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Open Arms ormeggia a Trapani dopo aver salvato centinaia di persone durante un naufragio al largo delle coste libiche

Circa 250. È il numero di persone trasferite ieri mattina dalla Open Arms, ormeggiata al largo di Trapani, alla "Snav Adriatico" che sono state messe in quarantena. Sulla ONG vi erano, però, anche cinque cadaveri di un recente naufragio. Ma per comprenderne la presenza si deve ripercorrere l'ultima missione di soccorso della nave spagnola.
È l'11 novembre quando alla Open Arms, reduce da una recente missione di soccorso, giunge la segnalazione di un gommone situato 30 miglia a nord delle coste libiche di Sabrathain, città poco distante da Tripoli. Un fazzoletto di mare che, secondo la Guardia Costiera italiana, è un'area "SAR" (“Search and Rescue”) di responsabilità libica.
Nonostante questo, però la spagnola viene contattata da un velivolo della Frontex, l'Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, in quanto "mezzo più utilmente impiegabile al momento".
Raggiunto il punto indicato, i volontari si trovano di fronte una "complicatissima operazione di soccorso": il gommone con a bordo “più di cento persone”, tra le quali alcuni bambini e donne incinte, cede e le persone cadono in acqua, molte di loro prive di salvagente e dispositivi di sicurezza. I pochi che riescono si aggrappano al gommone dilaniato, gli altri annaspano cercando le mani dei volontari per salvarsi.
"[...] Cedió el suelo de su patera, es lo que pasa cuando se les abandona en el mar" ([...] Ha ceduto il suolo del gommone, è ciò che succede quando si abbandonano nel mare"), ha postato tempestivamente il profilo Instagram ufficiale dell'organizzazione non governativa (@proactivaopenarms). Profilo su cui è stata documentata l'intera operazione di soccorso, o meglio, il naufragio.
Scene che per un istante possono sembrare surreali o tratte da un film. Ricordano "La zattera della Medusa", il dipinto di Théodore Géricault, realizzato nel 1818, in cui l'autore ritrasse una zattera di fortuna con a bordo le uniche 15 persone (di una ciurma composta da 150 unità) che si salvarono durante un naufragio.
Probabilmente il gommone era in mare da due giorni (lunedì 9 novembre) e "già̀ martedì̀ sera - si legge in un post dell'ONG - era partito un Sos rilanciato dal centralino Alarm phone. A bordo c’erano 120 persone".
Poche ore dopo soccorrono un'altra imbarcazione con a bordo 64 migranti. Nemmeno il tempo di compiangere i cadaveri del primo "rescue" (come si chiama in quegli ambienti). Ma questa è la cruda realtà del Mediterraneo, del fenomeno migratorio. Una visione completamente fuori dallo "speech" politico dell'Italia, dell'UE e non solo.

Joseph e Bangaly: bambini prima di essere numeri
Oltre ai migranti salvati, i volontari portano a bordo anche cinque cadaveri, gli unici che sono riusciti a recuperare, strappandoli dalle grinfie del mare per dare loro un'identità. Perché i "numeri" hanno nomi e storie da raccontare. Come quella del piccolo Joseph, un bimbo guineano di appena sei mesi rimasto in mezzo alla tragedia per molto tempo senza la madre, tratta in salvo prima di lui. "I've lose my baby" ("Ho perso il mio bambino") grida la donna disperata con una voce straziante, mentre si sporge dalla scialuppa di salvataggio come per tuffarsi in cerca del figlio.



Una volta tratto in salvo il bebè, l'equipe medica della Open Arms lo soccorre d'urgenza ma, nonostante gli enormi sforzi, Joseph non resiste. Viene a mancare a bordo della ONG mentre aspetta di essere evacuato d'urgenza.
Una piccola anima che, come scrive l'artista Federica Giglio nella sua ultima vignetta: "Ci ha messo di più a nascere che a vivere".joseph c in buona fede La sua dipartita porta a sei il numero di chi ha perso la vita nel naufragio. Sei come i mesi della sua tenera età e come gli anni di Bangaly: anche lui un bambino con una storia cruda da raccontare.
Quest'ultimo, con la purezza tipica di un fanciullo, racconta ciò che ha vissuto ad un operatore della Open Arms mentre questi lo filma per documentare gli esiti finali dell'operazione di salvataggio. Bangaly è seduto a terra, veste una maglia della Juventus ed ha la tipica "s" moscia frutto della sua età. Alle spalle vi è seduta una donna (all'apparenza simile alla madre di Joseph) la cui identità è ignota. Lo aiuta a parlare e formulare bene le frasi visti i suoi giovanissimi 6 anni.
"Eravamo nella nave, l'acqua è iniziata ad entrare, la nostra barca si è rotta ed ho bevuto tanta acqua - racconta il bambino -. Poi ho afferrato la corda della barca e le persone mi hanno portato fuori [...]. Questa mattina ho chiesto a mio papà: "Dov'è la mamma?" e lui mi ha risposto: "Non lo so"" conclude perdendo il suo sguardo nel vuoto più totale. Forse proprio in quel momento realizza ciò che aveva da poco vissuto.



Purtroppo “la mamma di Bangaly è deceduta ed il suo corpo è a bordo, ma nessuno potrà restituirgli il futuro assieme a lei”, fa sapere la stessa ONG.
Queste due brevi, tragiche storie sono solo alcune delle migliaia che da anni vengono nascoste dietro numeri che riempiono le pagine dei giornali e le bocche dei politici in tema d'immigrazione. Sono vite segnate per sempre.

Il lockdown non vige nel Mediterraneo
Quest’ultimo naufragio è la dimostrazione che il lockdown ha fermato il mondo ma non la disperazione. Il Mediterraneo da anni è teatro di immani atrocità impunite. Un grande ossimoro in cui da un lato vi è la Sicilia "bedda" e dall'altro i lager di Tripoli.
Un teatro di disgrazie inenarrabili in cui a decidere le sorti finali di chi si mette in viaggio è un fatidico destino, che intreccia le vite spesso in modi bizzarri: un bambino in cerca della madre ed una mamma che piange suo figlio. Ecco cos'è il Mediterraneo, la più grande fossa comune mai esistita. Non ci sono lapidi, nomi o messe. Non ci sono preghiere. Gli unici angeli sono i volontari che, piuttosto che domandarsi se salvare una vita in mare o meno, tendono la mano rischiando la loro.
Il governo italiano, da questa ennesima disgrazia, dovrebbe prendere atto dall’urgenza di politiche volte alla risoluzione concreta dei problemi sociali che spingono migliaia di donne, uomini e bambini a sfidare il destino funesto di un mare impervio. L'Europa ha l'obbligo di organizzare corridoi umanitari e iniziare a considerare il nostro Paese in qualità di "porto europeo" aiutandoci a salvare i migranti e aprendo le proprie frontiere per un’eque distribuzione di flussi (tenuto conto che molti migranti vedono l’Italia come Paese di transizione).
Solo così si potrà porre fine a questo lungo e drastico capitolo e fare in modo che “La zattera della Medusa” rimanga solo un bellissimo dipinto e non un fatto di cronaca estera.

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