossero annullate. Con il tempo abbiamo formato il movimento HIJOS (Figli) a Parigi per lottare da qui. Quando le leggi furono annullate cominciammo con i processi per la morte di papà. Lui fu arrestato il 4 novembre del 1975, fu torturato per 14 giorni e poi lo uccisero il 18. I fatti sono dimostrati, ma non è stato possibile processare nessuno, perché gli accusati erano morti e non ci fu modo di fare giustizia. Per questo motivo rendo questa mia testimonianza, perché questo sarebbe il primo processo a poter dare un po’ di giustizia alla sofferenza della mia famiglia”.

Silvina Stirnemann
Silvina Valeria Stirnemann nacque in cattività nella prigione di Olmos il 27 aprile del 1975, sua madre Laura era incinta di 4 mesi quando fu portata al Pozo di Banfield. I ricordi dei suoi primi anni sono molto confusi. Subito i familiari che l’hanno cresciuta dopo essere stata un anno e mezzo con la sua mamma in prigione, compresero lo shock emozionale che soffriva. Da piccola faceva visita alla mamma periodicamente insieme a sua sorella e alla nonna nella prigione di Olmos ma, successivamente, quando fu portata a Devoto, le restrizioni erano molte e più difficili da superare. La politica di denigrazione non interessava solo i detenuti ma anche le famiglie subivano maltrattamenti ostacolando anche la possibilità di vedersi. A 7 anni andò a trovare sua madre in esilio e da lì cominciò la sua vita da zero: "In un certo modo mi salvò il fatto che nel più profondo della mia infanzia, riuscì a ricordare nella mia memoria l'abbraccio della mia mamma quando ero piccola. E quell'abbraccio fu quello che ritrovai in Francia e quello che mi diede di nuovo un'identità e senso alla mia vita. Lì riuscì a capire perché ero e perché esistevo, in poche parole, perché ero al mondo (...) Quando mi ritrovai con mamma, è come se mi fossi trovata in un certo senso anche con mio padre, perché per la prima volta sentivo raccontare la loro storia, l'amore che provavano l’uno per l’altra. Per molto tempo ho chiesto a mia madre di raccontarmi come si erano conosciuti e con quel racconto me ne andavo a dormire, tutte le notti le chiedevo lo stesso. Era un modo di recuperare quel legame, capire chi era mio padre, sapere che esisteva, sapere che io non ero la figlia del vento e che non venivo dal niente”.


stirnemann silvina


In Francia tutto risultò molto complesso per le tre. Oltre ad essere un paese straniero, di cui non conoscevamo neppure la lingua, si trovavano per la prima volta insieme, costrette a ricostruire attraverso la convivenza quotidiana quei legami che erano stati interrotti e attraversati da situazioni cariche di grande sofferenza. Come madre, Laura cercava di proteggerle e di essere prudente riguardo temi tanto complessi come il vissuto durante la cattività e la prigione, e la situazione di suo padre come desaparecido. Si trattava naturalmente di situazioni non del tutto risolte e tanto complesse da affrontare, ma allo stesso tempo necessarie per la ricerca dell'identità che in entrambe era stata stroncata: "Io le chiedevo perché volevo sapere di più, ma allo stesso tempo era molto difficile, perché tutto era impossibile da esprimere a parole. Lei ci parlava sempre della parte bella dell’impegno sociale, delle sue compagne ed io sentivo che avevo bisogno di più da quelle risposte. Ad un certo punto decisi di chiederle di raccontarmi come aveva vissuto il mio parto. Io avevo 13 anni. Non avevo elementi, solo il racconto di altri sulla mia stessa vita, era tutto molto fragile quello che avevo come ricostruzione. Glielo chiesi come qualcosa che mi doveva dire, qualcosa che io avevo bisogno di sapere. E incominciò a raccontarmi come sempre prima le cose più facili da dire e poco a poco il racconto si fece più profondo e quando iniziò a raccontarmi del suo parto, chiuse gli occhi e lì mi resi conto che io le stavo facendo rivivere l'orrore e che non avevo diritto di fare quello. Fu l'ultima volta che decisi di chiederle in quel modo così diretto quella parte della storia. (...)

Silvina, essendo giovane, iniziò a cercare altre strade e presto cominciò a studiare diverse discipline come la letteratura, teatro e lingue che le permisero di dare un senso al suo mondo e di ampliare la capacità di pensiero. (...) "Ho studiato sociologia politica per capire come si formano gli enti di potere e ho fatto la mia tesi sul perdono e la giustizia in Argentina. Ho intervistato madri, figli e tutta la gente che poteva dirmi qualcosa, spiegarmi, ho letto tanto, ho cercato dall'interno stesso della storia, confrontandolo con quello che pensavano i grandi autori. Mi sono resa conto che il perdono non poteva esistere con persone che non erano nostri simili ed i genocida si sono spinti troppo oltre. Mi sono resa conto che l'unica cosa che poteva riparare questa storia, la nostra storia, come gruppo, come popolo, era fare giustizia. Riuscirci era un orizzonte. Era qualcosa che ci permetteva di ricostruire e poter vivere insieme di nuovo, rifare un contratto sociale, ampliare diritti. Durante la mia laurea, piangevo e avevo l'impressione di non riuscire a rispondere… avevo la conoscenza ma non avevo la possibilità di affrontare tutto quello in quel luogo. Era il ‘98 e vigeva una totale impunità in Argentina. E per non diventare matta andai a studiare cinema, continuai a militare, ma cambiando il mio approccio di fronte a questa storia, per viverla da un punto di vista emozionale puro, perché dal punto di vista razionale è inspiegabile quello che viviamo. Questa è stata la mia conclusione, che non riuscendo a capirlo dobbiamo comunque poterlo sentire e ricostruire noi stessi da quella ferita emotiva che ci è rimasta dall'infanzia, per me da sempre. Io sono nata con quella ferita". 

"Signori giudici, la giustizia riguarda anche il prossimo. Uno può ricostruire tutto, ma la giustizia è anche l'altro, non si può fare giustizia da soli. La giustizia è la parte della costruzione collettiva, di quello che vogliamo per vivere insieme e di quello che ti rende parte di una storia. Per mia madre Laura Rosa Franchi, per mio zio Juan José, per mio padre Mario Alfredo Stirnemann e per tutta la mia famiglia ho bisogno che sia fatta giustizia e quindi che sia pronunciata una ferma e giusta condanna. Molte grazie”.

Che così sia.

In corsivo: dichiarazioni testuali durante l’udienza.

*
Il dottor Leone fu giustiziato durante un’operazione dei Montoneros.  

* Pozos: (Pozzi) Centri di detenzione durante la dittatura

Foto: telam.com.ar

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