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di Alessia Candito
Oltre 500 migranti vivono anche in otto in una tenda nella Piana di Gioia Tauro che rischia di diventare un focolaio

Gli schermi dei computer rattoppati, qualche sedia sbilenca, un paio di vetri rotti. È tornata la calma alla tendopoli di San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro, ieri agitata dalle proteste di una ventina degli oltre 500 braccianti che lì sono costretti a vivere, a dispetto delle prescrizioni di distanziamento sociale da più di un mese approvate per decreto. Ad innescarle l’ultima mossa dell’assessore regionale leghista alla Sicurezza, Nino Spirlì, che alle richieste di aiuto per reperire derrate alimentari avanzate dai braccianti ha risposto tentando di imporre un servizio mensa.

Una provocazione per molti dei lavoratori che lì sono costretti a vivere, che hanno letto l’iniziativa come un tentativo di usare l’emergenza per tentare di strappare loro uno dei pochi diritti acquisiti, quello di cucinare da sé, magari secondo usi, costumi e credo. In più, spiegano dalla Cgil, l’annunciato stanziamento di 2 milioni di euro dei fondi regionali anticaporalato aveva fatto sperare i più in soluzioni diverse e più concrete. Uno sparuto gruppo ha reagito con proteste accese, tracimate nel danneggiamento del gabbiotto all’ingresso della tendopoli, dove ingressi e uscite vengono registrati.

“È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso” spiegano Medici per i Diritti Umani, Mediterranean Hope - programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), SOS Rosarno, Sanità di Frontiera, Csc Nuvola Rossa, Co.S.Mi. (comitato solidarietà migranti) e Hospitality School, associazioni che regolarmente forniscono loro assistenza sindacale, sociale, medica e sociale ai braccianti. La Regione, affermano, per l’ennesima volta dimentica che non si tratta di mendicanti ma di “lavoratori di norma sfruttati e che a causa dell’attuale emergenza si vedono negata la possibilità di recarsi sul luogo di lavoro poiché sprovvisti di un regolare contratto”. E chi lo ha, magari lavora in Comuni o Province limitrofe, divenute quasi impossibili da raggiungere con le attuali restrizioni. Senza lavoro e senza risparmi, i più non hanno di che vivere.

Questi lavoratori - tuonano le associazioni - non avrebbero bisogno di carità “ma di vedersi riconosciuti, nel quotidiano e non solo ai tempi del coronavirus, dei basilari diritti di cittadinanza quali l’accesso alle cure, ad un’abitazione dignitosa, ad un lavoro non sfruttato”. Rivendicazioni antiche, che mentre l’epidemia avanza a Sud si fanno più urgenti. Il Covid19 fa paura anche ai braccianti di San Ferdinando. Costretti a vivere anche in otto in una tenda, con una decina di moduli di servizi igienici da dividere, imprigionati in un recinto di tende blu ministeriali, i lavoratori migranti sanno di vivere in una situazione di pericolo e che un solo caso di contagio trasformerebbe quell’assembramento naturale in un focolaio. Una preoccupazione condivisa con le associazioni che da settimane chiedono di svuotare la tendopoli e i ghetti, anche solo per disinnescare una potenziale bomba sanitaria.

All’assessore regionale alla Sicurezza avevano presentato anche una serie di proposte concrete ed una road map per realizzarle, ma sono rimaste lettera morta. Tendopoli e ghetti continuano ad essere una potenziale bomba sanitaria. Ma il leghista Spirlì e il resto della Giunta, nonostante le assai risicate dotazioni della sanità calabrese, hanno pensato che bastasse un servizio mensa. E adesso si indignano “è vergognoso che la gente muoia di fame e loro rifiutino il cibo - si legge in una nota - Non è questo il modo di rispondere ad un’offerta umanitaria”. Per questo “ora è il tempo dei calabresi! Sto approntando un piano per aiutare le famiglie in difficoltà”. Con i buoni spesa già approvati dal governo.

Tratto da: repubblica.it

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